DORA E BEATE di Anna Di Narda

Foto di pixabay

Dora passava ogni giorno davanti alla villa veneta circondata dall’ampio parco con pini secolari. Con la sua cinquecento azzurro chiaro rallentava nei pressi dell’isolato e girava velocemente la testa in cerca del border collie elegantemente seduto davanti all’ingresso.

Quello era l’appuntamento abituale fra di loro delle ore otto e quindici che era regolato da una sequenza abituale: svoltata a destra della macchina, incrocio di sguardi, auto parcheggiata, cento metri più in là, nell’ampio parcheggio del consultorio comunale.

Poi, con immancabile premura, la dottoressa Dora Piccin raggiungeva lo studio di Meduno, comune alle pendici delle alpi friulane e schiacciava il tasto della segreteria telefonica per ascoltare i messaggi.

Iniziava così la lunga e faticosa giornata dell’assistente sociale alle prese con problematiche di svariata natura e difficoltà.

Si trattava per lo più di richieste di persone anziane in situazioni di disagio che lei, attraverso una rete di collaboratori riusciva a gestire, non senza intoppi, ma nel migliore dei modi.

Poi, verso le diciassette, a bordo del bolide turchese riprendeva la strada di casa non prima di aver salutato da lontano, con un sorriso, il dolcissimo animale bianco e nero.

I cani le piacevano tanto, ne avrebbe desiderato uno, ma Luca, il suo compagno, aveva constatato che il loro appartamento di Pordenone, non era il luogo adatto per un animale che si sarebbe sentito soffocare in sessanta metri quadri e ne aveva rimandato l’arrivo a tempi futuri.

A Dora non era rimasto che pazientare!

Aveva provato a chiedere alle infermiere di zona chi abitasse in quell’edificio grigio così finemente ristrutturato, ma non aveva ottenuto che piccole informazioni:

«Lì abita la figlia della Contessa Ripaldi, una bella signora sui quarant’anni che ora convive con un allenatore di pallacanestro. Lui si vede in giro nelle discoteche e nei pub, ma sempre solo. Lei esce poco, è molto riservata e scrive romanzi.»

Questo, era quanto Dora sapeva degli abitanti della casa che non conosceva.

A volte, li scorgeva da lontano nel parco.

Con cadenza bisettimanale vedeva un’utilitaria parcheggiata sotto il loggiato posteriore dell’edificio. Riteneva che potesse appartenere ad una persona di servizio.

Quella mattina di fine settembre, iniziò per Dora in modo diverso.

Stava, infatti, per svoltare con l’auto verso il consultorio, quando incrociò una volvo che, appena uscita dal cortile della villa, procedeva a tutta velocità in direzione Pordenone.

Intravide al volante un bell’uomo con occhiali da sole e camicia bianca che ritenne fosse l’allenatore di cui le avevano parlato.

La velocità dell’auto e il fatto che per poco non avesse procurato un incidente con la sua, le avevano causato notevole agitazione.

Ci fu, poi, un altro particolare che la insospettì: non c’era il border collier, né davanti casa, né tantomeno nel parco.

Parcheggiò e provò a cercarlo da lontano. Non vedendolo, la pervase un filo di ansia.

In ufficio verso le undici e quindici mentre stava discutendo con la signora Tancredi, su come far ospitare la sorella nella casa di riposo di Zoppola ricevette una telefonata.  

Una telefonata muta.

«Pronto! Dottoressa Piccin… Pronto…Pronto…»

 Non ebbe alcuna risposta.

 Insospettita, più tardi, approfittando di un momento di pausa uscì nel cortile in cerca del border collie.

Con grande sorpresa, vide che il cane era seduto davanti alla sua auto.

«Tesoro cosa fai qui?» chiese spontaneamente all’animale.

Lui rizzò le orecchie e piegò il muso di lato come per dare una risposta.

Dora si avvicinò e notò che appeso al collo c’era una targhetta. La lesse e capì che il cane era una femmina e che si chiamava Beate.

Dora non sapeva cosa fare.

Si affidò all’istinto e si mosse in direzione dell’abitazione.

Beate la seguì immediatamente ma, poco dopo, la   precedette a trotto sostenuto. Nel gesto del cane lesse una richiesta d’aiuto. Raggiunse velocemente il cancello, provò a suonare inutilmente il campanello. Poi, seguì Beate, correndo, sul lato posteriore della casa dove c’era un altro ingresso. Pensò, solo per un attimo, che stesse facendo una cosa scorretta, trattandosi di una proprietà privata, ma si fidò di Beate.

Riuscì ad entrare nella sontuosa abitazione, dalla porta socchiusa, ripetendo più volte:

«Permesso, scusatemi sono la dottoressa Piccin.»

Avvertì dei forti sospiri provenire dalla stanza verso l’ingresso.

Si affacciò.

Davanti le si profilò una bella signora mora con una vestaglia da camera bianca a fiori, di i seta, seduta sul divano, con in testa un asciugamano che era diventato tutto rosso.

Sembrava non essersi accorta di lei tanto era sconvolta  

«Signora, ha bisogno d’aiuto?» chiese più volte Dora.

Rossella Balzaret udì da lontano quella donna bionda, così gentile, con il camice bianco, che la chiamava.

La testa le doleva, la botta sulla tempia destra, dove Dario l’aveva colpita con un pugno improvviso, sanguinava ancora.

Avvertiva anche delle forti fitte alla schiena per quattro o cinque calci che le erano arrivati mentre annaspava sul pavimento, e ogni respiro le provocava ondate di dolore.

Cercò di rispondere, ma riuscì a fare una cosa soltanto: alzò la mano sinistra.

Poi, rimase priva di sensi.

Dora non si perse d’animo.

Nei venti minuti successivi, riuscì a far arrivare sul posto un’autolettiga della Croce Rossa e ad avviare al Pronto Soccorso di Pordenone Rossella, consegnando, agli operatori del 118, gli effetti personali che fortunatamente era riuscita a reperire nella borsa appesa nell’armadio in camera da letto.

Poi guardò Beate e si intenerì.

La cagnolina aveva seguito tutti i movimenti attorno alla sua padrona da lontano ed era rimasta poi a guardare l’ambulanza allontanarsi lungo il viale, con occhi languidi.

Infine, era tornata verso Dora.

Era venerdì pomeriggio e il turno dell’assistente doveva essere già finito da un po’.

Dora aveva messo tra le cose di Rossella anche il suo cellulare e non sapeva chi cercare o chiamare che si prendesse cura della bestiola.

Fece come suo solito, tutto rapidamente e in sequenza, senza perdere lucidità. Cercò un paio di chiavi della casa, chiuse tutte le imposte, frugò in cucina alla ricerca di cibo per Beate e poi, caricata la cagnolina sulla sua vettura, prese la direzione di casa.

Mentre guidava si preparò mentalmente il discorso per Luca.

Beate, titubante all’inizio, ora era seduta sul sedile accanto a lei e si lasciava accarezzare.

«Stai tranquilla tesoro, andrà tutto bene» la rassicurò Dora.

Luca, in realtà non fece tante storie e il sabato mattina uscì di buon grado per una bisognosa passeggiata, con una Beate tranquilla al suo fianco.

Dora, invece, affrontò la parte difficile del suo lavoro.

Si recò in ospedale a parlare con Rossella.

Come d’abitudine, i medici del Pronto Soccorso l’avevano informata sulle condizioni della donna.

«Grande ematoma alla tempia, nessun segno di commozione cerebrale, un paio di costole leggermente incrinate,» le aveva detto il dottor Miretti «ma ha bisogno di lei, Dora!» aveva aggiunto con un sospiro.

Le richieste avanzate per donne più o meno giovani e in grande difficoltà, da parte dell’ospedale in quell’ultimo periodo, stavano di fatto aumentando.

«Come sta Rossella, si sente di parlare?» chiese Dora.

Rossella piangeva.

«E Beate? Dov’è la mia cagnolina?»

Il viso, ancora giovane e bello della scrittrice, era sciupato da un livido che correva dalla tempia alla guancia.

Rossella era sdraiata su tre cuscini e faceva fatica a parlare.

«Stia tranquilla, Beate è con il mio compagno e sta bene.»

«Vuole parlare?» tornò a chiedere Dora.

Dopo un lungo minuto di lacrime e silenzio, un fiume di parole un po’ biascicate e un po’ sussurrate inondò l’assistente.

Rossella non poteva più accettare le scappatelle di Dario, non poteva più far fronte alle sue continue richieste di denaro, alle minacce di suicidio, alle pretese e poi, passata la bufera, alle dichiarazioni d’amore che sembravano più coltelli che parole.

La mattina prima, aveva cercato di affrontare il discorso ancora una volta.

Dario sembrava calmo e lei aveva parlato tranquilla.

Lui invece si era alzato di scatto e l’aveva colpita. Una gragnola di pugni, parolacce e bestemmie l’avevano lasciata esanime sul pavimento. Aveva provato a rialzarsi e a telefonare, ma aveva tanta confusione in testa. Poi, poi la storia le era nota.

Quando Dora uscì dal nosocomio guardò a nord in direzione delle montagne.  

La giornata soleggiata la fece sentire meglio.

Incrociò il maresciallo dei carabinieri chiamato per la   denuncia e lo salutò.  

Il lunedì avrebbe interpellato un fabbro per cambiare le serrature delle porte di casa e accompagnato Rossella dalla cugina a Trieste per un periodo di riposo.

Era riuscita a fare del suo meglio.

Ma Beate?

Non fece a tempo a darsi una risposta che il border collie le arrivò davanti e le mise le zampe sui fianchi.

Dora l’abbracciò e poi baciò Luca.

«Tesoro ciao,» disse a Luca «e tu principessa, che ne dici di una passeggiata sul Livenza?»

DORA E BEATE è un racconto di Anna Di Narda

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