È STATA SOLO UNA BRUTTA GIORNATA di Matteo Giovanni Lorenzi

Quel mattino doveva essere come tutti gli altri, tranquillo, sereno e con un risveglio scandito dalla consuetudine e dalla routine.
In realtà iniziò con qualcosa di decisamente inaspettato che ben presto si tramutò in angoscia.
Al suono della sveglia mi rigirai nel letto e con gran terrore mi accorsi di non avere più un braccio.
«Oddio tesoro il mio braccio!» annaspai fra le lenzuola.
Mia moglie che era già in piedi da almeno mezz’ora, mi rispose dalla cucina «che cosa?»
«Non ho più il braccio! Il mio braccio destro!» l’agitazione mi obbligava a frugare scompostamente fra le coperte con l’unico braccio a disposizione.
Anita apparve poco dopo sulla soglia della camera «hai cercato bene fra le lenzuola?» mi chiese con calma.
«Ma certo!» quasi urlai «non c’è!»
«Aspetta che ti aiuto» disse, e iniziò a ispezionare il letto con la consueta meticolosità. «Sei sicuro che ce l’avevi quando ti sei coricato?»
Nel frattempo, mi ero seduto sul bordo del letto in preda alla disperazione «ma certo» le risposi «che discorsi».
D’istinto feci per mettermi la mano fra i capelli ma lo stimolo nervoso rimase lì, bloccato nel mio moncherino destro.
Ci volle qualche altro secondo per trasferire il comando dell’operazione al bracco sinistro.
Anita stava ancora cercando con quella calma così ordinaria e composta da risultare quasi inquietante.
Quel comportamento mi metteva a disagio.
«Sei sicuro di non averlo lasciato da qualche parte?» mi chiese mentre alzava i cuscini.
«Da qualche parte?» le risposi quasi in malo modo «certo che no! Ma scusa non è che uno si stacca un braccio e lo appoggia in giro, ti pare? Qui la questione è molto più grave» iniziai a passeggiare nervosamente «fino a ieri avevo due braccia e stamattina ne ho solo uno, guarda qua!» ansimai scostando il pigiama e mettendo a nudo il moncherino.
Lei diede una rapida occhiata e si rimise a cercare guardando sotto il letto.
«È un moncherino perfettamente cicatrizzato capisci? È liscio e levigato vedi?»
«Devi cercare di stare calmo tesoro» disse alzando gli occhi verso di me.
«Ma non è plausibile!» sbottai con una pedata al pavimento «non si perdono le parti del corpo dalla sera alla mattina, senza incidenti, senza mutilazioni e.…e in tal caso avrei una medicazione, una cicatrice, sarei in ospedale, ma porca miseria sono cose che devo spiegare? Sono talmente ovvie! Capisci l’assurdità della situazione? E tu sei lì che cerchi un braccio nello stesso modo in cui si cerca un calzino, ma ti rendi conto? Come fai a non…» lei si avvicinò con fare amorevole e mi abbracciò.
La cinsi a mia volta ma di nuovo lo stimolo nervoso dell’abbraccio si irradiò dalle mie spalle verso un’estremità che non lo poteva più mettere in atto.
Lei mi sussurrò parole gentili e mi accarezzò sulla testa, amavo quel suo modo di infondermi tranquillità anche nelle situazioni più cupe.
Mi convinse a ragionare con più ordine e ad agire con maggiore lucidità.
Occorrevano misure logiche e razionali senza cedere al panico.
Avremmo cercato il braccio in tutta la casa, lo avremmo cercato insieme, ma nel frattempo dovevo pensare anche a prepararmi per andare al lavoro.
Mentre frugavo in salotto, nello sgabuzzino, nel guardaroba avrei voluto far presente ancora l’assurdità di quella circostanza.
Ma sul serio due persone integre e sane di mente stanno cercando un pezzo di corpo umano in un appartamento?
E se lo trovassimo?
Sarà atrofizzato?
Sarà adagiato in una pozza di sangue?
Si potrà riattaccare?
E perché devo andare al lavoro?
Porca miseria non ho più il braccio! Il lavoro dovrebbe essere l’ultimo dei pensieri! E perché Anita è così dannatamente calma?
«Ma cosa stiamo facendo?» chiesi a mia moglie fermandomi con lo sguardo smarrito «ma ti rendi conto? È del tutto inverosimile, è al di là di ogni logica!»
«Vai a prepararti ora tesoro, altrimenti farai tardi» mi disse con tranquillità.
Aveva spostato il divano e stava guardando nello spazio che si era creato fra la spalliera e il muro «oggi poi è lunedì, ci sarà un sacco di traffico sulle strade. Vai a prepararti che io continuo a cercare.»
All’improvviso un moto di disperazione mi colpì con una prepotenza impossibile da arginare.
Il traffico sulle strade, l’auto. Ma come la guido l’auto senza il mio braccio?
Come le cambio le marce?
Per un attimo anche Anita sembrò essere colpita da questo inaspettato imprevisto ma dopo pochi secondi di smarrimento riprese subito il controllo, abile e pratica come sempre nel risolvere ogni situazione «beh vorrà dire che andrai in bus, forza, vai a vestirti tesoro.»
Quel giorno tornai un’ora più tardi del solito, il bus verso casa non aveva un orario molto agevole.
Anita era lì come ogni sera ad attendermi e appena varcai la soglia di casa scoppiai a piangere come una fontana. Mi abbracciò.
«Hai trovato il mio braccio?» chiesi fra i singhiozzi sapendo che la risposta non poteva che essere negativa.
Lei non rispose, non ce n’era bisogno, si limitò ad accarezzarmi e a darmi consolazione.
Le raccontai della mortificazione di farsi aiutare a estrarre il portafoglio dal taschino sinistro della giacca «ero sul bus e con il braccio sinistro dovevo reggermi, ma nello stesso tempo dovevo prendere il portafoglio per pagare il biglietto» singhiozzai.
«Ti hanno aiutato no? Hai pagato, è andato tutto bene, sei andato al lavoro e sei tornato» mi disse lei con voce suadente.
«Dopo quell’umiliazione una signora si è alzata e mi ha offerto il posto dei disabili» tirai su col naso.
«E tu hai accettato?»
«Certo che no!» risposi con un moto di rabbia «non sono mica un disabile io!»
«Certo che no» disse lei infondendomi il suo calore.
Volle sapere com’era andata in ufficio, io feci un po’ di resistenza ma poi mi convinse a parlare.
I colleghi erano rimasti increduli, nessuno si aspettava di vedermi arrivare al lavoro senza un braccio. Ho passato la mattina a sentirmi gli occhi addosso sulla manica floscia della giacca, le dissi.
Ho evitato gran parte delle domande, mi chiedevano quand’è che ho avuto l’incidente e da quanto tempo nascondo la mia menomazione.
Ho cercato di spiegare che stamattina mi sono ritrovato improvvisamente senza un braccio ma loro ribattevano che non era assolutamente possibile, un incidente presume della convalescenza, un’operazione chirurgica.
È quello che sostengo anch’io, rispondevo loro sperando di trovare qualche spiegazione che mi era sfuggita.
Ma anziché ricevere aiuto mi sono preso del bugiardo e dell’impostore, di uno che ha nascosto ai colleghi per chissà quanto tempo il fatto di non avere un braccio. Alla fine, mi sono rinchiuso in ufficio evitando ogni contatto, subendo gli sguardi di disapprovazione di chi passava nelle mie vicinanze.
«Ora sei a casa tesoro» disse Anita «la giornata è terminata, vieni a cena che altrimenti si fredda.
Dopo qualche minuto, mi acquietai, forse fu lo sfogo, forse il calore casalingo, più probabilmente lo sfinimento. Sopportai anche decentemente l’umiliazione di farmi tagliare la bistecca.
Dopo cena rimanemmo sul divano guardando distrattamente la televisione e parlando poco. Andammo a letto molto prima del solito.
Il mattino seguente il sole filtrava dalle feritoie delle tapparelle, brillando di luce allegra, come a segnalare con urgenza la sua presenza all’esterno.
Nella penombra della camera mi rivoltai fra le lenzuola, in lotta fra realtà e dormiveglia. I rumori dalla cucina e l’odore del caffè dipanarono le ultime coltri del sonno e una volta a pieno contatto con la realtà, avvertii salire prepotentemente l’angoscia riguardo la mia recente menomazione.
Non feci in tempo a riavvolgere il nastro mentale della giornata precedente che una netta e nuova sensazione fisica si fece strada in me.
Il braccio.
Il mio braccio destro.
Voltai di scatto lo sguardo e il mio braccio destro era lì, al suo posto, come sempre, attaccato alla spalla.
Tastai con l’altra mano, lo strinsi, lo mossi in alto e in basso, lo feci ruotare.
Il mio braccio! Avevo di nuovo due braccia!
Balzai fuori dalle coperte e corsi in cucina tenendo stretto il braccio con la mano sinistra quasi per paura di perderlo un’altra volta.
Anita era lì, indaffarata a preparare la colazione.
Al mio arrivo si fermò e si girò con sguardo interrogativo.
«Il mio braccio Anita!» urlai eccitato «ho di nuovo due braccia!» alzandole entrambe verso l’alto e gesticolando.
Corsi ad abbracciarla. Lei non parve molto sorpresa, mantenne la stessa calma e serenità che aveva tenuto il giorno precedente quando il braccio non c’era.
«È tutto a posto, quindi, sei più tranquillo ora?» mi chiese con voce amorevole, ma io ero troppo confuso e annebbiato per poter rispondere con lucidità.
Avevo di nuovo due braccia! Guardai Anita inondandola con tutta la mia eccitazione ma lei era sempre la stessa, una diga, un frangiflutti dove i miei eccessi emotivi andavano inevitabilmente a dissolversi. Non capivo come riuscisse a mantenere quella calma, a tenere sempre il giusto distacco emotivo anche di fronte a quegli incredibili e inspiegabili accadimenti.
«Io proprio non capisco» balbettai incredulo «ma come fai? È stata una cosa così inaudita, così insensata! Come fai a non…a non essere…»
«Ora non ci pensare» mi disse accarezzandomi di nuovo la nuca «è tutto a posto adesso, è stata solo una brutta giornata.»

È stata solo una brutta giornata è un racconto di Matteo Giovanni Lorenzi

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