FINCHÉ MORTE NON CI SEPARI di Laura Mazzanti

Ricordava la prima volta che quell’onda di rammarico lo aveva assalito. Era aprile. Erano in provincia, da alcuni giorni, per le feste di Pasqua. Correva il settimo anno dal matrimonio. Hedie sedeva, a mensa, con un’espressione piena d’indulgenza. Un’ombra morbida, tenera, simile alla fusione di due tinte diafane, le circondava le iridi nere. E Andrea vedeva in quei larghi occhi passare, come a onde, una sofferenza misteriosa; e quello sguardo continuo, carezzevole, gli faceva male.

Non gli pareva possibile che quella fosse la stessa donna che aveva visto mancare sotto l’impeto del suo ardore. Quando ripensava ai baci che le dava su tutto quanto il corpo, sul seno piccolo ed eretto, sul ventre perfetto come quello d’una vergine statuaria, e sulla nuca e fra i capelli e sulla gola; quando ripensava a tutta quell’onda di gioia che gli attraversava le vene soltanto nel guardarla nuda, rabbrividiva dinnanzi all’abisso vacuo che ora li inghiottiva. Dell’incendio di un tempo non restava che un pugno di cenere.

Il suo primo tradimento era venuto per caso. Hedie ne aveva sofferto, ma con fierezza, quasi in silenzio. C’erano stati pochissimi dialoghi, tra loro, in proposito. Aveva taciuto, in quel giorno; e nei giorni che ne erano seguiti.

– A che pensi, Hedie?

Non aveva risposto, se non con un atto della bocca che voleva essere un sorriso e non poteva. E quell’espressione cupa aveva levato ad Andrea ogni forza, gli aveva ricacciato in gola le parole. Dunque non c’è rimedio? Dunque è finito tutto? Che fare?

Ora, in tre anni, quante cose erano mutate. Tra loro era avvento un distacco definitivo, irreparabile. I torti di Andrea verso di lei erano andati accumulandosi. A quella specie di raccoglimento, che lo aveva tenuto avvinto a Hedie, succedeva ora il dissolvimento. Passava da una lusinga all’altra con incredibile leggerezza, senza ritegno. E il pensiero della rinuncia gli pareva assurdo, inammissibile. Tutto ciò che nella sua natura era rimasto a lungo vincolato, prorompeva; tutto il suo essere si protendeva.

A poco a poco, Andrea era giunto a riconquistare la sua primitiva libertà col consenso di Hedie, senza ipocrisie, senza sotterfugi, senza menzogne degradanti. Lo aveva detto, una sera, con una voce grave che pareva venire da chissà quali profondità:

– Un amore come il nostro può bastare a tutta una vita, anche estinto.

Qualche cosa di oscuro era passato negli occhi di Hedie. Non aveva risposto, ma per un istante si era alienata in un pensiero unico, come chi considera e risolve rapidamente. Andrea le aveva offerto la sua fraternità. Ed Hedie aveva accettato.

I primi segni esteriori cominciarono a manifestarsi sul finire dell’estate: l’allargamento dei fianchi, l’aumento del volume del ventre. Hedie era incinta.

Glielo aveva detto senza nessun accento insolito nella voce. Lo aveva guardato e aveva sorriso; di un sorriso inaspettato, indescrivibile, che aveva un’espressione di credulità quasi infantile.

– Non mi dai un bacio, Andrea?

– Sì.

E avevano taciuto, per prolungare la loro commozione, per conservare la loro illusione. Poi bastava nulla. Un odore acre, una smorfia imprevista, un’inflessione insopportabile nella voce di Hedie. E il pensiero dell’Altra lo riafferrava. Tutto il suo desiderio andava verso di lei, senza freni. L’Altra era irrinunciabile. E il pensiero dell’infamia prossima, inevitabile, lo agghiacciava.

Era allora che la presenza di Hedie gli diveniva intollerabile. Avvertiva, contro di lei, un rancore sordo, inspiegabile. Un giorno l’aveva sentita ridere, nella stanza a fianco; e il suo riso lo aveva irritato, lo aveva mosso all’ira. Intere settimane passavano, talvolta, senza che Andrea le rivolgesse una parola. Non provava alcun bisogno di interrogarla, di sapere; Hedie gli era estranea. Non la guardava negli occhi. Il suo sguardo andava, involontariamente, al ventre gonfio. E doveva fare uno sforzo enorme per non tradire, con qualche espressione involontaria, il moto di disgusto che lo assaliva.

La figura di Hedie, mese dopo mese, si deformava. E la vista di quel corpo difforme non ispirava ad Andrea se non ribrezzo. Un giorno, entrando nella stanza in cui lei riposava, Andrea era rimasto colpito da un odore insolito. Era un odore umano acutissimo, quasi nauseante. Hedie se n’era accorta e si era coperta il viso con le mani. Poi con una voce debolissima, eppure lacerante come un grido:

– Vattene, Andrea, vattene. Non guardarmi così.

Lo aveva detto con un moto della bocca che rivelava disgusto di sé. Si era accigliata, poi ammutolita. E, uscendo dalla stanza, Andrea aveva avvertito l’impeto di fuggire via. Di correre, lontano, per chiudersi, per nascondersi, per rimanere solo a considerare la sua rovina per intero.

E se ne morisse? Gli frullava per la testa l’idea che un parto difficile, con un bel cesareo e altre complicazioni, lo avrebbe liberato dalla sciagura che incombeva. Si soffermava a ricordare certi episodi in cui Hedie aveva rivelato una sensibilità fisica sorprendente. La gravidanza, certo, doveva aver esasperato quella sensibilità. E pensava, con miserabili sottigliezze da maniaco, che avrebbe visto la debole vita di Hedie spegnersi sotto i ferri chirurgici, e l’immagine di quella violazione aveva un sapore di incesto.

Erano le sei del pomeriggio. Il crepuscolo cadeva, umido. Una zona di luce persisteva ai confini del cielo; e quell’ultimo bagliore del giorno aveva un tono lugubre. La casa era muta come un sepolcro. Tutti i rumori erano cessati.

Tre ore erano passate da quando Andrea si era gettato, bocconi, sul divano. Tre ore da quando aveva cominciato a seguire il filo degli accadimenti di quei dieci anni. Ma, ora, gli pareva di non pensare più a nulla. Stava in ascolto; e gli pareva di sentire salire, nel silenzio, il respiro calmo di Hedie nella stanza a fianco. Fu allora che un’idea terribile si impadronì di lui: e se fosse troppo tardi? Se veramente fosse troppo tardi?

Con un moto quasi violento, Andrea si alzò dal divano e si avviò verso la stanza da letto rapidamente. Appena giunto sulla soglia, sentì piombargli sull’anima un peso enorme. Si soffermò, vacillante, dietro allo stipite che lo nascondeva. Ed era sul punto di tornare indietro, quando una voce, debolissima, da entro la stanza:

– Andrea, sei tu?

Allora fece un passo; entrò. E la vide. Si era sollevata leggermente dal cuscino, pallida d’un pallore cadaverico, con gli occhi cerchiati da due ombre violacee. E quel sorriso, tenue e sibillino, dava ad Andrea uno sgomento senza fine. Non parlava; la guardava. La esaminava con attenzione, angustiato, senza sapere perché. All’improvviso il capo di Hedie si rovesciò all’indietro pesantemente, come una cosa inanimata.

– Hedie!

Fuori di sé, Andrea si slanciò verso il letto:

– Hedie!

– Ho tanto freddo, Andrea. Sentimi le mani.

Hedie gli tese le mani. Erano di gelo. Andrea si inginocchiò, mentre un sospetto sinistro si impadroniva di lui. Hedie gli passò la sua mano gelida sulla fronte:

– Chissà che io non muoia, Andrea… Dimmi, moriresti tu, con me?

FINCHÉ MORTE NON CI SEPARI è un racconto di Laura Mazzanti

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