I RICORDI DI UN PRINCIPE (1) di Sebastiano Ferla

Era un triste e buio pomeriggio, nuvoloso e umido.
Un’atmosfera analoga v’era dentro me: i sensi di colpa mi opprimevano e sentivo un grave sul cuore; sopraffatto da angoscia, da pentimento; soffocato dal dolore alcune parole mi vennero in mente.
Non sapevo cosa fare, come reagire, ricordo solo che caddi in quel turbine di reminiscenza con quella frase tra le labbra.
La mia vita la vivevo poi con poco affronto del destino che non avevo modo di trovarmi spesso nei guai, e mai sentivo la necessità di scappare da qualcuno; quella volta, invece, non sentivo altro che il bisogno di fuggire e così scappai, per così dire, dentro un ricordo lontano, un ricordo doloroso tanto quanto la realtà della quale facevo parte.
Num quis credet lunam vento rapi? E in un attimo fu subito notte.
Così, con uno sforzo doloroso, la mia mente mi riportò agli accadimenti di quel mese di ottobre, di quell’anno lontano.

5 ottobre 1582
Aprì gli occhi, scosso da una mano che delicata mi accarezzava il viso.
La tenera voce di quella figura che si ergeva accanto al capezzale del mio letto scandì le parole «Sogni o sei desto mio caro?»
«Sogno o son desto madre?» feci io.
«Ora che me lo domandi, tesoro, par che tu sia desto.»
«E allora lo sono.»
Mi alzai e come ogni mattina mi recai nella sala grande per adempiere ai miei doveri.
Studiai latino, seguì la lezione di scherma e dopo la partita a scacchi mi fu concesso di uscire. Non uscivo mai solo eppure, quel pomeriggio, mi fu dato il beneplacito e mi recai in riva al lago, non lontano dal castello.
Si aspettava l’arrivo del marchese D. , speravo di veder la sua carrozza prima dell’imbrunire: ero impaziente, non solo di incontrare, dopo un mese, la dolce fanciulla sua figlia, ma per l’interruzione delle sfibranti lezioni di latino. Non che la mia vita fosse così un travaglio però, a parer mio, quel riposo era meritato.
Arrivato al lago poggiai la spada nell’erba verde e fresca e mi sedetti ad ammirarne la superficie e l’acqua limpida.
Mi perdevo sempre nell’osservare con calma attenzione quel lago, per quanto lugubre e cupo fosse il sentimento di possederne ogni particella, trovavo ispirazione e serenità solo stando al suo cospetto.
Ripresi la spada, diedi uno sguardo al castello, mi accertai che nessuno mi guardasse o seguisse. Mi spostai così verso la riva occidentale e su un albero appesi i vestiti e conficcai, compero solito fare, la spada sul legno della grossa quercia; era il mio punto di riferimento quando mi allontanavo nuotando. Perdevo sempre una buona parte delle connessioni con la realtà quando mi immergevo al lago, non che perdessi i sensi, ma mi distraevo dal mondo ed entravo in uno tutto mio.
Quel pomeriggio non rimasi molto a cullarmi nell’acqua fresca e ferma e poiché, dopo circa mezz’ora, non scorsi più il luccichio della mia lama mi avvicinai alla riva.
La scomparsa della spada mi fece trasalire, iniziai ad avere paura, il mio cuore batteva forte e rumoroso.
Misi velocemente i calzoni perché, a prescindere da cosa sarebbe accaduto, pensai che fosse stato meglio essere vestito piuttosto che nudo.
Ebbi appena il tempo di rendermi conto di essere osservato che la mia lama, accuratamente affilata dal sottoscritto il giorno precedente, era poggiata sulla mia giugulare, brandita da un braccio fermo e drittissimo.
Più che incuriosito, spaventato, voltai lo sguardo verso il paladino della vigliaccheria.
Il paladino era una lei, con gli occhi fuori dalle orbite, guardava diritto nei miei. Quei bellissimi occhi, tengo a precisare, da soli non tendevano a comunicare tanto ardita rabbia; privati di quel fuoco, quegli occhi avrebbero fatto innamorare chiunque. Eppure, in quell’istante erano infuocati davvero, come del resto le parole che pronunciò:
«Mi è sufficiente sentirti proferire un solo scomodo lemma, percepire del coraggio immotivato, sentire un solo odore che non mi aggrada, intendere che i tuoi ormoni non riescano a controllarsi come dovrebbero per reciderti il tessuto della carotide; sporco signorotto!»
Credevo attendesse una mia qualunque mossa e così, piano, muovevo la mano destra per un colpo veloce alla spada, allontanarla dalla mia gola e tentare una matta e coraggiosa fuga. Mentre pensavo al piano d’azione quella esclamò incandescente:
«Su! provati, nessuno intorno a fare da testimone, il tuo sangue nero scorrerà lungo la tua stessa spada e riderò, sta tranquillo perché me la riderò, allorquando supplicherai clemenza! E perché, poi, dovrei risparmiare la vita ad un ragazzo senza sentimenti che non si è minimamente preoccupato di venirmi a trovare o di spedirmi una lettera?»
Ero sconvolto dai suoi modi di fare eppure quell’abbraccio, di cui avevo dimenticato il calore, mi appare adesso così chiaro, quasi sento ancora le sue braccia attorno al mio collo. Tornammo insieme alla rocca e cenammo accanto.
Posso ritenermi fortunato che il sarto di corte quell’anno avesse predisposto dei drappi sufficientemente lunghi e pendenti da nascondere le mie ginocchia e quelle di Susanna. Quando ci rendevamo conto che nessuno ci guardasse le nostre mani si univano e questo mi allietava dal clima cupo della sala.
Non che fosse corretto far scomparire una mano, in questo caso due, dalla vista, ma come tutti potreste indovinare, in quell’atmosfera di sufficiente distrazione nessuno se ne accorse, seppur quel gesto non avrebbe fatto del male a nessuno. E poi, a un principe, si perdonano molte cose.
Dopo la cena, poco prima del tramonto mi fu concessa un’altra passeggiata e, mandarla a chiamare non fu necessario perché me la ritrovai subito dietro, e ancora una volta fui sorpreso da quel suo modo di apparire dal nulla.
Camminammo per un po’ e ci fermammo davanti a una grande quercia, vi sedemmo e di nascosto le nostre labbra si toccarono.
A un certo punto disse una frase alla quale l’indomani pensai tutto il giorno: «A un re si addice vincere sé stesso più che i nemici, ricordalo sempre» non ebbi il tempo di rispondere con qualche insulso monosillabo che le nostre labbra si incontrarono nuovamente e a quella frase pensai solo il giorno successivo.
Prima di andare volle scalfire il tronco dell’albero con la data di quel giorno, affinché non la dimenticassi mai e, ogni volta che passassi di lì, le avrei dedicato un pensiero. Ignorando il fatto che l’avrei comunque pensata giorno e notte scrisse: “Anno domini 1582, 5 ottobre.»
Della notte non v’è racconto, le rubeste trepidazioni m’han involato la reminiscenza.
O forse v’è, ma non lo racconto.
Ricordo bene però il lieve suono dei suoi piedi scalzi avvicinarsi alla mia porta, non dormivo, ovviamente, come potevo?
Avevo la mano sul pomello ruvido e lì, immobile e con il respiro affannato, ho percepito un attimo di tentennamento da parte sua.
Forse non voleva bussare, forse si era pentita, ma io non sarei riuscito a dormire se lei fosse andata via così. Non c’eravamo dati appuntamento ma entrambi sapevamo quando ci saremmo visti e dove. Allora silenziosamente aprì la porta e alla luce della candela la vidi impallidire, forse dallo spavento, forse dalla vergogna.

CONTINUA 

I RICORDI DI UN PRINCIPE (1) è un racconto di Sebastiano Ferla

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