IL GIOCO DEI MOSTRI di Federico Berlioz

L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, un cavo al di sopra di un abisso.

Friedrich Wilhelm Nietzsche

Prologo

Un’eternità prima…

Cercai di controllare il respiro.

Quel giorno stavo cercando di rubare un furgoncino parcheggiato vicino casa della mia ragazza.

Ero tutto sudato.

Avevo appena finito di collegare i fili dell’accensione, quando improvvisamente mi sentii strattonare dalla collottola. Un uomo con la pelle scura e butterata, dalle cicatrici dell’acne, mi tirò giù a forza e mi saltò addosso puntandomi un ginocchio sul petto.

Aveva l’aria molto incazzata, il che non era un buon segno. Doveva essere il proprietario. Negli occhi aveva un’espressione distante e malevola e pesava incredibilmente. Il dolore era lancinante.

Stava succedendo tutto troppo in fretta.

Avevo il cuore in gola. Non sapevo quanto ancora sarei riuscito a resistere a quel peso che mi stava spaccando in due.

È finita! Pensai.

Sentivo le costole come se fossero immerse nel fuoco e le braccia troppo deboli per sollevarle.

Poi, lui si spostò appena, ed io riuscii a prendere la mia lama da venti centimetri nella tasca dei pantaloni e infilargliela sotto l’inguine.

Ricordo che fece un sibilo straziante.

Dopo essermi liberato, mi rialzai e lo colpii altre due volte nel torace. Lui aprì la bocca senza riuscire a dire una sola parola.

Sentii invadermi da una sensazione di freddo. Mi voltai e mi allontanai da lui barcollando.

Mi girava la testa e il petto era tutto indolenzito, come se qualcuno ci avesse camminato sopra, mi faceva male ogni muscolo del corpo.

Cercai di inghiottire il sapore amaro che sentivo in bocca, mentre procedevo veloce verso casa.

Quella sensazione di freddo cominciò a diffondersi nelle mie membra, come se le cellule del sangue si stessero congelando.

Avevo già provato qualcosa di simile e, per quanto fastidioso fosse, allo stesso tempo ne percepivo una forza irresistibile che teneva a bada la mia coscienza.

Era successo appena un anno prima.

Il mio compagno di stanza, un rumeno, storse la bocca in un sorriso malizioso e quando parlò, disse:

«Ehi, piccoletto! Me lo stai facendo venire duro!»

Mi sentii percorrere il corpo da una scossa elettrica.

Corrugai la fronte e dissi:

«E qual’è la novità?»

«Ci arriveremo presto» rispose lui ridendo.

Ero detenuto da un paio di settimane nella prima palazzina dell’istituto minorile romano di Monte Mario, quando avevo quasi ucciso il mio prepotente compagno di stanza.

Aveva cominciato a molestarmi sin dal primo giorno del mio arrivo, così decisi di risolvere la cosa a modo mio.

Una sera, aspettai pazientemente che si decidesse a spegnere il televisore, che teneva sempre acceso a tutto volume per infastidirmi di proposito.

Poi, verso le quattro di mattina mi alzai piano dal letto e presi la macchinetta del caffè, quella grossa.

Quando gli sferrai il primo colpo in testa, socchiuse appena gli occhi, al settimo colpo lo sentii gemere. A quel punto non c’era più niente di cui discutere.

Lo avevo colpito talmente forte da essere abbastanza sicuro che non si sarebbe più ripreso dalla fase Rem.

Guardai il lavoro fatto con un sorrisetto compiaciuto.

Appoggiai la macchinetta del caffè sul suo comodino, mentre sentii un leggero brivido di freddo corrermi lungo la schiena.

Quella sensazione si propagò velocemente dentro di me come un’onda di piacere.

Non ricordo per quanto tempo rimasi seduto in un angolo della stanza a vederlo dissanguarsi, prima di alzarmi e andare a lavarmi.

Dalle sbarre della finestra del bagno notai vagamente che l’alba stava schiarendo il cielo notturno, quando sentii il suono dei fischietti dei sorveglianti.

Poco dopo arrivarono correndo insieme a un medico e un infermiere.

«Che cazzo è successo qui?» ringhiò un sorvegliante.

Gli rivolsi uno sguardo fintamente innocente.

«Niente!» risposi.

«Niente?» ripeté lui.

«A giudicare da come sta il tuo compagno, mi sembra che qualcosa sia successo!» 

Mi afferrò per i polsi costringendomi a guardarlo e disse:

«Tu non puoi stare con i tuoi simili, sei fuori di testa, sconterai la pena da solo!»

«Lasciami andare brutto stronzo!» gli urlai.

Senza dire altro il sorvegliante mi trascinò con forza in un’altra sezione, dove le stanze avevano le pareti imbottite ed erano senza finestre.

La cosa mi fece alquanto incazzare. Vivere in questa specie di limbo, isolato da tutti, sarebbe stata dura, ma decisi di sopportare per evitare di allungarmi ulteriormente la detenzione.

Così inserii la modalità di autoconservazione, cioè quella che mi avrebbe consentito di affrontare i mesi successivi.

Quando la noia mi assaliva, mi concentravo su alcuni esercizi mentali che mi aveva insegnato mia madre.

Così, dopo quella che mi sembrò un’eternità, arrivai al termine della pena, e quando sentii il rumore della chiave che girava nella serratura della porta, raccolsi subito le mie poche cose, e senza salutare nessuno seguii il sorvegliante fino all’ultimo portone.

Il sorvegliante, prima di aprire, alzò una mano per segnalarmi di aspettare, si voltò a guardarmi per alcuni secondi, poi scosse la testa e spinse il bottone di apertura della sbarra di ferro e disse:

«Vai pure!»

Mi avviai velocemente prima che potesse fermarmi per dirmi qualche stronzata, e finalmente uscii fuori libero, nell’aria fresca della mattina.

Oltrepassai in fretta il portone lanciando una rapida occhiata di fronte a me, e la vidi sorridermi.

Mia madre, che era già arrivata con la macchina, stava in attesa nel parcheggio ad aspettarmi appoggiata allo sportello.

Feci appena in tempo ad avvicinarmi a lei che mi buttò le braccia al collo.

Mi strinse in un abbraccio così forte da chiedermi come avrei fatto a sopravvivere senza di lei.

Questa consapevolezza era impregnata dentro di me.

«Va meglio ora tesoro?» chiese staccandosi da me.

Annuii felice, sentendomi più leggero.

Molti anni dopo…

Un uomo basso e snello, con i capelli tagliati a zero e gli occhiali da vista, si era avvicinato alla mia porta con un carrello.

Era il lavorante che portava il vitto.

Quando mi vide si bloccò, abbassò gli occhi e chiese:

«Vuoi il riso o la pasta?»

Mi appoggiai al muro e incrociai le braccia fissandolo.

L’intensità del mio sguardo lo bruciò.

L’uomo aveva una brutta cicatrice che gli partiva dalla testa fino ad arrivare all’occhio sinistro.

Lo vidi affrettarsi a passare oltre, quasi correndo con il carrello che rumoreggiava forte. «Perché scappi?» gli urlai dietro.

Non ero più il ragazzino che lui aveva conosciuto tanti anni fa, quello che glielo faceva venire duro.

Decisi di aspettare, di dargli il tempo di guardarsi intorno prima di arrivargli addosso.

Il rumeno sapeva benissimo che in carcere il tempo passava presto per certe cose. Sapeva che sarei andato a cercarlo.

Nella mia vita ho visto molti uomini piangere prima di morire, quegli uomini erano troppo nervosi e si erano lasciati sopraffare dalle emozioni. Avrebbero dovuto capire subito che c’era qualcosa di diverso in me, che il mio orizzonte era decisamente più inclinato.

È difficile trovare un terreno comune con quelli che si trovano qui dentro, riesco a malapena a tollerarli.

Da questo lato della barricata è meglio essere solo, che far parte di qualcuno. In questi luoghi è raro avere alleati o amici sinceri. Qui dentro tutti hanno un tariffario.

CONTINUA

IL GIOCO DEI MOSTRI è un romanzo del genere thriller di Federico Berlioz

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