IL TORRENTE MUTINO di Antonio di Carpegna

Era, ricordo, una tiepida giornata di aprile. Quel pomeriggio, all’hotel Ariminum di Riccione, partecipai a un convegno sull’ambiente il cui titolo era I fiumi del Pesarese, del Riminese e del Montefeltro. Dopo le relazioni di Paolo Marcelli sul Foglia, di Maria Coralloni sul Conca e di Gioconda Crisostomi sul Marecchia, il professor Filippo Montano di Rio Lucente parlò al numeroso pubblico ivi presente del Mutino, affluente (come l’Apsa e altri corsi d’acqua di minore importanza) del Foglia e uno dei torrenti, dicono, più spettacolari delle Marche se non di tutta l’Italia:
“Alcuni anni fa le acque del Mutino erano contaminate dai liquami prodotti da certi suini allevati non ricordo se a Carpegna, Frontino o Piandimeleto. Inoltre, alcune donne di Monastero e di Cavoleto, invece di usare la lavatrice, si dilettavano, come le loro quadrisavole, a lavare i panni nel torrente; ovviamente, però, al posto della cenere utilizzavano saponi e detersivi quanto mai tossici. Ora, fortunatamente, il Mutino è tornato a essere limpido e cristallino: nella sua corrente nuota nuovamente un’incredibile quantità di trote. Care ascoltatrici e cari ascoltatori, vorrei, poi, informarvi di un fatto curioso accaduto di recente: Eurosia Bianchini, la genetista santarcangiolese che voi tutti credo conosciate, se non di persona, sicuramente di fama, dopo aver fuso una cellula di trota con una cellula umana, è riuscita a produrre in laboratorio una graziosa sirena di piccola taglia che ora fa compagnia ai pesci del Mutino; pare che proprio ieri il curioso ibrido abbia raggiunto il Foglia e che qualche bagnante lo abbia visto sguazzare e saltare a mo’ di delfino nell’azzurro specchio di Mercatale…”.
Mentre Filippo Montano continuava la sua conferenza (che io filmavo in 3D col mio smartphone e Drusilla Petronilla, la mia fedele segretaria-robot, stenografava con un pennino sulla sua lavagnetta elettronica), mi misi a osservare il suo aspetto decisamente fuori dall’ordinario: un’enorme massa di capelli rosso pompeiano lunghi lunghi e tutti arruffati, un viso rotondo, due spesse lenti rotonde anch’esse, un naso patatiforme, una cravatta a farfalla color smeraldo tremendamente dandy, una camicia verdina quadrettata e un vestito scozzese a scacchi rossi e verdi, che copriva il suo fisico obeso. Alla fine del convegno andai a salutarlo e a presentarmi. Il professore mi regalò una copia di Miti e leggende del Mutino, l’ultimo libro che aveva scritto. Mi diede, poi, uno strano biglietto da visita con stampato: “Cavaliere professore don Filippo Maria Marfaldo Montano da Seminico, visconte di Rio Lucente e signore di Intrafiumara, via Mutino n° 99999 (PU)”; con la penna stilografica scrisse su di esso il suo numero di casa, di ufficio e di cellulare, la sua e-mail e il suo sito web. Mi disse pure di avere un suo profilo sui principali social che a quei tempi impazzavano: Facebook, Instagram, Linkedin e Twitter. Poi, da uno dei taschini del gilet estrasse la grossa cipolla d’oro e, vedendo che s’era fatto tardi, mi diede in fretta e furia la mano (non sudata, ma misteriosamente bagnata e fresca, come se fosse stata appena immersa in un torrente di montagna) e scappò: nonostante la mole, lo vidi correre con la velocità e l’agilità di una gazzella.
A partire da quella sera, per diverse sere, lessi il grosso volume del Montano. Un intero capitolo parla di un’eclissi lunare avvenuta alla fine del decimo o all’inizio dell’undicesimo secolo, fenomeno che spaventò mortalmente tutti gli abitanti della zona. Secondo alcuni dotti del ‘600 che si occuparono della questione e ne studiarono le fonti storiche (come le letterate Ulderica da Miratoio e Caterina da Montecopiolo o il beato Riziero da Monteboaggine), invece, la Luna non sarebbe scomparsa, oscurata dall’ombra della Terra, ma semplicemente sarebbe scesa a bagnarsi nelle fresche acque del Mutino per poi risalire e riprendere il suo posto di regina del cielo. In un altro capitolo si narra invece che una notte d’estate tutte le stelle si sarebbero tuffate nel torrente e si sarebbero trasformate in monete d’oro zecchino, monete che avrebbero reso ricchi centinaia (il conteggio preciso sarebbe impossibile dati i tempi tanto lontani) di contadini e pastori di quelle (allora) remote zone appenniniche. Se non ricordo male, a circa metà libro, si parla anche di spaventosi esseri demoniaci: di streghe acquatiche (verdognole, verde marcio, verde petrolio, violacee o bluastre, emananti un fetore pestilenziale di pesce fradicio e aventi boccacce rincagnate e bavose con lunghissimi denti neri e aguzzi, occhi sporgenti e terrificanti, corna luciferine e orecchie a punta) che, tra grida assordanti di sadico piacere, trasformando il fiume in un fiume di sangue, farebbero affogare i bambini per poi farli a pezzi e divorarli; ma, secondo il parere dell’autore (e anche del sottoscritto), questa è sicuramente una mera invenzione di alcune madri preoccupate di mandare i propri figli a fare il bagno nel Mutino; casomai, ipotizza il Montano, vi potrebbero essere alcune fate di torrente, di assai leggiadra e rara bellezza, che verrebbero in soccorso dei fanciulli in procinto di annegare. Il professore racconta, poi, di persone che fin dai tempi degli antichi romani (ne parlano, infatti, diversi autori latini, tra cui Marco Pitinense Rufo e Lucio Carpineo Fulvo, nei loro esametri di stampo ludico) avrebbero visto uno spirito entrare e uscire dall’acqua; trasformarsi in uomo, rana, salamandra, mosca, zanzara, pesce o uccello; mostrarsi talora come essere (sia antropomorfo che zoomorfo) fatto totalmente di acqua, fenomeno quantomeno inusuale per le leggi della fisica. In uno degli ultimi capitoli si parla della testimonianza di un giovane pastore di Spinagebbo, tale Pietro Ercolani detto “Pumidor[1]”, che, nel lontano 1819, vide da dietro un cespuglio Gaspare di Carpegna seduto su di un grosso masso nei pressi del torrente: era addolorato perché, avendo il papa di allora Pio VII sottomesso la Carpegna, il giorno dopo avrebbe abbandonato per sempre la sua contea; si sfogava col Mutino domandandosi se il suo piccolo regno sarebbe rimasto per sempre sotto la Chiesa o se, un giorno, sarebbe passato nelle grinfie di qualche altro Stato (“magari”, pensava, “giacobino e miscredente”), infine, se, prima o poi, sarebbe tornato nelle mani della sua famiglia. Sembra che, mentre Gaspare parlava, le acque del Mutino formassero un grosso orecchio per ascoltare e registrare le sue parole e che poi, appena egli tacque, creassero un occhio gigantesco per immortalare l’immagine dell’ultimo conte ad aver avuto signoria sulla Carpegna.
All’inizio di luglio di quell’anno, quando telefonai al Montano, oltre alla sua vocetta nasale, alquanto snob e con forte erre moscia, udii un ameno e misterioso rumore di acque scroscianti. Ci demmo appuntamento all’incrocio tra la provinciale per San Sisto e la mulattiera per Ca’ Giorgetto. L’eccentrico professore (che, questa volta, indossava un abito di lino arancione e un farfallino turchino a pallini color salmone) quando mi vide, mi fece un sorriso beffardo e mi diede nuovamente la sua mano bagnata. Arrivammo al podere di Ca’ Giorgetto, scendemmo per il fosso sottostante e raggiungemmo il Mutino, in un punto dove l’acqua è profonda due o tre metri e d’estate i bambini di Carpegna sono soliti passare intere giornate. Il Montano, dopo avermi spiegato in quanto tempo avesse scritto il libro e narrato di come fosse venuto a conoscenza di tutte le leggende, mi disse: “Il Signorino in questa splendida giornata non penserebbe di immergere le sue nobili e leggiadre membra in queste meravigliose e salutari acque?” e si buttò con tutti i vestiti schizzandomi a più non posso. Quando fu nel torrente, non vidi più il suo volto rubicondo, bensì un faccione tutto trasparente e un fisico costituito totalmente d’acqua. Guardai attonito il professore e questi si mise a ridere e, sfottendomi nel suo curioso idioma nativo gallo-piceno, mi disse: “T’si ‘nvurnit? T’si drugat?… T’me fa ‘na faccia!…/ Fa cald, cuchin: ven drenta st’acqua giaccia![2]“; poi scomparve nel fragore della corrente. Dopo un po’ vidi la piccola sirena “bianchinesca” insieme a uno stuolo di altre strane creature, di donne piccine dagli occhi di lapislazzuli che avevano pinne al posto di mani e piedi: sicuramente erano fate acquatiche; sia la sirenetta che le fatine avevano dei visetti allegri, graziosi e pieni di lentiggini e dei lunghissimi capelli color carota; mi lanciarono contemporaneamente uno sguardo di dolce sarcasmo e mi sorrisero in modo burlesco. Udii, poi, le amare parole del conte Gaspare e ne vidi la dolorosa immagine tremolare tra le piccole onde. Decisi, a questo punto, di aspettare e di restare anche coll’oscurità: forse, prima la Luna e poi tutte le stelle dell’universo si sarebbero bagnate nel Mutino; infatti così avvenne: a mezzanotte in punto la Luna si staccò dalla volta del cielo e si tuffò e poco dopo le sue sorelle fecero la stessa cosa; così, nell’acqua, divenuta tutta un tremolio d’argento, si aggiunse un magico luccicare di bagliori dorati: i bagliori di miriadi e miriadi di monetine.

[1] Pomodoro
[2] Sei rimbambito? Sei drogato?… Mi fai una faccia!… / Fa caldo, cocchino, vieni dentro quest’acqua gelata!

Il torrente Mutino è un racconto di Antonio di Carpegna

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