LA MIA TERRA di Lidia Laudenzi

Era di nuovo arrivato l’autunno ad annunciare la fine dell’estate e delle vacanze. Con sé aveva portato i suoi colori caldi e i suoi profumi di mosto, olive pressate e terra bagnata.

Con l’autunno c’era anche novembre. E come tutti gli anni, appena passata la festa di Ognissanti ci si preparava alla raccolta delle olive.

Quella era una calda giornata di novembre, dove il sole faceva ancora insolitamente capolino tra i rami degli ulivi. Vittorio era sempre il primo ad arrivare in campagna, d’altronde era lui che aveva le chiavi della “casetta”.

Era, in realtà, il piano inferiore di un bel casale: una piccola stanza usata come una sorta di cucinino e dispensa ed un’altra stanza molto più ampia con un alto soffitto e un pavimento di terra battuta adibita a cantina, con il torchio e le botti che un tempo contenevano del buon vino rosso.

Da anni ormai la vigna non veniva più coltivata, ma ne era rimasto l’odore del mosto e del vino che facevano compagnia agli attrezzi e ai vestiti da lavoro.

Seguendo un suo preciso rito, Vittorio stava dando inizio al momento più importante dell’anno.

Aprì la porta della casetta, ormai così vecchia e piena di fessure buona solo a far giocare i raggi del sole col buio della stanza. Con tutta la calma che gli apparteneva, cominciò ad indossare gli abiti da lavoro, probabilmente gli unici in cui si sentiva a suo agio: pantaloni larghi, stivali di gomma, camicia a scacchi dai colori scoloriti rigorosamente a maniche lunghe anche in giornate calde come quella perché doveva riparare dal sole e dagli insetti, infine il cappello per ripararsi dal caldo e dai rami.

Visto che ancora non era arrivato nessuno, decise di gustarsi il silenzio dei suoi ulivi tra i profumi dell’autunno.

Aveva speso le energie di una vita per quel pezzo di terra lavorato per cinquant’anni e che gli aveva riservato sì tante soddisfazioni, ma anche lavoro duro e quasi ininterrotto.

Vittorio non conosceva ferie, seguiva le stagioni con tutta la loro imprevedibilità e vulnerabilità; seguiva il destino e i capricci della sua terra. Ne raccoglieva i frutti quando la stagione era propizia; si asciugava lacrime e sudore speso invano per le stagioni che si erano rivelate capricciose.

Sperava che anche quell’anno il raccolto portasse i suoi frutti, nonostante tutto: la famiglia.

Era questo il frutto che più desiderava e che ogni anno non veniva mai meno. Novembre, con la raccolta delle olive diventava l’unico vero momento in cui la famiglia si riuniva. Tutti insieme, con la moglie, la figlia e il genero, le nipoti e il figlio che viveva ormai da tempo lontano dal paese e coglieva così l’occasione per tornare, tornare a casa.

Sentì in lontananza le voci del suo clan che si avvicinava, ma decise di continuare la sua passeggiata.

Si sentiva diverso, quella volta percepiva che qualcosa stava cambiando.

Eppure, quella terra sembrava sempre la stessa, con gli ulivi più grandi e rigogliosi, con alcune piante che si erano ammalate, ed altre appena piantate.

Gli camminava accanto ai suoi ulivi, li toccava per ricordare loro la cura e l’amore dedicato in tutti quegli anni, li accarezzava per ricordare a sé stesso il tempo passato, le confidenze, le risa, gli scherzi e le lacrime della sua famiglia che lui e quelle piante quasi secolari accoglievano ogni anno. Quante storie avrebbe potuto raccontare il suo uliveto!

Quelle carezze erano un saluto, non un addio piuttosto un arrivederci. L’età e soprattutto l’operazione al ginocchio lo stavano costringendo a questo commiato.

Un po’ stanco ed affaticato, approfittò dell’ulivo più grande, la pianta preferita da sua nipote, per riposarsi. Era così grande che i rami toccando terra avevano creato un rifugio intorno al tronco. Vi sgattaiolò dentro alla ricerca di ombra, posò il bastone a terra tra le radici della pianta e, poggiando la testa sul tronco, calò il cappello sugli occhi.

Appena l’albero sentì il peso del suo padrone aprì una strana fessura e il povero Vittorio fu catapultato all’interno senza avere il tempo di afferrare il bastone per sorreggersi.

Stordito, si chiedeva dove diavolo fosse finito: era troppo buio per capirlo. Procedeva carponi per evitare di sbattere e farsi male e tastava ovunque alla ricerca di un appiglio o di uno spiraglio in quel posto angusto, nel quale riconosceva però tutti i sapori e i profumi della sua campagna.

All’improvviso toccò qualcosa di strano, lungo, liscio e morbido che terminava con un non-so-che di peloso, simile alla coda di un coniglio.

“Sì,” pensò “la riconosco!”.

Era proprio una coda di coniglio appesa ad una specie di corda.

Aveva bisogno di capire, ma soprattutto di uscire da quella sorta di tana, quindi, senza pensarci due volte, tirò quell’affare.

Come per magia, una miriade di lucciole illuminarono quell’anfratto, che non era più così buio e non era poi così piccolo come aveva immaginato. Provò ad alzarsi, appoggiandosi alla corteccia dell’albero che offriva inaspettatamente facili appoggi affinché potesse sostenersi in piedi.

Una volta ripresosi dallo sgomento, Vittorio si accorse che le lucciole si comportavano in modo strano: si accendevano e si spegnevano in modo quasi innaturale, si univano e si allontanavano in modo altrettanto strano.

“Non era possibile” pensò, stropicciandosi gli occhi “sono vecchio, ma non ancora totalmente rimbambito!”

Le lucciole si disposero a formare una freccia: volevano essere seguite!

Vittorio pensò che avesse combattuto in guerra e che fosse rimasto per anni prigioniero in Inghilterra.

“Cosa mai poteva fargli quello sciame di lucciole?”

Curioso, decise di seguirle.

Quel posto era veramente insolito.

Si infilò in un corridoio lungo e stretto che sembrava interminabile:

“Chissà dove lo avrebbe portato e chissà quanto ancora avrebbe dovuto camminare.”

Subito, però, si ritrovò in un ampio salone, con sedie e tavoli rigorosamente in legno d’ulivo. Alle pareti lanterne abitate da stravaganti esserini paffuti, alti non più di dieci centimetri, con un ciuffo biondo a forma di virgola al contrario, e che illuminavano la stanza quando sorridevano.

Vittorio era sbalordito, non credeva ai suoi occhi, non avrebbe mai pensato che i suoi ulivi custodissero un tale mistero, non vedeva l’ora di raccontarlo.

“Ma, poi, gli avrebbero creduto?”

Continuò a seguire quelle strambe lucciole, che ora gli indicavano una botola. Quando riuscì a fatica ad aprirla, si accorse di dover scendere delle scale poco illuminate e si rese conto di dover proseguire da solo: le lucciole gli fecero capire che lì non potevano andare.

Afferrò una di quelle paffute lampade e scese le scale: alla fine non erano né scomode né tante.

Raggiunse in fretta un’altra stanza, che conteneva un’infinità di cose sparse in ogni dove.

Doveva procedere con cautela se non voleva inciampare e cadere.

Alzò la lampada all’altezza del viso, scrutò quell’esserino che rideva e che gli indicava di guardare in un punto ben preciso.

Intravide una sorta di ritratto. Fece il solletico al suo nuovo amico per farlo ridere di più e avere così la stanza più illuminata.

D’un tratto si accorse che le pareti erano tempestate di fotografie: la corteccia di quell’ulivo raccontava la sua vita, la sua storia. C’erano foto dappertutto… la fotografia dei suoi genitori, quella dove stanno bevendo un bicchiere di vino proprio davanti la casetta… quella lì, più in alto, con lui da giovane; sicuramente era stata scattata prima che partisse per il servizio militare.

“Però” pensò “ero proprio un bel giovanotto! Sarà stato questo fascino a catturare la mia Giuseppina?”

Lì davanti a lui c’era giusto la foto con la moglie e i due figli piccolini; non si ricordava dove e quando fosse stata scattata, ma Vittorio in quella foto vedeva, incantato, solo la sua famiglia.

Continuò a scrutare la stanza con il naso all’insù e con tanta meraviglia.

In quello strano viaggio nel tempo ritrovava sguardi familiari e tanti momenti speciali: i suoi figli che crescevano e i loro traguardi, i fratelli, le sorelle e gli amici di sempre, l’arrivo dei nipoti. Feste, compleanni, ricorrenze; quelle non erano solo semplici date, erano i suoi momenti di felicità e serenità, le sue emozioni, la sua memoria.

Emozionato, camminava tra i suoi ricordi, non facendo più attenzione a dove mettesse i piedi: ora inciampava in un libro, ora in stracci, ora in scarpe e vestiti. Poi, colpì qualcosa di più grosso che lanciò un urlo.

Per la botta e lo spavento Vittorio cadde a terra.

La lanterna rise così tanto che illuminò a giorno tutta la stanza e Vittorio scoprì cosa lo aveva fatto cadere.

«E tu, così brutto, chi sei?»

«Ehi, amico, piano coi complimenti! Mi hai dato un calcio bestiale nel sedere. E per la cronaca, io sono Mourioche, il compagno di tua nipote!»

«Mouri cosa? Il compagno di mia nipote? Ecco perché non ci vuole mai presentare il fidanzato!»

«Ma che hai capito?» rimbrottò il folletto «Io sono il suo amico per la pelle, le faccio compagnia, niente di più!»

«Cosa ci fai in questo posto, nascosto tra queste cianfrusaglie?» chiese Vittorio.

«Ma cosa dici! Quelle che tu chiami cianfrusaglie sono le tue emozioni e la tua memoria. Tu sei nel bazar dei ricordi.»

«E allora tu, che sei l’amico di mia nipote, cosa ci fai tra i miei ricordi?» sbottò Vittorio.

«Faccio parte anch’io delle tue emozioni. Mi hai messo tra quelle negative e archiviato in uno degli angoli più bui. Ma ora, che ti ho incontrato, voglio approfittare per farti cambiare idea sul mio conto. Prendi il Ridarello e seguimi!»

«Il Ridarello?» chiese Vittorio.

«La lanterna, sciocco!» rispose scocciato Mourioche «Ma devo insegnarti proprio tutto?»

Mourioche lo prese per mano, risalirono le scale e ritornarono nel primo salone.

Lo accompagnò in un angolo dove spuntava una scala a chiocciola e gli consigliò di salirci.

Alla fine della scala trovò una piccola finestra, l’aprì e fu subito travolto dalla luce del sole. Da lì poteva osservare la sua famiglia che (finalmente!) aveva cominciato a lavorare.

Come al solito suo genero sistemava con una precisione da ingegnere i teli sotto gli alberi che servivano per raccogliere le olive. Gli altri seguivano pedissequamente e anche con qualche sbuffo le sue istruzioni.

«Quelli sbuffano!» commentò Vittorio, che dalla sua posizione privilegiata teneva sotto controllo la situazione «Sbuffano, ma fanno comunque quello che dice Roberto, perché in fondo dice il giusto!»

«Vedi?» continuò rivolgendosi a Mourioche che era rimasto in fondo alla scala, «Sono quasi pronti per cominciare ma, come al solito, non trovano i guanti e le manine. Quante volte ho detto loro di tenere tutto insieme!»

«Le manine?» chiese Mourioche con curiosità.

«Sono dei piccoli rastrelli, simili appunto ad una mano, che, usati come un pettine, staccano le olive dal ramo. Si può fare anche con le mani. Ai miei tempi non c’erano né le manine né i teli, si raccoglievano a mani nude nella cirigna.»

«La cirigna?»

«Era una cesta di vimini, quasi a forma di cono,» continuò a spiegare Vittorio, «che mettevamo sul petto. Adesso i tempi sono cambiati e ci sono più comodità! Addirittura, ho avuto l’idea di montare le manine su bastoni di diversa grandezza così da arrivare anche ai rami più alti, più ingarbugliati e più scomodi. Anche se per i rami più alti è sempre meglio salire con la sca …»

Un urlo interruppe le interessanti spiegazioni di Vittorio che, senza neanche voltarsi fuori, capì cosa stesse succedendo.

«Questa è mia figlia che si agita quando la scala non è ben posizionata per terra…»

«Sergio, poggia bene quella scala prima di salire e attaccala con la corda all’albero!» stava giustappunto gridando Enrica.

«Non cambia mai, sempre ansiosa. Tutta sua madre!» commentò Vittorio tornando a volgere il suo sguardo verso l’uliveto.

«Speriamo, però, che a nessuno venga in mente si salire senza scala. Mia nipote prova sempre ad arrampicarsi e poi non riesce a scendere. Che testarda! Tutta sua nonna! Per fortuna stavolta si accontenta dei rami più bassi. Scommetto la pensione che passerà comunque ai rami più in alto e andrà alla ricerca…»

«Dov’è l’uncino? Dove l’avete nascosto? Ma l’avete preso dalla casetta?» gridò la nipote.

«Ecco! Scommessa vinta! Ma a che diamine le serve sto maledetto uncino, che è pure pericoloso! A proposito dov’è finita l’altra nipote?» disse sporgendosi un po’ di più da quella strana finestra. «Ah! È già in postazione con quell’affare diabolico per togliere le foglie dalle olive. Stregoneria geniale, ma resta comunque una bella fatica ripulire tutte quelle olive. Povera Lisotta!»

Ad un tratto Vittorio non riusciva più neanche a pensare per il baccano che stavano facendo.

Ridevano della storia dell’uncino che andava avanti da anni, della sega che nascosta tra l’erba non si trovava mai. Si arrabbiavano per gli attrezzi che lasciavano indietro e non trovavano più, per la distrazione e le scivolate sui teli che schiacciavano le olive dando vita alle prime gocce di olio. Ridevano raccontando barzellette e storie strampalate e prendendosi in giro. Si perdevano confidandosi amarezze e speranze. Si perdevano ognuno nel rumore dei propri pensieri per ritrovarsi nelle lacrime e nei sorrisi l’uno dell’altro. C’era sempre qualcuno, poi, con il naso all’insù che scrutava il cielo alla ricerca di qualche nuvola:

“Se domani piovesse” pensava sospirando “ci potremmo finalmente riposare!”

Nel baccano delle risa si insinuava nel frattempo il silenzio del lavoro.

Cominciavano a ritirare i teli smuovendoli come le onde del mare, così che le olive si riunivano al suono di una speciale risacca, sprigionando il loro sapore acro e il profumo dell’autunno e creando una strana alchimia.

Quante volte Vittorio aveva vissuto e visto quella magia di gesti, suoni e sapori!

Si augurava solo che durasse il più a lungo possibile. È un lavoro duro e faticoso quello della raccolta delle olive, eppure guardando i suoi cari immersi in quell’alone magico non sembrerebbe.

Una timida lacrima rigò il viso di Vittorio.

Mourioche dal basso della scala si accertò che andasse tutto bene.

Vittorio non riusciva a parlare, aveva un nodo in gola e, poi, non aveva tanta voglia di rovinare quel ricordo bellissimo.

Mourioche insistette e richiamò la sua attenzione:

«Mi dispiace, Vittorio, ma è ora di andare, non puoi restare troppo tempo nel bazar dei ricordi!»

Vittorio, fece un po’ di resistenza e provò a temporeggiare:

«Grazie per questo bel regalo» riuscì a confidare al folletto. «È vero, non sei poi così dispettoso e cattivo. Ma ora dove dovrei andare?»

«Te l’ho detto! Non puoi restare a lungo qui, resteresti intrappolato nel passato. Devi tornare indietro. Fuori dai tuoi ricordi. Dalla tua famiglia!»

Vittorio non era molto contento di abbandonare quel posto che, seppur bizzarro, emanava sicurezza e protezione. Lo sentiva come un punto di arrivo.

E poi, era contrario al tornare indietro. Per una vita aveva insegnato a figli e nipoti che si va avanti, sempre.

Provò a protestare con queste stesse argomentazioni.

Mourioche, a sua volta, provò a contraddirlo:

«Entrando nel bazar dei ricordi è come se fossi un po’ tornato indietro, ma poi dalla finestra hai potuto, in realtà, guardare al presente. Voi umani, forse, dovreste smetterla di classificare il tempo in ieri, oggi e domani; di preoccuparvi adesso del tempo impiegato nel passato per non sprecarlo nel futuro; di avere paura di quell’indietro che non vi fa andare mai avanti! Vi perdete sempre il qui e ora, vagabondando in un tempo che, però, cercate di non buttare via! … »

«Ehi amico» lo bloccò Vittorio «ma cosa hai bevuto? Io volevo semplicemente dire che non ho voglia di andarmene da qui, sei tu che hai parlato di tornare indietro!»

«Scusa!» rispose il folletto tornando in sé. «Hai ragione, sono io che a volte lascio troppo liberi i miei pensieri.»

Mourioche, per tranquillizzare Vittorio, alzò in alto, in segno di resa, le sue mani adunche.  D’altronde quel bazar non era casa sua. Lui era semplicemente un ospite.

«Quando ti degnerai di scendere da quella scala, qui sul tavolo c’è qualcosa per te!» aggiunse.

Vittorio, curioso di trovare ancora qualcosa di magico, si decise a scendere. Cominciava ad essere stanco, non aveva più l’età per quelle avventure. Si sedette su quelle sedie così piccole da ricordare quelle dei bambini, posò le mani sui poggioli che terminavano con due pomelli a forma di stella. Guardò il tavolo e non vi trovò nulla. Lo scrutò a fondo in tutte le sue parti senza trovare la sorpresa promessa

Pensò, allora, che fosse stato solo uno stupido espediente per farlo scendere dalla scala.

Impaziente e un po’ deluso cominciò a giocherellare coi pomelli della sedia, che si muovevano producendo degli strani click.

Vittorio fu sorpreso da quel rumore che sembrava quasi una musica.

Continuò a muovere i pomelli finché, d’un tratto, il tavolo si aprì e dalla base centrale uscì uno scrigno, proprio come quello delle principesse delle favole. Meravigliato si affrettò ad aprire quella scatola magica e all’interno vi trovò un libro rilegato in pelle rossa, proprio di quelli che piacevano tanto a sua nipote. Chiese al folletto se potesse prenderlo e leggerlo.

Fu Mourioche ad estrarlo e a consegnarlo a Vittorio, che rimase esterrefatto quando lo aprì.

Le pagine erano bianche!

«Che diavolo di scherzo è questo?» gridò infastidito «È un’altra delle tue stregonerie? Volevo regalarlo ai miei nipoti, che figura ci faccio?»

«Calmati Vittorio!» disse Mourioche che cominciò a pensare in fretta a qualcosa da dirgli senza cadere in strani giri filosofici. «Il libro ha le pagine bianche perché deve ancora essere scritto: è il libro del tuo futuro!»

«Ma mi prendi in giro? Sai quanti anni ho? Quasi novanta! Pensi che avrò ancora tanto futuro davanti?»

Mourioche alzò gli occhi al cielo: sarebbe stato difficile spiegare con poche parole, ma ci provò:

«Ogni giorno che viviamo è il futuro che aspettavamo ieri. C’è sempre un domani quando lasciamo all’oggi qualcosa di buono di noi. Dalla finestra hai potuto vedere il tuo presente, quel buono di te lasciato ieri e che sarà il tuo domani, nonostante tutto e nonostante il tempo. Il libro è il regalo giusto per i tuoi nipoti!»

A quel punto Vittorio capì, prese il libro, ringraziò di cuore quel mostriciattolo e si avviò di corsa verso l’uscita.

Ma, per la fretta, inciampò e cadde.

Provò ad alzarsi, ma una forza misteriosa lo aveva avvolto e gli impediva di muoversi.

Qualcosa lo stava risucchiando in un vortice e non aveva forze per contrastarlo. Chiuse gli occhi e si abbandonò.

Quando sentì sul viso un piacevole calore, aprì gli occhi e si ritrovò di nuovo seduto sotto il suo ulivo, con la testa appoggiata al tronco, il suo bastone lì vicino.

Deluso pensò che quella straordinaria avventura fosse stata solo un sogno.

Si sentiva sciocco ad avere pensato anche solo per un istante che tutto quello potesse essere vero. Quei raggi di sole che ancora giocavano tra i rami d’ulivo erano stati importuni a svegliarlo.

In lontananza, si sentivano i rintocchi del campanile della chiesa madre, in vicinanza, voci familiari.

Era mezzogiorno, era quasi ora di pranzare, sicuramente qualcuno sarebbe venuto a cercarlo.

°°°°°°°

Chiamai a gran voce il nonno, non lo avevamo visto e sentito per tutta la mattinata, era già mezzogiorno e tutto questo non era normale. Arrivai davanti il mio ulivo preferito; cresceva sempre più rigoglioso, non deludeva mai! Decisi di dedicare qualche minuto di riposo alle mie stanche membra così mi intrufolai tra i rami della pianta. Con mia grande sorpresa vi trovai il nonno:

«Cosa ci fai qui nonno? Ti cercavamo. Non vieni a mangiare? Dai, ti aiuto ad alzarti!»

«Cercavo un po’ di ombra e mi sono addormentato.»

«È successo qualcosa? Stai poco bene?» mi preoccupai.

«Mai stato meglio! Ed ora andiamo, prima che tuo zio divori tutto il pranzo! Ma, dove diavolo è finito il cappello?»

Il cappello era rotolato lì, vicino al bastone, sopra il libro rilegato in pelle rossa.

Mio nonno raccolse le sue cose e con un’espressione tra lo stordito, il meravigliato e l’incredulo mi regalò un libro bizzarro ma dalla rilegatura bellissima.

«Ma, da quando hai cominciato a leggere?» gli chiesi mentre sfogliavo veloce e curiosa le pagine.

«Ma qui non c’è scritto nulla!»

«Questo libro è per voi, scriveteci il nostro futuro!» sentenziò il nonno.

Non capivo quello che stesse succedendo e quello che mi stesse dicendo.

Davanti a me vedevo soltanto quegli occhi celesti dallo sguardo perso chissà dove e velato da chissà quale mistero, ma che, anche in momenti come questo, non perdeva mai fierezza e serietà.

Nonostante quel vago senso di leggera instabilità, davanti a me riuscivo ancora a vedere la roccia di sempre: quel fisico sempre possente nonostante le intemperie della vita e del tempo passato, e quello sguardo che, silenzioso, ti entra dentro ad infondere forza e determinazione.

Non chiesi nulla, le domande avevano già ottenuto le loro risposte. Lo abbracciai per ringraziarlo.

Così abbracciai i suoi ricordi, le mie speranze, i nostri sogni.

Abbracciai la mia terra.

LA MIA TERRA è un racconto di Lidia Laudenzi

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