LA TECNICA VIREN di Francesco Di Gangi

genere: HORROR

RISCALDAMENTO

Diede un’occhiata all’orologio. Erano le sei meno dieci. Era rimasto a piangere ed imprecare per oltre mezz’ora.

Riaccese il motore della sua Cinquecento. La sua storica maledetta Cinquecento blu, orgoglio di sua madre, che gli aveva passato cinque anni prima, quando aveva preso la patente. Con tutti quei “bellissimi” gadget anni ’70: l’accensione con la levetta da dietro, il riscaldamento che sapeva di benzina e la cappottina in tela che la rendeva “decappottabile”.

Avrebbe tanto voluto disintegrarla in quel preciso momento.

Non erano ricchi i suoi, e così invece di una macchina normale gli avevano dato quel rudere.

Oh, tenuto splendidamente dal padre, doveva ammetterlo. La vernice blu era splendente, le cromature scintillanti. Pareva nuova. E imparare a guidare su un’automobile del genere non era stato affatto semplice. A dirla tutta, a lui era sempre piaciuta. Almeno sino a quando non aveva capito che anche una macchina serviva quando si trattava di ragazze.

Ma lui quella aveva. Tanto carina, tanto simpatica. Ma anche tanto piccola, tanto povera.

Tutto l’affetto che aveva provato per la vecchia compagna di decine uscite con gli amici di sempre era come evaporato.

D’altronde, quell’anno stava andando di male in peggio.

Poco più di un mese prima un portiere argentino dal cognome basco aveva distrutto il suo sogno, e di tutta l’Italia, di vincere il mondiale di calcio. Aveva sofferto in quella notte maledetta davanti al televisore. Ma era niente paragonato a quanto stava passando in quell’altra notte calda e umida.

Umida, già.

Purtroppo, alle quattro aveva piovuto, e le strade si erano bagnate.

Lui e Donatella si erano riparati in macchina per alcuni minuti, ma l’acquazzone non era durato molto. Lei lo aveva stretto a sé, spaventata da un paio di fulmini, e lui si era sentito felice.

Solo un’ora prima.

Invece il fulmine aveva centrato lui, poco dopo. Lo aveva mollato, Donatella. Senza una spiegazione, senza un minimo segno nei giorni precedenti che potesse preavvisarlo della crisi che stava arrivando. Lo aveva mollato un attimo prima che lui la lasciasse a casa.

E che lei lo lasciasse solo e disperato.

Rimise in moto la Cinquecento. Nel cielo le stelle, se c’erano, erano ben nascoste dalle nuvole. Era stanco e voleva evitare di bagnarsi, anche perché non aveva un ombrello.

D’altronde, chi usciva a Palermo con un ombrello la notte di Ferragosto del 1990?        

Le strade apparivano deserte come mai le aveva viste, e tutto sommato gli andava bene così. L’idea che qualcuno avesse potuto vederlo mentre piangeva come un bambino di cinque anni… no, sarebbe stato il colpo di grazia sulla sua già bassa autostima.

A passo tranquillo stava raggiungendo l’enorme Piazza Indipendenza. Poteva vedere già il Palazzo dei Normanni illuminato sullo sfondo.

Fece per immettersi nella piazza quando dal nulla apparve il motorino.

Claudio avrebbe giurato per tutta la vita che stava andando a non più di quaranta all’ora, e aveva anche iniziato a rallentare. Ma la strada viscida gli impedì di inchiodare come voleva.

Sul motorino c’erano due ragazzi. Ebbe il tempo di notarli appena, perché finirono tutti e tre, motorino e ragazzi, sotto la sua macchina. Nella notte, l’urto non fece neanche tanto chiasso. Solo una frenata ed un impatto. Nemmeno un urlo.

Dallo scontro venne fuori un rumore strano. Una specie di “CHOP!”, quasi come se la macchina avesse investito un corpo molle e non un mezzo meccanico.

Claudio per alcuni secondi non emise un suono, ma sentiva il cuore spingere a forza quasi volesse uscirgli dal petto attraverso la gola. Era riuscito a non farsi nulla, reggendosi con tutte le forze sul volante al momento dello scontro. Gli era andata bene, non aveva sbattuto la testa, e gli occhiali erano intatti.

Non riusciva a capire, non si era distratto, e allora, da dove diavolo era uscito fuori quel motorino?

Spense il motore, staccò le chiavi ed uscì dalla macchina. Spaventato. Quel rumore gli aveva fatto pensare al peggio. E per di più non sentiva nessuno gemere, o lamentarsi.

Guardò davanti al cofano, sicuro di trovarsi di fronte ad una scena truculenta.

Invece vide soltanto il motorino, all’apparenza un vecchio Sì Piaggio, irrimediabilmente danneggiato, con una ruota che era finita sotto il cofano della sua Cinquecento. L’altra, quella posteriore, stava ancora girando a vuoto.

Capì subito che ci sarebbe voluto un carro attrezzi per portare via i due mezzi, che parevano fusi fra loro ormai irrimediabilmente. Pensò al momento in cui l’avrebbe dovuto dire a sua madre. Non sarebbe stato bello.

Un suono lo riscosse. Una voce bassa e roca.

“Ma come cazzo guidi?”

Raggelato vide due ragazzi alzarsi quasi contemporaneamente dall’altro lato della 500. Non avevano un graffio, non zoppicavano nemmeno. Il primo era un bestione di un metro e novanta, con capelli corti, devastato nel volto dall’acne e con indosso una magliettina a righe orizzontali a mezze maniche. L’altro era più basso, robusto, non più di un metro e sessantacinque, chiaro di carnagione, con dei ridicoli baffetti appena accennati e con i capelli lunghi sino alle spalle.

“Buffo”, ebbe il tempo di notare Claudio, “hanno delle magliette uguali”.

Si tranquillizzò. Non sembravano essersi fatti male.

Però, sembravano anche arrabbiati. Molto.

Non ebbe nemmeno il tempo di formulare una risposta, che li vide muoversi verso di lui.

“Testa di minchia!”, fece il piccoletto, “guarda cosa hai fatto!”

“Io… scusate. Non vi avevo visto”

“E che me ne fotte se non ci hai visto?”

Era stato il lungagnone.

La voce del secondo era profonda, quella del primo invece era acuta, stridula.

Cattiva.

“La colpa è mia, ci penserò io a pagarvi i danni”, fece nella speranza di calmarli.

Non sembrò funzionare granché.

“Ma cosa cazzo vuoi pagare”, fece di nuovo quello basso, che poi sputò. La saliva centrò il cofano, e si sentì uno sfrigolio, come quello di un Alka-Seltzer sciolto nell’acqua.

O come acido sul marmo.

I due stavano girando, molto lentamente attorno alla macchina, e una Cinquecento è una vettura piccola, piccolissima. La distanza tra loro era di pochi metri.

Tutti i peli sulla nuca di Claudio si drizzarono, e qualcosa di ancestrale lo spinse ad allontanarsi da lì.

Doveva scappare.

Il più velocemente possibile.

Indietreggiò. Un passo. Poi un altro. Di istinto cercò di avvicinarsi allo sportello della Cinquecento. Ma subito si rese conto che sarebbe stato inutile. Anche se ci si fosse chiuso dentro avrebbe ritardato di pochissimo un eventuale scontro. E quella maledetta cappottina era di tela impermeabile. Sottilissima. Sarebbe bastato un pugno per sfondarla, e certo non sarebbe potuto andare da nessuna parte. Per quella notte la vecchia compagna era come morta.

Il più basso fece un movimento rapido, rapidissimo. Con un balzo gli fu quasi addosso.

Una questione di istanti. Claudio aveva la mano sulla portiera che era aperta a metà. La spalancò con tutta la forza che aveva, e lo colpì ad un ginocchio. Quello lanciò un urlo di dolore e cadde a terra. Stupito, quello più alto mandò al cielo una bestemmia e gli si scagliò contro a sua volta.

Di istinto, di puro istinto, Claudio gli tirò addosso le chiavi che aveva ancora in mano.

Belle chiavi in metallo, robuste, con un portachiavi di quelli anni ’70. Tondo e pesante.

Lo colpì al volto.

 Da quella distanza, e tirato con tutta la forza, avrebbe lasciato un bel segno a chiunque. Il grosso si portò le mani al volto e incominciò ad imprecare, e del sangue sembrò sgorgare da uno zigomo, o era un occhio? A Claudio quei secondi servirono per mettersi a correre lungo Corso Vittorio Emanuele, alla luce gialla dei lampioni stradali, sperando e pregando che il Sì fosse davvero rimasto incastrato ed inutilizzabile. Perché, se fosse stato così, allora una speranza di evitare danni peggiori Claudio l’aveva.

Perché Claudio correva.

LA CORSA

Ci sono momenti nella vita che si rivelano fondativi per ciò che diverremo. Attimi di puro imprinting, che saranno decisivi perché la nostra mente, o forse anche la nostra anima, scelga cosa gli piace e cosa no. Cosa è bello e cosa non lo è. Cosa ci appassiona e cosa ci annoia.

Questi momenti sono sparsi soprattutto durante la nostra infanzia, e Claudio non faceva eccezione a questa ovvia regola.

Nel 1976 c’erano state le Olimpiadi. A nove anni, lasciato solo davanti al televisore da un nonno stanco e addormentato, aveva iniziato, del tutto inconsapevole, a vedere alcune gare in televisione. Come d’incanto scoprì l’atletica leggera. La corsa soprattutto. E se ne innamorò.

Un amore vero, profondo, di quelli che durano tutta una vita. Non solo per le gare, per la competizione, ma anche per il piacere stesso di correre. Ma questo lo scoprì quando iniziò a farlo per conto proprio.

In quell’estate del 1976 una gara lo segnò più di ogni altra. Tra i suoi ricordi quella sarebbe sempre stata LA gara, anche se la storia dello sport ne poteva ricordare altre molto più emozionanti.

Ma stiamo parlando di imprinting, e quello fu il suo. La finale dei diecimila metri di Montreal. La gara di Lasse Viren.

A distanza di quattordici anni quei ricordi da bambino non erano poi così precisi, ma una cosa la ricordava bene. Tre uomini che correvano. Il portoghese Carlos Lopes, il britannico Brendan Foster e poi lui, il dio finnico, l’erede di Paavo Nurmi (come poi avrebbe scoperto), Lasse Viren. Ad un giro dalla fine il fuoriclasse del Suomi accelerò con tutte le forze, staccando l’ultimo avversario, e concluse in solitario. Una vittoria apparentemente facile, ma naturalmente non lo era stata affatto.

Quei giri apparentemente senza fini dei tre podisti, invece di annoiarlo, come spesso capita, lo eccitarono. L’attesa per il finale, lo scontro tra campioni, i crolli improvvisi. Tutto gli era sembrato titanico, leggendario.

Così si innamorò della corsa di resistenza. La grande fatica, lo sforzo massimo, quello che alla fine lasciava il corridore svuotato di ogni energia, spesso a terra, a cercare disperatamente ossigeno.

Ecco, così lui la intendeva. Non era particolarmente dotato e non sarebbe mai stato un campione, questo lo comprese quasi subito. Ma comprese anche che l’allenamento lo avrebbe reso migliore. Così, sin da quando aveva tredici anni, ogni sera andava a correre.

A Palermo c’è un parco enorme, seppur ben poco attrezzato e ancor peggio mantenuto: il parco della Favorita.

Era stata la riserva di caccia di Ferdinando III di Borbone che lì aveva fatto piantare alberi di mandarini, ulivi, frassini e altro ancora, e secoli dopo trasformata in area pubblica. Era lì che Claudio si faceva accompagnare da suo padre, dopo averlo convinto con grande fatica a correre insieme. C’erano dei sentieri in sterrato dove poteva sgambettare felice, e fu lì che scoprì la quiete e la serenità della corsa. Quella sensazione di totale estraniamento dalla realtà circostante, e la possibilità di riflettere su ogni cosa, mentre il corpo, quasi in automatico, prendeva un ritmo costante. Per quanto fosse bello osservare quel poco di natura che Palermo poteva regalare, la cosa che più amava era la possibilità di avere uno spazio per sé, un angolo dove rilassare la mente. Con il tempo iniziò ad andare da solo, ma non cambiò nulla. Non gli davano noia nemmeno le prostitute che sostavano tranquille in pieno giorno sul suo percorso, in attesa delle auto dei clienti. Anzi, alcune con il tempo iniziarono a riconoscerlo e salutarlo quando le incontrava, e lui rispondeva sempre con un gesto della mano.

Gli piaceva così tanto correre che, quando al suo Liceo organizzarono le gare di atletica per i Giochi della Gioventù, lui si propose, tra la sorpresa dei suoi compagni. Tutto sommato lui era Claudio Nocera, piccolo, magro, e incapace in modo clamoroso in qualunque sport. Una pippa senza speranza.

Era una semplice corsa sui mille metri. Troppo breve per lui, che da anni era abituato a ingoiare cinque, anche sei chilometri al giorno, e tuttavia fu sufficiente a dargli il suo unico successo sportivo.

Successo per modo di dire, visto che arrivò quarto. Non si era nemmeno molto affaticato, per dirla in gergo podistico non aveva nemmeno “rotto” il fiato. Ma quarto tra tutti gli studenti del suo Liceo non era stato male, e soprattutto davanti a tutti i suoi compagni di classe, che partiti come schegge morirono dopo nemmeno quattrocento metri. Quel giorno lo guardarono con un rispetto diverso.

La cosa finì lì. Non andò ai campionati provinciali ma non soffrì nemmeno un po’, perché quella per lui non era vera corsa.

A lui piacevano le gare lunghe, lunghissime. La maratona era il suo sogno, l’obiettivo della sua vita.

“Posso correrla in meno di due ore e mezzo”, aveva spesso pensato. Prima o poi l’avrebbe provata, ma nel frattempo correva ogni giorno. Ogni singolo giorno.

E quello era l’unico vantaggio che pensava di avere su quei due. Il suo allenamento, la sua maniacale ricerca della meccanica perfetta di corsa. L’ampiezza della falcata, il corretto movimento delle braccia, la giusta altezza delle spalle, il controllo della respirazione. Era una scienza complessa, difficile da padroneggiare, e lui negli anni era diventato molto bravo.

Dopo aver fatto circa duecento metri, resosi conto che non sentiva i passi di nessuno dietro di sé, rallentò e si voltò. Si era aspettato di vedere i due ancora vicino alla macchina, tentando di estrarre il Sì, magari mentre lo riempivano di insulti. Però mentre correva non ne aveva sentito nemmeno uno, e questo era strano. Il “malacarne” palermitano non solo picchia ma più ancora parla, offende in modo pesante, e urla sempre più forte.

Non stavolta.

Quello che vide invece gli ghiacciò il sangue, quasi paralizzandolo sul posto.

Quei due avevano incominciato a correre dietro di lui, ed erano a non più di una trentina di metri.

Prima di ripartire una parte della mente di Claudio, a livello semi conscio, ebbe il tempo di notare due cose: la prima era che i loro passi non facevano alcun rumore, la seconda era che i loro occhi mandavano lampi color rosso rubino.

Ripartì, cercando di non andare a rotta di collo, non era prudente.

“Non ho fatto nemmeno un poco di riscaldamento”, pensò quasi atterrito, “rischio un crampo o anche una contrattura. Devo andare via regolare”

Quelli però non parevano interessati alle sue considerazioni tecniche. Stavano correndo come dei pazzi e basta. L’avrebbero raggiunto molto presto a quel ritmo.

“Devo accelerare. Per forza”, pensò.

Andando contro l’istinto generato da anni di corse, fece una specie di lunga volata.

“Li stronco con un’accelerazione. Non hanno fiato, scoppieranno tra duecento metri”

La cosa sembrò funzionare. Con la coda dell’occhio si accorse di averli distanziati.

Non di molto, però. Erano staccati di una ventina di metri da lui, ma non parevano decisi a fermarsi, e cosa ben peggiore, non perdevano più terreno.

Lui invece avrebbe voluto farlo. Fermarsi. Quelle dannate scarpe… due mocassini che non erano adatti in alcun modo alla corsa. Sentiva ogni singolo passo sbattere sull’asfalto in modo piatto, e in assenza della gomma delle sue belle scarpe da ginnastica era come se gli arrivassero continue sberle dritte al cervello.

Inoltre, con la strada viscida quelle trappole potevano anche farlo scivolare, il che avrebbe voluto dire finire nelle mani di quei due “malacarne”.

Perché lui non aveva dubbi su che tipi fossero quei due. Un palermitano li riconosce al volo. Il modo di parlare, i vestiti, l’atteggiamento, tutto portava ad un’unica risposta: due teppisti della peggior specie di qualche quartiere periferico. Due abituati ad un ambiente diverso dal suo. Un ambiente molto più violento. Non sarebbe stato stupito se avessero avuto anche dei coltelli. Sicuramente sapevano picchiare, mentre lui… l’avrebbero fatto a pezzi.

Ma cosa ci facevano a quell’ora per strada?

Sul momento non gli pareva una domanda così importante. Sbagliava.

Quel che gli importava era che i due, dopo un iniziale rallentamento, avevano a loro volta cominciato a correre con un minimo di criterio.

“Non urlano più”, pensò, “non imprecano nemmeno”

Si limitavano a correre. Come lui. Dietro di lui.

Si distrasse un attimo, e fu sufficiente a pattinare sull’asfalto. Agitò le braccia come un disperato per tentare di rimanere in equilibrio, e la cosa a fatica gli riuscì.

Da dietro aveva sentito una specie grugnito, come se i due avessero apprezzato.

“Mi devo levare ste cazzo di scarpe”, fece.

A costo di perdere qualche secondo, ma doveva farlo. A costo di farsi venire un crampo.

Così si fermò per un paio di secondi, le levò e riprese a correre a piedi nudi.

Guardò i mocassini che teneva in mano, e non senza una fitta di dispiacere li gettò via. Un’altra cosa da spiegare a sua madre.

Ma aveva funzionato.

Nessun crampo, nessun dolore. Per quella volta era salvo. Ma quelli?

Si erano avvicinati. Poteva percepirli, in quella notte che era quasi mattina, con nessuno per strada tranne loro tre. Sentiva il rumore del loro ansimare. Ritmico.

E anche questo era strano.

“Stanno controllando la respirazione”, pensò sbalordito, “ma chi diavolo sono?”

La speranza, del tutto fondata all’inizio, che quei due sarebbero scoppiati dopo poche centinaia di metri si era ormai dissolta, perché sapevano correre ed avevano pure fiato.

Alcuni minuti prima avrebbe scommesso che fossero un altro tipo di persone. Di quelli che fumano, bevono, e che al massimo allenano i pugni.

“Sono dei corridori!”, pensò sgomento.

Il che rendeva quella una vera corsa.

I loro ritmi erano diventati più regolari, sembrava cercassero di gestire al meglio le forze. Era un comportamento molto sensato, pensò con una nota amara di ammirazione, da corridore a corridore.

Esisteva la possibilità che lo raggiungessero? Iniziava a temerlo.

Si costrinse a fare qualche calcolo.

Dal punto in cui era partito all’incrocio con via Roma dove si stava dirigendo c’erano… quanti chilometri? Probabilmente un paio. A quel ritmo, che per lui era folle, ci avrebbe messo meno di sei minuti. E poi?

Poi, se la fortuna lo avesse aiutato, avrebbe incontrato qualcuno.

Bar e ristoranti aperti a quell’ora, e in quella particolare notte, poteva scordarseli. Ma una macchina della polizia? O anche soltanto di qualche nottambulo? Non era improbabile.

Avrebbe chiesto aiuto e sarebbe stato salvo.

Però doveva arrivarci a quell’incrocio, perché tutto Corso Vittorio Emanuele, dritto e sottile come una spada, era desolatamente vuoto. Se lo avessero preso, avrebbero potuto anche squartarlo al centro della carreggiata, e nessuno sarebbe intervenuto.

Che poi, qualcuno sarebbe intervenuto davvero in quella città? Non molti, rifletté, non molti davvero.

Arrivato all’incrocio avrebbe preso a sinistra per via Roma e da lì avrebbe tirato a tutta. Prima o poi sarebbero scoppiati. Dovevano scoppiare.

In ogni caso lui stava andando verso casa. Lontana purtroppo.

“Già”, pensò, “quanto lontana?”

Non lo sapeva, ma ad occhio c’erano almeno altri quattro chilometri sino a Piazza Don Bosco. E poi? Mah! Almeno altri tre sino a casa. Si accorse che si era distratto. Proprio quello che non doveva fare! E quelli se ne stavano per approfittare.

Non li sentiva ma poteva intravedere le loro ombre dietro di sé. Erano maledettamente vicini, a non più di dieci metri, e non andava affatto bene.

Doveva aumentare la velocità, e doveva farlo subito.

C’era una cosa che Claudio non aveva mai confidato a nessuno. Qualcosa della quale si vergognava a parlarne, perché temeva di essere preso per matto. Però in quella situazione gli poteva tornare utile.

Negli anni aveva trovato un sistema per concentrarsi meglio nella corsa.

Una sorta di mantra, una tecnica tanto fisica quanto mentale per raggiungere la perfezione, o quantomeno la miglior prestazione possibile.

Come ci fosse arrivato non gli era mai stato chiaro, ma entrare in quello stato di coscienza per lui voleva dire scivolare in una sorta di sogno lucido. O allucinatorio.

Però funzionava. Cercò di mettere da parte il terrore e di focalizzare la mente su un ricordo, su un momento specifico, e poi lasciò andare.

Fu come un lampo bianco che gli si accese nel cervello. Un istante dopo si ritrovò al centro dello Stadio Olimpico di Montreal, nel Canada Francese. Era l’Estate del 1976, un pomeriggio fresco, e stava giocandosi il titolo Olimpico contro i migliori atleti del Mondo. Incominciò a sentire il profumo degli hot-dog caldi, del popcorn con robuste dosi di burro, della birra bevuta a litri da tifosi tedeschi, olandesi e neozelandesi. Gli parve di vedere i volti dei giudici che controllavano la corsa, tutti in giacca rossa e cappellino bianco. E poi sentì il boato del pubblico, quel suono continuo in tante lingue diverse, così tante da formarne una nuova, seducente. Un mormorio crescente che era solo una spinta per tutti gli atleti verso la vittoria.

E lui? Lui era il Dio della corsa. Il Signore di quell’anello magico. Era il re del Suomi.

Lasse Viren.

Rapidamente, quasi magicamente, sentì le gambe divenire più agili.

La paura di un improvviso crampo scomparve, mentre girava a sinistra in Via Roma, dirigendosi verso Piazza Don Sturzo.

Si fosse fissato a pensare che quei due erano decisamente diversi da due comuni ladri, che correvano con l’esperienza di un podista navigato, che sputavano acido e avevano gli occhi rossi sarebbe probabilmente impazzito dal terrore. Ma quando era Lasse Viren lui era tranquillo, quasi sereno.

Era Lasse Viren, era a Montreal, e davanti, a una distanza quasi infinita, c’era il traguardo. La sua medaglia d’oro.

Purtroppo, però Via Roma, una delle arterie principali del centro cittadino, si mostrò spettrale quanto quella dalla quale era arrivato.

Una via così ampia, e nessuno per strada…

“Tutto chiuso, maledizione, nemmeno un ubriaco!”

Un secondo dopo aver pensato quelle parole, un lampo di dolore gli arrivò dalla caviglia destra.

“No!”, urlò a denti stretti.

Erano stati i maledetti ciottoli in porfido di quella strada. Per attraversarla e salire sul marciapiede opposto era finito su quel maledetto acciottolato nero. E il piede scalzo si era piegato in modo innaturale. Non era una storta, per fortuna, ma aveva rischiato grosso.

Lui non era abituato a correre a piedi nudi.

Era un occidentale abituato dalla nascita a indossare scarpe comode. Un paio per correre, uno per stare in casa, uno per andare a scuola.

Il dolore che gli arrivava ad ondate era dovuto a tutta una serie di piccoli graffi che gli incidevano la pelle. Sentiva il bruciore, e gocce di sangue macchiavano il suo passaggio. Era poco, ma faceva male. Cosa sarebbe successo se avesse pestato qualcosa di grosso ed acuminato? Che so, un coccio di bottiglia?

Cercò di mantenere la calma, di riprendere il controllo della corsa, della sua tecnica. Aveva notato che il ritmo che aveva imposto era stato sufficiente a mantenere una minima distanza di sicurezza.

“Sono a cinque metri, e non riescono ad avvicinarsi”, ottima cosa, se non fosse stato che sentiva il cuore pompare già al massimo. Non poteva andare più forte, ed appena avesse avuto un minimo rallentamento l’avrebbero preso.

Lui lo sapeva che Lasse Viren non avrebbe mai rallentato.

“Rilassa il corpo, rilassa la mente, focalizza solo l’azione di corsa”, pensava in continuazione. Il battito cardiaco, come in risposta a quella muta richiesta, rallentò, seppur leggermente, e di nuovo, malgrado il sudore che ormai gli aveva attaccato la maglietta alla pelle, sentì di potercela fare.

Ma fare cosa? Non riusciva a staccarli, nemmeno a guadagnare un metro, e anche se fosse arrivato sotto casa difficilmente sarebbe riuscito ad aprire il portone prima che lo raggiungessero. Certo, a volte era aperto, ma non c’era da contarci molto. E comunque, davvero l’unica possibilità che aveva era correre all’infinito?

Persino il suo campione alla fine si sarebbe dovuto fermare, e malgrado il suo mantra, lui sapeva benissimo di non essere Lasse Viren.

“Non è possibile che io non riesca a staccarli. Ormai corriamo da 15 minuti, perché non si fermano a vomitare l’anima? Devo voltarmi e guardarli in faccia, devo vedere come stanno”.

Pare facile, ma voltarsi mentre si corre, come sa anche l’ultimo dei podisti, fa perdere la “meccanica di corsa”. I muscoli, e tutto quello che tirano, non apprezzano granché una modifica così improvvisa del movimento. E allora spesso mandano al cervello un messaggio chiaro e netto: “A noi non piace; quindi, pensiamo di farci venire un crampo”.

Accetto il rischio perché, prima che le gambe si infiacchissero di colpo, doveva vedere. Prima doveva sapere.

E vide.

Vide due ragazzi in maglietta, che correvano senza emettere un suono. Però… il piccolo aveva la bava alla bocca (“una bava che buca le lamiere di una macchina”) e l’altro… l’altro era tutto sommato normale. Solo che gli usciva del vapore dal naso. Cosa già strana in inverno, ma quella era la notte di Ferragosto.

“Come il vapore che esce dal forno quando si fa la pizza”, urlò la parte cosciente di Claudio.

Un forno che, di solito, era posto attorno ai quattrocento gradi.

E poi c’erano gli occhi, dai quali venivano fuori quei bei lampi color rosso rubino, che, come fanali, illuminavano i loro volti.

“Non sono umani, cazzocazzocazzo, ma che cosa ho fatto, perché ce l’hanno con me?”

“Perché”, fece una vocina nella sua testa, “tu gli hai abbattuto il destriero, così se la prendono con te”.

“Demoni in maglietta su un Sì truccato, ma che incubo è? Che cosa facevano in giro?”

E la vocina diede un’altra risposta:

“Erano a caccia”.

Ecco, quello era un pensiero da levare il fiato. Da piegargli le gambe.

Possibile che fossero davvero… demoni?

Se non quello, cos’altro?

“Cacciatori notturni”, fu la definizione migliore che gli venne alla mente. Erano in giro, e quando l’avevano visto si erano appostati in mezzo alla strada.

Un agguato. Ma non sarebbe dovuta andare in quel modo.

“Io… io… la Cinquecento ha sbandato!”

Ecco cosa era successo davvero. In condizioni normali, malgrado la sorpresa, lui sarebbe riuscito a fermarsi per tempo.

“E loro mi avrebbero attaccato”.

Si corresse.

“No, non attaccato. Assalito”.

Era stato un caso, soltanto un caso, che lui li avesse investiti. Non se lo aspettavano. Merito di quella pioggia di un’ora prima e del pessimo asfalto di Palermo.

“Sia gloria al dio dei cattivi amministratori”, pensò.

Se fossero stati davvero dei cacciatori, allora una volta che lo avessero preso non si sarebbero limitati a fargli del male.

“Se sono cacciatori…”, fece la sua vocina interiore. Fermò quel pensiero, perché sentì come un rigurgito salire dallo stomaco, ma lo bloccò.

Però c’era dell’altro. Lui era riuscito a ferirli.

Come era stato possibile?

Ripensò al grosso portachiavi di sua madre, una fervente cattolica, con cui aveva colpito il grosso in volto. Era in metallo, e attaccato all’anello c’era una croce. Era possibile fosse stato quello?

In ogni caso, se erano davvero degli esseri soprannaturali, la domanda vera era un’altra: perché non lo avevano ancora raggiunto?

Anche qui la risposta arrivò chiara, seppur assurda.

“Non sono abituati a correre, infatti montavano in due su quel Sì (o qualunque cosa fosse davvero)”.

Aveva un suo senso.

“Demoni sedentari”, concluse con improvvisa nitidezza.

Cacciatori demoniaci moderni. Abituati alla caccia in città, e per questo mimetizzati, meccanizzati.

Al cinema il demonio veniva ancora proposto come qualcosa di antico, di gotico. Invece quelle cose, da qualunque posto provenissero, erano al passo con i tempi.

Pur mantenendo delle vecchie e sane (insane?) abitudini. Come cacciare l’uomo la notte.

Avevano però preso anche i difetti del mondo nel quale si erano incistati, compresa la disabitudine a correre.

Perché no?

Se quel motorino non fosse rimasto sotto la sua Cinquecento…

Iniziò a pensare che quella piccola macchina gli avesse salvato la vita per due volte nello stesso momento. E lui che voleva liberarsene…

La corsa li stava portando in Piazza Don Sturzo, da lì poteva girare a sinistra ed immettersi sulla breve salita che l’avrebbe portato in Piazza Politeama, e quindi in Via Libertà. La via principale, dove c’era sempre qualcuno. Ma la salita era troppo per le sue gambe gementi. E allora, con uno sprazzo di lucidità, sapendo di non avere il fiato per urlare, anzi, nemmeno per emettere un lamento, decise di andare dritto. In Via Roma Nuova, sempre dritto sino a casa sua. Forse.

Nel frattempo, si accorse che dallo stomaco stava salendo di nuovo un sapore acido.

Si trattava solo della premessa ad un’improvvisa zaffata puzzolente e semisolida, che arrivò come una marea montante sino alla gola, si fece strada con forza attraverso il naso e la bocca, e poi cominciò a tracimare fuori.

“Birra e pizza, e con delle patatine fritte con Ketchup per antipasto”, pensò con rabbia, “se mi salvo non ne mangio più, giuro”.

E vomitò, in corsa, senza voltarsi, piegato in avanti dal dolore, mentre pezzetti di patata semi digerita uscirono anche dal naso, rimanendo attaccati al volto, al collo e alla maglietta.

Quello che gli era successo sembrò interessare i due dietro, perché li sentì parlare, ed era la prima volta da quando correvano. Cosa si stessero dicendo non lo capì, ma non era importante.

Il senso era chiarissimo. “Mi stanno per prendere, hanno capito che sto male e fanno lo sforzo per prendermi”. Le luci dei lampioni, bianche e spettrali, mandavano le loro ombre su Claudio, e delle mani si andavano allungando, quasi sino all’altezza della sua testa. E c’era persino di peggio, perché a quella distanza riusciva a sentire il loro respiro. Caldo e umido, e puzzolente. Ma non era la presumibile puzza di zolfo. A Claudio ricordò quella che sentì da piccolo un giorno in campagna, quando il suo cane aveva trovato, dopo una notte di pioggia, la carogna di un gattino finito sotto il ramo staccatosi da un abete che stava vicino casa. Se non avesse già vomitato lo avrebbe fatto in quel momento, eppure il suo stomaco mandò su un nuovo spasmo doloroso.

E allora si voltò verso la vetrina di uno dei negozi che si trovavano sul marciapiede di destra, erano tutti chiusi e con delle belle saracinesche di ferro, ma qualcuna permetteva comunque di specchiarsi, perché di quelle a maglie larghe. Mosse con dolorosa lentezza la testa e vide.

Stavano cambiando ancora, o forse era lo specchio che rimandava la loro vera forma.

Due demoni in maglietta con le zampe caprine e le corna che correvano dietro di lui. Beh, non era proprio una corsa, meglio dire che saltellavano in modo disordinato, ma clamorosamente efficace. Erano a non più di due metri, e avevano dei begli artigli all’estremità delle mani. E c’era anche dell’altro.

Il cervello di Claudio ci mise più di tre secondi per processare l’immagine e darle un senso compiuto. Quindi la sparò veloce come un proiettile dritta nella zona del pensiero conscio che avrebbe dovuto processarla. Solo che questa zona, all’arrivo dell’immagine, si rifiutò di considerarla vera. Inizialmente la negò recisamente, perché non aveva alcun senso. Poi però, la assimilò.

“Cazzo, assomigliano a Lopes e Foster”

I due avversari di Viren, quelli della finale di Montreal, e che lui aveva visto in realtà solo una volta in quel pomeriggio di quattordici anni prima alla TV, erano in qualche perverso modo fusi con i demoni che volevano banchettare con le sue viscere.

“Devono averli presi dai miei ricordi, ma perché?”

Anche stavolta la risposta arrivò subito. Quasi ovvia, ormai.

“Perché non sapevano correre. Gliel’ho insegnato io!”

Gli erano entrati dentro la testa, probabilmente quando lui aveva iniziato quel suo stupido mantra finnico.

“No, perché stupido? Mi sta salvando la vita”, fece con rabbia.

Rimaneva il fatto che quei due stavano banchettando con i suoi pensieri, e quella trasformazione sembrava un modo per deriderlo. Ma la cosa peggiore era che se davvero fossero stati capaci di leggere la sua mente, allora avrebbero saputo cosa volesse fare, e dove volesse andare.

Se era così… non aveva alcuna possibilità di salvarsi.

Ormai erano le sei del mattino, forse anche qualche minuto oltre.

Giornalai e panettieri avrebbero già dovuto alzare le saracinesche. Le luci dei lampioni si stavano spegnendo e avrebbe dovuto vedere le prime macchine per strada.

Ma era anche il quindici di agosto a Palermo.

Ancora nessuno.

Possibile che davvero per strada non ci fossero nemmeno i cani con i relativi padroni, usciti per pisciare sulla ruota di qualche macchina?

“Perché… perché sono solo?”

Quasi come risposta, una macchina della polizia apparve da una via laterale. Andava molto piano, e veniva verso di lui.

“Sono… sono salvo”, pensò.

Era così stanco che ansimavano anche i suoi pensieri.

Deviò quel poco da poterli incrociare. A bordo di quell’automobile si vedevano due agenti. Riusciva già a vederli in volto. Alzò le braccia e cercò di chiamare aiuto

“Fermi, per piacere, fermi!”

I suoi occhi si incrociarono con quelli dell’agente al volante.

L’uomo lo guardò, poi volse lo sguardo dietro Claudio.

“Mi vede! Ci vede!”, pensò felice.

Ma la macchina non si fermò. Al contrario, accelerò ed imboccò una via laterale.

Claudio non ebbe nemmeno la forza di reagire. E nemmeno di urlare.

Erano andati via. Lo avevano abbandonato. Avevano visto e se ne erano andati comunque.

Perché?

Non lo sapeva, ma stava cominciando a capire.

Dietro quelli sbuffavano, ancora a pochi metri. E poteva sentire quella specie di grugnito, che in alcuni momenti sembrava tramutarsi in un vero ringhio.

Era solo, perché in quella città nessuno osava lasciare la propria casa.

Poteva quasi vederli mentre rimandavano l’uscita, e trovavano una scusa per rimanere sotto le coperte, o seduti al tavolo della cucina a bere un caffè. Aspettando che il male oltrepassasse le proprie case.

“Hanno tutti paura. Anche i poliziotti, tutti”

Perché i mostri erano a caccia. E le prede, seguendo un istinto ancestrale, si rannicchiavano nelle proprie tane, in attesa che quelli andassero da un’altra parte, dopo aver banchettato. Che ritornassero nell’inferno che li aveva generati.

Nel posto pieno di urla, e sangue e macchine omicide.

Un mondo dove i draghi mutavano la pelle nel metallo di una motocicletta, e i demoni affamati nella carne di teppisti di strada.

Claudio si accorse di vivere in una città di quasi settecentomila persone, che erano tutte chiuse in casa come cavernicoli spaventati dal ruggito dei lupi.

Un improvviso ululato lo raggelò, mentre sentiva le gambe sempre più stanche.

“Mi hanno sentito”, pensò.

“Leggono la mia mente. Sanno cosa penso, cosa provo”.

E si divertono. Ecco cosa era la caccia per quelle due cose. Un divertimento. Forse li aveva feriti, ma non gli avrebbero concesso una seconda occasione.

Eppure, cosa ammazzava i demoni?

Ripensò a quello che sapeva. Non era credente, ma il cinema, i libri…

“Acqua santa, ostie consacrate… una Chiesa! Mi serve una Chiesa!”

Stava arrivando a Piazza Don Bosco, e sulla sinistra poteva vedere la parrocchia di San Luigi, dove era stato battezzato.

La speranza morì subito.

Chiusa. Sbarrata. Cancello di metallo e portone ben chiusi.

“Anche il prete starà aspettando che i mostri se ne vadano”, pensò.

Era solo. E aveva corso per tanto tempo senza riscaldamento, senza alimentazione, con i piedi piagati.

Ormai era stremato e l’acido lattico stava infiltrandosi ad ondate nel tessuto muscolare. Certi dolori erano un segnale chiaro.

Sarebbe crollato per un crampo entro poco. Se lo sentiva dentro. E allora lo avrebbero preso. E smembrato lì, per strada, anche se era quasi giorno.

“Giorno!”

Ecco a cosa non aveva pensato.

“Il sole. La luce del sole. Se resisto ancora per qualche minuto…”

Da dietro avvertì un suono diverso.

I due… esseri stavano comunicando di nuovo.

Era una nota interrogativa che aveva sentito? Non lo avrebbe giurato, però era possibile.

In fin dei conti, pensò mentre lasciava Piazza Don Bosco e si immetteva in Viale del Fante, aveva iniziato a intuire come ragionavano.

Pensieri semplici, animaleschi, come animaleschi erano i loro appetiti.

Ma erano anche furbi.

Forse la luce del sole era davvero un pericolo per loro. Come per i vampiri nei film, nei libri.

Forse.

E forse lo stavano ingannando.

In ogni caso le prime lingue di luce stavano toccando il terreno. Pochi minuti ancora e tutta la strada sarebbe stata illuminata. Pochi minuti soltanto.

Era un’impressione o dietro i due correvano soltanto sul lato ombreggiato della strada?

Non lo poteva sapere con certezza, perché non poteva più voltarsi senza avvitare i suoi muscoli in modo irrimediabile.

Certo però era che quella caccia si stava prolungando molto oltre il tempo che dovevano essere abituati a utilizzare.

I loro respiri si stavano facendo pesanti.

“Sono stanchi”, pensò, e subito dopo, “Possono andare in acidosi anche loro?”

Era una domanda surreale. Demoni con i crampi?

E perché no? Se era possibile che avessero attinto davvero alle sue esperienze per divenire corridori, era anche possibile che…

La strada davanti parve per un momento ruotare di centottanta gradi. Un momento solo.

Non era stata la fatica a fargli perdere l’equilibrio, ma la consapevolezza.

Sentì un altro mugolio da dietro.

“Ho ragione, vero?”, riuscì ad urlare.

Nel silenzio irreale di quella mattina, la sua voce sembrò rimbalzare in modo piatto lungo la strada.

Senza eco. Come morta.

Però loro avevano sentito.

“Perché se voi siete Lopes e Foster, se siete davvero come loro…”, continuò

I due mostri ringhiarono furiosi, ma Claudio ormai si sentiva esaltato.

“…allora anche io sono come Lasse Viren!”

Una forza primordiale e selvaggia lo prese, rinvigorendolo come mai gli era successo.

Era tornato nello stadio di Montreal. Stava per iniziare l’ultimo giro.

“E se sono Lasse Viren, allora vinco io!”, urlò.

E accelerò. Instancabilmente, violentemente. Un passo alla volta li staccò.

Ebbe persino la forza di girarsi e vide che prima il grosso (Foster) e poi il piccolo (Lopes) si stavano staccando.

E il palazzo dove abitava era sempre più vicino. Una brutta palazzina di tre piani color ocra, esattamente davanti allo Stadio delle Palme dove anni prima era arrivato quarto nella gara del suo Liceo. Mancavano non più di duecento metri.

Mise una mano in tasca e prese al volo le chiavi. Non doveva sbagliare. Aveva preso un vantaggio sufficiente per arrivare ed aprire il protone di ingresso. Una volta dentro non sarebbero entrati.

Lo sperava almeno.

Gli servivano poi le energie per due rampe di scale e sarebbe entrato a casa. E lì c’erano abbastanza arredi sacri da tenere indietro Satana in persona, grazie a sua madre.

“Adesso Lasse Viren accelera, accelera e vince!”, urlò in un parossismo di pura esaltazione.

Non sentiva più il dolore ai piedi, alla caviglia, allo stomaco. L’acido lattico pareva essere evaporato dai suoi muscoli.

C’erano soltanto lui e la corsa.

Lui e la vittoria.

“Stavolta vinco io!”, urlò ancora, mentre i due demoni sembravano irrimediabilmente staccati.

Arrivò al portone e senza quasi decelerare si lanciò con la chiave in mano.

Allungò la mano per infilarla nella serratura.

E la mancò.

Il suo corpo centrò invece il portone con tutta la forza dello slancio.

Sentì la spalla destra schioccare, e poi si accasciò al suolo.

Riuscì a pensare: “Cazzo, me la sono lussata”, quando il piccoletto gli fu addosso.

Anche se non era più il piccoletto. E nemmeno Carlos Lopes.

Era una cosa piena di zanne ed artigli, con una testa che pareva quella di un grosso lupo con le corna, attaccata al corpo di un enorme caprone nero.

Una cosa ansimante e ringhiante.

“Stanco”, riuscì a pensare, “l’ho fatto proprio scoppiare”.

Il demone arrivò a un metro da lui, e poi si fermò di colpo.

Claudio stava ansimando, distrutto dalla fatica e dal dolore, e tutto quello che poteva vedere risultava appannato da un velo di lacrime e sudore.

La cosa che era stata un teppista e un corridore portoghese iniziò a mugolare. Furiosa.

Un raggio di luce, uno solo, aveva illuminato l’area del portone dove si trovava riverso Claudio, quasi come il faro di un teatro. Richiamato dal compagno anche il secondo (NonFoster ormai) arrivò con la lingua penzoloni.

Era stanco anche lui. Come il primo. Forse anche di più.

I due cominciarono a muoversi nervosamente a destra e a sinistra, come a voler trovare un passaggio. Un punto dal quale penetrare e acchiappare Claudio, che piano piano stava riprendendo un minimo di forze.

Aveva capito anche lui, ormai.

“No. Non ci riuscite proprio, vero?”, fece.

I due si fermarono, guardandolo dritto negli occhi.

Quei maledetti occhi rossi dardeggiavano odio. E rabbia.

“È finita, giusto? Non potete passare”.

Davanti ai suoi occhi le due cose iniziarono a cambiare ancora. Regredirono prima nella forma dei due corridori e poi in quella dei teppisti.

Il piccoletto, che era il capo, lo guardò con occhi quasi normali. Sorrideva.

“Cosa cazzo ridi?”

Claudio non fiatò. Quella voce era solo apparentemente umana. C’era qualcosa dentro che faceva paura.

“Non ti abbiamo preso oggi. Ti prenderemo domani”

“O tra un mese. O un anno”, fece l’altro.

“Ormai sei morto”, concluse ghignando il primo.

Fecero per andarsene.

“Ho vinto io”, fece Claudio.

Si fermarono.

Poi si voltarono. I sorrisi erano scomparsi.

“Potete farmi quello che volete domani, ma oggi io vi ho battuti. Tutti e due”

Ringhiarono.

Li stava facendo arrabbiare.

“Tu… testa di cazzo. Tu non hai vinto nulla”, fece quello più basso.

“Era una caccia, no? Una corsa. E io ho vinto. Non vi era mai successo, vero, di perdere una preda? Deve fare male”

“Zitto! Stai zitto!”

Il piccoletto era furioso. Il volto era divenuto rosso, e la bava acida stava uscendogli copiosa dalla bocca e dal naso. Rivoli di bile che bruciava per terra, facendo alzare un fumo nero.

L’altro, il grosso, si limitava a grufolare. Pareva confuso.

“Ho ragione”, pensò Claudio, “non gli era mai capitato”

Ma anche loro avevano ragione. L’avrebbero cacciato per tutta la vita.

A meno che…

Loro non vedevano quello che vedeva lui. Avevano occhi soltanto per lui. Soprattutto quello più piccolo.

“Ti ammazzeremo. Squarteremo il tuo corpo e mangeremo le tue budella”, fece urlando.

“Sì, in un’altra vita.”, continuò Claudio.

“E poi mangeremo tua madre, tuo padre, i tuoi amici. Tutti!”

“Nei tuoi sogni, buffone!”

Quello lanciò un ululato selvaggio. La bocca era umana, ma i denti che sporgevano erano zanne affilate, storte e grondanti bava. Fece per scagliarsi contro Claudio, ma l’altro lo bloccò.

Claudio rimase deluso. C’era quasi riuscito. Ma non era ancora finita.

I due avevano iniziato a capire cosa stesse avvenendo.

Ma avevano perso troppo tempo. La zona d’ombra dove si trovavano si era ridotta enormemente.

Ovunque si fossero spostati, sarebbero stati illuminati dal sole.

Il piccoletto guardò verso Claudio. Uno sguardo di comprensione.

“Già”

Non dovette dirgli altro.

“Tu… pezzo di merda, testa di cazzo. Piccolo quattrocchi piscialetto”

“Vai avanti. Non sei nemmeno particolarmente creativo”

Il più grosso fu sfiorato dalla luce solare e mandò un urlo. Dal braccio colpito salì uno sbuffo di fumo.

Disperati tentarono di attraversare comunque.

Ma dopo nemmeno due passi iniziarono a bruciare. L’aria iniziò a sapere di catrame.

Urlarono. Un urlo acutissimo, quasi femmineo.

Urlarono e si consumarono. Velocemente.

Quando quello spettacolo spaventoso finì non rimase nulla dei loro corpi, nemmeno la cenere.

Fu allora che Claudio svenne.

EPILOGO

Attirati dalle urla e dalle fiamme, oltre che dalla consapevolezza che tutto fosse finito, i più mattinieri corsero e videro il corpo di Claudio appoggiato addosso al portone. Un signore, che era un vicino di casa, citofonò alla famiglia Nocera.

La madre di Claudio e il fratello scesero di corsa, lo presero e lo portarono su.

Il vicino li guardò entrare nel portone, e si voltò con un’espressione confusa.

“Che c’è? Perché fa quella faccia?”, gli chiese un altro passante.

“Non so, il ragazzo ha detto qualcosa, ma devo aver capito male, perché non ha molto senso”.

“Che ha detto?”.

“Primo, medaglia d’oro”.

FINE

LA TECNICA VIREN è un racconto di Francesco Di Gangi

genere: HORROR

Post a Comment