L’OMBRELLO A POIS di Lucio De La Balca e Jelissa Carola Piques

Mentre attraverso il cortile della facoltà di medicina guardo l’ultimo, ennesimo trenta che mi ritrovo sul libretto. Continuo a camminare verso la fermata del bus per tornare a casa per pranzo come sempre dopo un esame, pensando a come saranno fieri i miei genitori mentre la solita sensazione di insoddisfazione e vuoto mi pervade.

La fredda pioggia di questo mercoledì di febbraio mi spinge a ripararmi sotto la pensilina in attesa del mio autobus che dovrebbe arrivare a breve. Mi perdo nei miei pensieri quando un anziano signore in bicicletta, avvolto in un cappotto verde bottiglia, attira il mio sguardo a causa dello strano ombrello che stringe nella mano destra, nero a pois bianchi con dei vistosi volant ai bordi.

In quel mentre un’auto a velocità sostenuta lo sfiora appena e subito l’uomo perde il controllo della bici cadendo a terra; l’ombrello rotola lontano.

Mi alzo in fretta e corro verso di lui chiamando l’ambulanza col cellulare.

Guardando il sangue mi inginocchio vicino all’uomo:

«Signore stia tranquillo, i soccorsi arriveranno presto.»

L’ uomo, che si stava guardando attorno, si volta verso di me:

«L’ombrello, dov’è il mio ombrello? Giovane portami il mio ombrello, ti prego.»

Il mio sguardo indugia sul suo volto e nei suoi occhi scuri che hanno un aspetto terribilmente famigliare. Il suono dell’ambulanza mi risveglia dal mio stupore. In un attimo i volontari del 118 si occupano dell’infortunato ed io recupero lo strano ombrello.

Frastornato e confuso guardo il vecchio che da dentro l’ambulanza mi getta un ultimo sguardo carico di gratitudine.

Sentivo che quel signore desiderava riavere con tutte le sue forze l’ombrello ormai danneggiato che tenevo nelle mie mani.

Mi precipito da una volontaria per farmi dire in che ospedale porteranno l’uomo, col proposito di riportargli il tanto amato oggetto.

Fortunatamente l’ospedale è molto vicino e mi avvio a piedi mentre cerco di risistemare l’ombrello chiudendolo un po’ a fatica dopo aver raddrizzato le stecche.

Durante il tragitto rigiro tra le mani l’ombrello e noto un fogliettino incollato al manico con scritto: “Ti amo. Tatiana”. Mi scappa un piccolo sorriso per la coincidenza; Tatiana come la ragazza di cui sono innamorato da una vita. Conosciuta alle medie, compagna di banco al liceo, inseparabile amica con cui ho passato interminabili pomeriggi di studio in biblioteca e quasi ogni fine settimana tra passeggiate, cinema, teatro, mostre d’arte e di fotografia, musei etnici. Con lei condivido ogni mia passione, ogni mio hobby, il piacere per le passeggiate e la natura, sogni e desideri, ma non ho mai avuto il coraggio di dichiararmi a lei.

So per certo che i miei genitori non la accetterebbero mai: di famiglia poco abbiente, papà operaio, madre casalinga e due fratellini, per di più di origine ucraina.

Troppo diversa da me secondo loro: genitori medici, figlio unico e benestante.

Sapevano che ci frequentavamo e come compagna di studio era ben vista perché ottima studentessa, ma se fosse divenuta qualcosa di più i miei avrebbero scatenato il putiferio.

Aspetto risoluto con pazienza fuori dal pronto soccorso per ore prima di poter entrare. L’uomo, solo in una stanza, sembrava mi stesse aspettando e non appena mi vede si illumina in volto dicendo:

«Avevo visto subito che sei un bravo giovanotto; grazie per avermi riportato l’ombrello, mi è molto caro.»

«Di niente signore. Come si sente?»

«Mah, come un povero vecchio a cui hanno spezzato il perone e che avrà qualche cicatrice in più. Ma dammi del tu giovanotto. Come ti chiami?»

«Il mio nome è Alessio, il tuo?»

«Chiamami Tiger… tutti mi chiamano così da un po’… anche mia moglie» dice ammiccante «tanto che non mi ricordo più il mio vero nome.»

Sorrido alla sua battuta sorpreso dal suo buonumore nonostante l’accaduto.

«Posso fare qualcosa per te? Resti ricoverato o ti mandano a casa?»

«Giovanotto, qui c’è penuria di letti e io sinceramente non ci tengo a rimanerci troppo.»

«Quindi sei riuscito a contattare la tua famiglia per farti portare a casa?»

«È questo il problema… mia moglie è all’estero a trovare dei parenti. Sono riuscito ad avvertirla e tornerà il prima possibile, ma ovviamente stasera non mi può portare a casa.»

«Tranquillo Tiger, ti porto a casa io» mi esce di getto senza rifletterci.

«Davvero un giovanotto d’oro… se non ti è di troppo disturbo mi faresti un gran piacere… non ho fratelli né figli e non saprei come fare.»

Gli rendo il suo ombrello e torno a casa per prendere l’auto.

Mentre sono in bus per tornare a casa, piano piano la spavalderia e la sicurezza con le quali Tiger mi aveva contagiato, vengono meno e comincio a lasciarmi pervadere da uno stato d’ansia ben noto, che si ripresenta ogni volta che devo comunicare ai miei genitori una mia decisione o una mia iniziativa.

Entrato in casa la situazione è ancora peggiore di quella che mi ero prospettato.

«Dove diavolo sei stato fino a quest’ora? Dovevi tornare a pranzo mi pare» dice mia madre con gli occhi sgranati.

«Scusa mamma… un signore è stato investito e io ho chiamato i soccorsi e.…» tentenno.

«E cosa?»

«Aveva perduto l’ombrello e io…»

«Per correre dietro ad uno stupido ombrello tu non torni a casa a pranzo?» rincara mio padre che poi aggiunge scuotendo la mano «Lasciando perdere tali futilità… com’è andato l’esame?»

«Bene, ho preso trenta!»

«Bene dici» ribatte mio padre con espressione sarcastica «hai studiato giorni e giorni e non sei stato neanche capace di prende la lode?»

«Mi dispiace papà…»

Interviene a questo punto mia madre chiedendomi se avessi pranzato.

«No, magari mangio un frutto adesso perché devo uscire… di nuovo.»

«E dove dovresti andare di grazia invece di studiare?» continua con sarcasmo mio padre.

«Ho promesso a quel signore… di portarlo a casa perché non ha famigliari che possano accompagnarlo…».

«Tu oggi hai proprio perduto il senno… perché ti saresti preso un tale impegno?»

Mamma intanto accenna una risatina isterica che suona tanto come una presa in giro.

«Mi dispiace… non sapevo che altro fare… provavo pena per quel povero signore…»

«Va bene cuoricino tenero… ormai hai preso un impegno e non puoi tirarti indietro, ma la prossima volta pensaci bene invece di sprecare il tuo tempo prezioso a fare il buon samaritano» conclude il discorso mio padre.

Agguanto una mela ed esco per evitare quella sensazione di soffocamento che mi serra la gola ogni volta che mi trovo a discutere coi miei genitori.

Mi accorgo di avere il serbatoio in riserva e mi fermo alla prima pompa di benzina. Penso a quanti soldi ho nel portafoglio e allo stesso tempo formulo questo pensiero: anche i miei genitori sanno che ho 30 euro nel portafoglio.

Ho sempre dovuto giustificare a loro ogni mia spesa e in qualche modo ottenere la loro approvazione. Anche i soldi che mi guadagnavo con le ripetizioni dovevo spenderli a modo loro. Quanti rimproveri ho subìto quando qualche volta ho offerto il gelato a Tatiana, le poche volte che lei me lo ha permesso.

Tatiana mi manca molto, ora abbiamo meno occasioni di vederci facendo facoltà diverse: io medicina e lei lingue. Farà degli stage all’estero e io ho tanta paura di perderla. La cosa che mi manca di più è condividere con lei ogni piccola esperienza quotidiana, ogni emozione come raccontarle di aver conosciuto Tiger, che è un uomo tanto simpatico, interessante e carismatico, che credo abbia molte cose da raccontare.

Tiger era già pronto, seduto nella sedia a rotelle e così in pochi minuti ci ritroviamo in auto diretti fuori città.

La sua casa è in periferia in mezzo al verde, piuttosto grande, disposta su due piani e chiaramente ristrutturata di recente, ben tenuta e di un tenue color salmone.

Lo aiuto ad entrare e lui mi dice con un ampio gesto del braccio: «Benvenuto nella tana della tigre figliolo».

Mi guardo attorno e provo una sensazione piacevole: la casa è molto accogliente. Lo stile rustico con cui è stata arredata mi piace moltissimo, i tocchi moderni lasciano chiaramente intuire che i suoi abitanti sono al passo coi tempi e non posso non apprezzare i parecchi suppellettili etnici che arricchiscono l’entrata: maschere africane, quadri cinesi, arco e frecce dell’Amazzonia, legni intagliati, collage polacchi e tantissimi altri oggetti curiosi.

Sono piacevolmente stupito e d’istinto dico:

«Wow… tutti questi oggetti dove li hai presi?»

«Eh, figliolo facevo il fotoreporter e ognuno di questi oggetti rappresenta qualcosa per me. Ho viaggiato molto, ho girato il mondo in lungo e in largo… potrei stare ore a raccontarti aneddoti.»

«Mi piacciono molto le mostre fotografiche e ho l’hobby della fotografia. Mi sarebbe tanto piaciuto farlo diventare un lavoro. Una volta volevo iscrivermi ad un corso di fotografia, ma i miei genitori non me l’hanno permesso…»

«Come mi sarebbe piaciuto? Quanti anni hai scusa? Non di certo ottanta come me… hai tutto il tempo per fare ciò che vuoi nella tua vita!»

«Ho diciannove anni… ma non è così facile andare contro i miei genitori.»

Il suono del cellulare di Tiger ci interrompe.

«Ciao cara, sono appena arrivato a casa. Tutto bene. Quando riesci a tornare?»

Mi allontano un poco approfittando per ammirare quegli strani oggetti e immaginare quanto deve essere stata emozionante e avventurosa la vita di Tiger. Quanto mi piacerebbe vedere il mondo, conoscere persone e nuove usanze, nuove culture ed immortalarle con la mia macchina fotografica, ma io sono destinato a diventare dottore, non ho altra scelta.

La voce affranta di Tiger mi distoglie dai miei pensieri: «Mia moglie non riesce a rientrare per qualche giorno per via del maltempo che ha bloccato tutti i voli…»

«Non puoi stare solo per così tanto tempo… c’è qualcuno che può occuparsi di te?»

«Purtroppo no figliolo, ma me la caverò; stai tranquillo.»

«Come fai ad organizzarti per la cena? Ti serve una mano?»

«No, grazie. Ho già qualcosa di pronto in frigo, poi hai già fatto anche troppo per me.»

«Allora ti lascio. Buona guarigione.»

«Grazie ragazzo. Abbi cura di te.»

Ceno in un’atmosfera pesante e oppressiva, cerco di mangiare abbastanza in fretta, ma non troppo per non destare sospetti e poter fuggire tranquillo.

Arrivato in camera mi sdraio sul letto e prendo il cellulare, osservo lo schermo illuminarsi e sorrido: la foto che tengo sul desktop l’ho scattata un anno fa in gita scolastica a Parigi. Io e Tatiana vicini sotto la torre Eiffel, quel giorno pensavo sarei riuscito a dichiararle il mio amore e così mi sarei sentito invincibile, in grado di dominare il mondo intero, ma le solite paure mi hanno fermato come sempre.

Mi sento così solo, triste e Tatiana è l’unica che saprebbe consolarmi in un momento come questo, allora mi faccio coraggio e decido di chiamarla.

Un solo squillo:

«Ciao Ale!» risponde lei entusiasta «Come stai? Quant’è che non ci vediamo!»

«Troppo, mi manchi un sacco» rispondo mesto.

«Anche tu mi manchi tanto. Mi sembri giù però, è successo qualcosa?»

«Stamattina ho preso trenta ad un esame, ma come al solito ai miei non è bastato, volevano almeno la lode.

Poi ho assistito all’investimento di un signore anziano e l’ho aiutato a chiamare i soccorsi; l’ho anche accompagnato a casa dopo che l’hanno dimesso. I miei si sono arrabbiati…»

«Mi dispiace tanto, ma lo sai io i tuoi non li capisco. Meriti solo dei complimenti sia per il voto che per aver soccorso quel signore. Tu sei un ragazzo d’oro sotto tutti i punti di vista: generoso, altruista, dolce. Sei fantastico così come sei!»

«Grazie, sei l’unica persona che riesce a consolarmi.

Sai, ho scambiato qualche parola con quel signore e sono stato a casa sua. È una persona interessante che ha viaggiato molto; infatti, casa sua è zeppa di oggetti e suppellettili etnici. Mi sono trovato bene a parlare con lui: simpatico, sa metterti a tuo agio anche se a volte è un po’ brusco.»

«Mi fa molto piacere che hai conosciuto quest’uomo che sembra davvero interessante.

A proposito di etnico, ho sentito che sabato c’è una mostra sull’arte dei nativi americani. Vorrei tanto andarci, mi ci accompagni?»

«Lo sai che ti ci accompagnerei volentieri, ma i miei mi faranno un sacco di storie, perché i weekend devo passarli a studiare.»

«Uffa, ma dobbiamo vederci tre volte l’anno, durante le vacanze, di nascosto? Si riduce a questo la nostra amicizia per te?»

«Ma… io… sai come sono i miei… io non posso… Tatiana mi dispiace, ma io…»

In quel momento la porta della mia camera si apre bruscamente e fa capolino mio padre dicendo:

«È così che studi? Hai già perso tutta la giornata!»

Io molto agitato dopo un brevissimo saluto a Tatiana interrompo la comunicazione.

«Visto che ti piace tanto perdere tempo prezioso al cellulare; me lo dai e lo riavrai solo domani mattina così forse studi almeno un po’ non distratto dalle solite tue stupidaggini.»

Rassegnato gli consegno il telefonino e apro un libro fingendo di cominciare a studiare finché mio padre non se ne va.

La giornata non poteva finire peggio di così; lei era riuscita a rasserenarmi un poco e io ho rovinato tutto rischiando di perderla; Tatiana ha ragione, la nostra amicizia merita più di qualche briciola di tempo e la responsabilità di tutto ciò è solo mia.

Poi in un turbinio di pensieri mi viene in mente che Tiger è a casa da solo e io non gli ho neanche lasciato il mio numero di telefono nel caso avesse bisogno.

Presa la decisione di andare da lui la mattina seguente anche per chiedergli un consiglio per recuperare la mia amicizia con Tatiana, mi corico cercando di riposare un poco.

Il suono della sveglia mi desta dal mio sonno agitato e così scendo per la colazione.

Appena entro in cucina mio padre, che stava bevendo il suo solito caffè nero, dice: «Buongiorno signorino, spero che lei abbia in programma un’intensa giornata di studio e non di bighellonare in giro tutto il giorno».

«Sì, sì oggi ho in programma di studiare tutto il giorno in biblioteca con Flavio perché prepariamo il prossimo esame assieme. Posso riavere il mio cellulare per favore?»

«Visto che pare tu abbia recuperato il senno, prendilo pure» dice porgendomelo.

Prendo lo zaino ed esco di casa diretto alla solita fermata del bus, ma non scendo in biblioteca poiché ho deciso di andare da Tiger.

Suono alla porta e dopo qualche minuto lui viene ad aprirmi dicendo:

«Bentornato ragazzo, vieni, entra, abbiamo tante cose di cui parlare».

Entro in casa godendomi la sensazione piacevole che essa sa trasmettermi mentre gli chiedo cosa intendesse dire.

«Vieni con me» mi dice spingendosi con decisione sulla sedia a rotelle, imboccando un corridoio e sparendo in una stanza.

Lo seguo e lo trovo con una cosa in mano:

«Tieni figliolo, questa è stata la mia prima macchina fotografica. Oggi è una bella giornata. Fammi vedere cosa sai fare» riprende a spingersi sulla sedia a rotelle. «Andiamo!»

Lo seguo un po’ basito con la macchina fotografica in mano e noto che è identica alla mia. Appena fuori dal cancello inizia una pista ciclabile che imbocchiamo.

Lui davanti e io dietro ci inoltriamo in un boschetto di betulle fino ad arrivare ad un grazioso piccolo stagno attraversato da un ponticello di legno.

Lui sussurra con reverenza:

«Sembra un normalissimo laghetto, ma questo è stato per me un posto importante. Qui brulica di piccola meravigliosa vita che un occhio attento sa catturare, immortalandola per sempre e rendendola unica e indimenticabile. Con una macchina normale, in un posto normale solo il vero artista viene fuori» spingendosi indietro con la sedia a rotelle conclude. «Avanti ragazzo, tocca a te!»

Io sono impacciato, immobile, quasi paralizzato dalla paura di non essere all’altezza delle sue aspettative.

Per quasi dieci minuti rimango imbambolato con la macchina fotografica tra le mani finché lui interviene dicendo: «Chiudi gli occhi, ascolta il rumore dell’acqua, il canto degli uccelli, senti i profumi dell’aria e delle piante.

I tuoi nuovi occhi ora sono la macchina fotografica che è diventata parte di te, del tuo corpo e della tua anima. Cattura la meraviglia della vita.»

Quasi per magia mi sento parte di tutto ciò che mi circonda, finalmente inizio a scattare, noto particolari che prima non avrei mai visto, riesco a trovare il momento giusto per ogni scatto, sento l’essenza e la forza di ciò che ritraggo: di un uccello colgo la libertà e la leggerezza del suo volo, colgo la velocità nel guizzo di un pesce e la purezza nello scorrere dell’acqua.

Rientrati in casa cominciamo in modo naturale a parlare e scherzare come due vecchi amici. Lui mi racconta dei suoi viaggi: aneddoti a volte carichi di tensione e paura altri divertenti e a tratti comici. Rimango colpito che la moglie lo avesse sempre seguito nei suoi viaggi, come interprete, ma soprattutto a causa della loro forte unione. Mi accorgo che questo sarebbe il mio sogno: fare un lavoro avventuroso e allo stesso tempo condividere ogni momento della giornata con la donna che amo.

La telefonata di ieri sera mi ha lasciato una sensazione di malessere e malinconia, quindi chiedo a Tiger un consiglio:

«Ieri sera ho discusso con un’amica, ma non siamo riusciti a chiarirci perché mio padre ci ha interrotti. Che messaggio le dovrei scrivere secondo te?»

Tiger scatta:

«Messaggio? Mandare un messaggio in queste circostanze è da mezzi pifferi. Chiamala!»

Io, che speravo di risolvere il problema demandando a Tiger la soluzione, resto sorpreso e un po’ deluso.

Tiger rincara la dose:

«Un vero uomo risolve le cose in questo modo: da solo e a voce. La chiami o no?»

Io balbettando prendo tempo:

«Sì, sì… la chiamo stasera perché ora sarà a lezione…»

«Va bene, ma fallo davvero mi raccomando.»

Poi, aggiunge spingendo la sedia a rotelle verso il frigo «Che ci cuciniamo di buono per pranzo?»

Dopo pranzo ci spostiamo nello studio a guardare le circa cento foto che ho scattato al laghetto. Tiger mi fa i complimenti per cinque di esse che trova molto interessanti, ma io vedo questo risultato come un fallimento e mi rattristo in volto.

«Ragazzo, secondo me tu hai talento… ma cos’è quella faccia?»

«Cinque su cento… è un fallimento!»

«In quale occhio vuoi che ti sputi? Non è assolutamente un fallimento. Ne avessi fatta anche solo una interessante su mille sarebbe stato comunque un successo. Se credi di ottenere sempre il massimo in ogni cosa che fai, hai già perso in partenza. L’importante è che tu in ogni cosa che fai dia sempre il meglio di te stesso.»

Il resto del pomeriggio prosegue pieno di consigli anche tecnici su come scattare delle foto di valore.

Verso sera sono obbligato a rientrare a casa e ci salutiamo con la promessa di rivederci il giorno successivo.

In auto decido di chiamare Tatiana.  Mi risponde senza il solito entusiasmo, solamente con un “ciao”.

«Ciao Tatiana, volevo scusarmi per ieri sera e farti capire quanto tengo davvero alla nostra amicizia. Per me tu sei davvero importante… però cerca di capirmi, non posso andare contro i miei genitori.»

«Non metto in dubbio la tua amicizia, ma sono preoccupata per te. Ho paura che se vivi in questo modo non sarai mai felice.»

«Infatti non sono felice, ma… io non so perché… forse… non so.»

«Spero tu lo capisca presto, almeno per iniziare ad impostare la tua vita come vorresti. Quindi sabato non puoi accompagnarmi alla mostra?».

«Scusami Tatiana, ma proprio non ce la faccio… non riesco».

«Va bene, non fa niente ci vado da sola».

Arrivato a casa ho ancora l’amaro in bocca; a cena sbocconcello qualcosina prima di andare in camera a fingere di studiare. In realtà passo la serata a rigirarmi la macchina fotografica fra le mani e a concedermi di fantasticare sulla possibilità di vivere una vita avventurosa in giro per il mondo con Tatiana sempre al mio fianco.

Il mattino seguente lo dedico davvero allo studio raggiungendo Flavio in biblioteca poiché il mio prossimo esame è abbastanza imminente.

La mattinata mi passa veloce grazie alla presenza del mio amico che mi permette di concentrarmi davvero.

Dopo aver consumato un panino al bar vado da Tiger.

Mi accoglie benevolo e mi invita a bere un tè che ha acquistato lui stesso a Ceylon.

Io apro la conversazione dicendo:

«Sono contento di essere riuscito a venire da te, anche se i miei pensano che sia rimasto in biblioteca a studiare.»

«Mi stai dicendo che per venire da me menti alla tua famiglia?»

Candidamente rispondo di sì; al che lui trasalisce e sbotta:

«Questo mi offende, se venissi qui a drogarti o andassimo a rubare insieme potrei capire, ma siccome qui non fai nulla di male credo tu non abbia nulla da nascondere.»

«Ma… non posso dirlo ai miei… per poter fare ciò che mi fa piacere io devo mentire… lo faccio solo quando qualcosa mi sta molto a cuore.»

Tiger sembra calmarsi e continua:

«Giovanotto, mi fa piacere sentirtelo dire, ma sappi che le menzogne non sono mai la soluzione. La vita va affrontata con coraggio, prendendosi le proprie responsabilità. Stai vendendo della pregiata seta come fosse un lurido straccio.»

«Per te è facile, non sei nella mia stessa situazione, anche la mia amica dice quello che dici tu, però…»

«Quindi hai discusso con la tua amica perché devi mentire per vederla?» mi dice canzonatorio.

Io mestamente annuisco; quindi, Tiger continua guardando sopra la mia testa con insistenza:

«Dove sono i fili? Sei un burattino che si fa governare. Taglia i fili una volta per tutte. Riprenditi la tua vita e vivila davvero.»

«Io non sono una tigre come te… A proposito, perché ti chiamano Tiger?» 

«Ora non la sei, ma la puoi diventare, tutti possono diventare delle tigri. Anch’io non sono nato tigre, ma lo sono diventato. Mi chiamano Tiger perché la mia prima foto pubblicata ritraeva una tigre di notte con gli occhi che rilucevano nel buio. Nell’articolo avevo abbinato alla foto la poesia di William Blake intitolata appunto “The Tiger”.»

«Io non sono d’accordo: non tutti diventano tigri, io sono e resterò un agnello come nell’altra poesia di Blake intitolata “The Lamb”» ribatto io.

«Per Blake l’agnello rappresenta l’infanzia, qualcuno privo di maturità, che però una volta fatte e acquisite le opportune esperienze diventa tigre.»

«Io non sarò mai tigre!»

«Perché non vuoi. Sembra quasi ti piaccia vivere da burattino beandoti nella tua infantile vita piena di bugie.»

Tiger ha ragione, lo so benissimo, per questo mi sento punto sul vivo e siccome lo ammiro molto, la sua frase fa ancora più male.

«Adesso basta, non ne posso più, mi hai umiliato abbastanza. Me ne vado, arrangiati.»

Mentre sbatto la porta lo sento urlare:

«Così mi piaci figliolo. Anche tu puoi essere tigre!»

Sono ancora in autobus scosso dagli ultimi avvenimenti quando comincia a piovere.

In vista del portone di casa noto una ragazza con l’ombrello che pare aspettarmi.

Avvicinandomi vedo che è Tatiana.

«Tatiana, che ci fai qui?» esclamo sorpreso riparandomi sotto il suo ombrello, che lei mi porge.

I nostri occhi si incontrano e notando che i suoi sono lucidi mi sento dire:

«Non posso aspettarti per sempre.»

A quel punto lei indietreggia, mi lancia un ultimo sguardo prima di votarsi e correre via.

Io resto imbambolato col suo ombrello in mano senza riuscire a dire nulla. Ormai Tatiana è lontana quando sento che nell’impugnatura dell’ombrello c’è un piccolo   bigliettino attaccato col nastro adesivo con scritto “Ti amo. Tatiana”.

A quel punto guardo l’ombrello e noto sgomento che è nero, a pois bianchi coi volant.

Come lampi nella mente ricordo la sensazione di famigliarità quando ho visto per la prima volta gli occhi di Tiger, la sua macchina fotografica identica alla mia, la casa arredata esattamente come l’arrederei io stesso e Tatiana è lo stesso nome della moglie di Tiger. Ora l’ombrello identico con l’identica dedica.

Mi gira la testa e mentre sussurro che non è possibile tutto questo, perdo i sensi.

Mi risveglio il mattino seguente in un letto d’ospedale coi miei genitori vicini che parlano con altri medici di stress, eccessivo carico emotivo e stati d’ansia.

Quando si accorgono che ho ripreso i sensi noto nei loro occhi uno sguardo diverso dal solito, più dolce e amorevole.

Mia madre si avvicina dicendo:

«Come stai amore?»

Non mi chiamava così da tantissimo tempo e questo mi scalda il cuore.

Nel giro di qualche ora mi dimettono ed in macchina coi miei genitori il clima è molto sereno mentre ci avviciniamo a casa. Nel tono di voce di mio padre non c’è più traccia di autorità e sarcasmo quando dice:

«A causa mia non so chi sei. Mi sono sempre limitato a controllare che studiassi senza dare mai importanza ai tuoi interessi extrascolastici. Ti ho anche pressato eccessivamente. Ti chiedo scusa.»

Mi sento libero, era tanto che aspettavo di sentire queste parole. In questo momento mi sento padrone del mondo ed in grado di poter fare qualunque cosa, ma la prima che mi viene in mente è tornare da Tiger.

Dopo aver pranzato e riposato un poco prendo la macchina e vado a casa sua.

Arrivato sul luogo trovo un rudere semi diroccato, evidentemente abbandonato da anni.

Sorrido e spinto da un nuovo entusiasmo ricordo che è sabato e Tatiana non deve andare alla mostra da sola.

Salto in macchina e in un battibaleno sono sotto casa sua, posteggio e le scrivo questo messaggio:

“Non mi dovrai aspettare per sempre. Ti amo anch’io. Scendi e te lo dimostro”.

In un attimo la vedo uscire dal portone e le corro incontro abbracciandola mentre lei mi dice:

«Finalmente ti sei deciso amore mio!»

«Chiamami Tiger!»

L’OMBRELLO A POIS è un racconto di Lucio De La Balca e Jelissa Carola Piques


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