STORIE…di Gabriella Milella

Era un tardo pomeriggio in cui la noia e la stanchezza si contendevano il tempo rimanente della giornata.

Non aveva lavorato molto, ma si sentiva stanca, sebbene si trattasse soprattutto di pigrizia mentale. Era lì in piedi indecisa sul da farsi: se prendere in mano un libro da leggere o il telecomando della TV, se andare in qualche altra stanza a fare non si sa cosa o sedersi sulla poltrona. Alla fine, si stese sul letto senza addormentarsi quando qualcosa accadde…

Si guardavano come due sconosciute, ma in fondo in fondo si stavano già riconoscendo finché una delle due disse:

«Ci siamo già viste da qualche parte?»

«Credo di sì» rispose l’altra titubante non tanto perché insicura di ciò che diceva, ma perché un po’ imbarazzata dalla situazione.

«Sì, sì mi ricordo bene ora» disse la prima. «Molti anni fa, era di pomeriggio piuttosto presto, ci trovavamo in quella scuola, la scuola media, ti ricordi? Non si sa bene cosa ci facessimo lì, ripassavamo con un insegnante che veniva solo di pomeriggio, c’era il sole…»

«Perché? Successe qualcosa di particolare? Non ricordo» la interruppe l’altra.

«Quest’insegnante voleva dare dei consigli sulla scelta della scuola superiore, ora ricordi?»

«Già, più che consigli erano indicazioni ben precise, ricordo la sua convinzione: la migliore scuola è il liceo scientifico e tutte le altre facevano schifo secondo lei, era una visione totalmente opposta ai “consigli” che mi giungevano da un’altra insegnante che da tre anni mi considerava molto intelligente ed io ne ero molto gratificata. Quest’ultima mi diceva di fare il classico sostenendo che le altre scuole non erano “all’altezza” della mia intelligenza. Sebbene avesse questa opinione così elevata di me, dopo non l’ho mai più rivista, non ho nemmeno fatto nulla per rivederla, a volte capita che le persone che più ci stimano non sono quelle che ci piacciono!»

«Considera, però, che le conferme sulle nostre caratteristiche positive ci portano ad avere più fiducia nel nostro futuro, a progettare anche più liberamente, non è forse stato così per te?»

«Non proprio, o meglio allora credevo di decidere liberamente sul mio futuro e, per di più, con una buona dose di autostima. Quest’ultima probabilmente ci sarà pure stata, ma che fossi in grado di decidere liberamente è molto improbabile, per una questione di età, sicuramente, ma non solo …»

«È facile non voler vedere la verità, dipende molto dal livello di pigrizia. Non è che voglio offenderti ma, sai, spesso è capitato anche a me di farmi un po’ trascinare dalle circostanze per evitare di pensare, di analizzare la mia coscienza e, di conseguenza, non prendere una decisione autonoma. Scegliere procura angoscia. Non sono certo la prima a dirlo, e l’incertezza per il futuro è sempre molto elevata a tutte le età. Se decide qualcun altro al posto tuo c’è sempre un doppio vantaggio: il primo è quello di non sforzarsi; il secondo è di avere subito la persona a cui dare la colpa se le cose si mettono male.»

«Quindi tu la scelta della scuola superiore l’hai fatta autonomamente? Visto che per me è stata una decisione molto manipolata, non solo da quell’insegnante che mi sopravvalutava, ma anche dai familiari che davano per scontato che il classico era il mio destino immediato. Mamma, a suo tempo per circostanze familiari, non aveva potuto sceglierlo come avrebbe voluto. Papà diceva di essere favorevole allo scientifico solo finché io non mostrai un, seppur minimo, interessamento per questa scuola. Ecco come è avvenuta la scelta che ha determinato parte dei miei problemi successivi, che mi pesano oggi tanto che sono arrivata a desiderare un altro passato, invece di volgermi verso un altro futuro come sarebbe più logico. Volevo sapere, però, a te come è andata, visto che entrambe abbiamo raggiunto e superato quello che Dante chiama: il mezzo del cammin di nostra vita, e forse mi sento un po’ in dovere di fare bilanci.»

«Beh, fino ad un certo punto, non te lo racconto perché penso mi sia andata esattamente come è andata a te. Sinceramente non so se bene o male, è difficile dirlo oggi. Forse c’è bisogno di altro tempo. Sicuramente, però, non è che ho scelto guidata dal mio pensiero. Forse è meglio che te lo dica, così te ne renderai conto dal mio racconto.

La prima iscrizione alla scuola superiore, durante la terza media, era stata fatta al liceo classico per gli stessi motivi da te indicati. Sennonché, un pomeriggio di agosto, pochi giorni prima di partire per il mare, mentre mi trovavo al campo di atletica per il consueto allenamento, caddi e presi una distorsione alla caviglia. Dovetti ingessare la gamba e addio mare! Io veramente non volevo ingessarmi proprio perché volevo partire per le vacanze, quindi mi arrabbiai moltissimo con i miei genitori, sai ero una ragazzina molto capricciosa! Certo era stata la casualità che mi aveva fatto cadere, ma io ero convinta che avrei potuto non ingessarmi, il piede non mi faceva poi tanto male. Avevo pur sempre 14 anni! In tale stato d’ira non rivolgevo più la parola a nessuno ed una mattina, quando ero sola in casa, squillò il telefono, risposi ed era per mamma o papà, ma riguardava me. Era infatti la segreteria della scuola media che voleva avvertire che c’era stato un errore nella mia iscrizione. Questa era stata indirizzata allo scientifico invece che al classico. Uno dei miei genitori doveva recarsi la mattina dopo a scuola per correggere l’errore, anche se a sbagliare era stata la scuola; se non si fossero presentati i miei genitori io sarei risultata iscritta allo scientifico. Non dissi a nessuno di questa telefonata perché pensavo che così si sarebbero stravolti tutti i progetti come si era stravolto il mio progetto di andare al mare. Questo avrebbe generato confusione, che io trovavo in linea con la mia arrabbiatura. In sintesi, pensai che potesse essere un’occasione per…»

«Non dirmi che è così che sei finita allo scientifico! Per essere caduta, per delle coincidenze, soltanto, e per il tuo essere dispettosa come dice spesso mamma?» la interruppe l’altra esterrefatta.

«Aspetta! Fammi finire! Le coincidenze sono state determinanti, ma no, non bastano. Per me era un’occasione di vendetta. Dopo alcuni giorni, la scuola ritelefonò per sapere come mai nessuno si era recato a rettificare. Questa volta fu mamma a rispondere al telefono. Si arrabbiò talmente tanto che io ritenni necessario dover giustificare in maniera più razionale possibile l’accaduto. Dissi, infatti, che io ero tornata sui miei passi.  Volevo, quindi, iscrivermi allo scientifico perché preferivo la matematica all’italiano e altre motivazioni simili che ora nemmeno ricordo. Non fui presa in considerazione per niente. Questo mi mandò in bestia e mi portò ad insistere, prima con motivazioni razionali, poi decisi di passare allo sciopero della fame e all’isolamento; e mi chiusi barricata in camera mia.»

«Caspita! che coraggio! A soli 14 anni! Io a quell’età non ho fatto niente del genere, a parte le numerose arrabbiature di cui tutta la mia vita è piena.»

«Non parlare troppo presto, non era difficile fare quello che facevo, l’avevo visto fare a mio fratello alcuni anni prima. Era infatti stata la sua forma di protesta quando non volevano comprargli il motorino. Lui protestava per questo, io perché non mi facevano andare al mare. Dopo quella telefonata, però, c’era anche una posta in gioco “molto più elevata”: la scuola superiore che avrei dovuto frequentare! Era una motivazione di copertura come hai ben capito! Passavano i giorni e la mia rivolta non si placava. Se oggi devo essere sincera, non ce la facevo più a protestare. Sono fondamentalmente una pigra, le mie arrabbiature sono molto acute e plateali, ma, in genere, non ce la faccio a reggerle a lungo. Stavo per cedere quando mi fecero sapere che, pur non condividendo affatto la mia “scelta” avrei potuto iscrivermi allo scientifico. In fondo, mi fu spiegato, se mi fossi trovata male sarebbero stati affari miei: “almeno non te la prenderai con noi!” mi veniva spesso ripetuto. Mannaggia!! Era proprio vero, ora dovevo fare qualcosa che gli altri non volevano. Ebbi un attimo di paura. Fu solo un attimo, ma fu molto intenso tanto che mi bloccai e, proprio per questo momento d’impasse, non riuscì a tirarmi indietro. Avrei potuto confessare che in effetti avevo fatto tutto per ripicca e che avrei fatto il classico come già deciso qualche tempo prima, ma questa volta fu la vigliaccheria a impedirmi di parlare.»

L’altra intervenne.

«Davvero le cose sono andate così? Quindi se tu quel giorno non avessi preso la distorsione e fossi andata al mare come previsto, se la scuola non avesse fatto quell’errore, se tu non fossi stata sola in casa quella mattina, se non fossi stata così arrabbiata e… quindi è tutta una questione di “se”? Inoltre, m’incuriosisce una cosa: per te sarebbe stato meno vigliacco accettare la decisione dei genitori?»

«Come dici tu con i se si può continuare all’infinito, comunque per rispondere alla tua domanda: in quel momento sì, avrei dovuto confessare tutto, mi troverei ad aver frequentato il classico come te, precisamente la scuola che tutti si aspettavano che facessi e può sembrare strano, ma la mia incapacità di replicare, per paura, determinò i successivi cinque anni… Oggi la scelta della scuola superiore non mi sembra qualcosa di fondamentale nella mia vita, forse perché sono passati più di venti anni dagli episodi che ho raccontato, per quale motivo invece tu attribuisci ancora una certa importanza a quella scelta?»

A questa domanda non ci fu alcun tipo di risposta

«Ehi, come mai non rispondi?»

«Se non ti dispiace preferisco raccontare la mia storia quando tu avrai finito la tua, ora invece m’interessa sapere cosa è successo dopo, dato che ora tu non attribuisci importanza alla scelta della scuola superiore.»

«Se ho ben capito, vuoi far parlare prima me e mi vuoi lasciare nel mistero per quanto riguarda te. E va bene, vorrà dire che parlerò io! Parlare di me non mi entusiasma, ma ora con te posso fare un’eccezione. Gli anni passati al liceo scientifico furono molto caotici. Ricordo i pomeriggi interi passati a studiare matematica senza capirci niente o quasi. La rabbia spesso raggiungeva livelli spropositati. A volte qualche compagna di scuola studiava con me, ma mai le più brave, queste sembravano totalmente insensibili all’amicizia, tanto che mi convinsi che la matematica andava bene solo per gente fredda e umanamente insensibile. Gli adolescenti fanno presto a fare collegamenti causali troppo facili e a generalizzare su questi, forse non solo gli adolescenti… Nonostante tutto, riuscì a non farmi rimandare mai in matematica. Le altre materie scientifiche mi piacevano di più ed anche il profitto era buono, ma sinceramente questo settore di studi non mi entusiasmava. Le materie umanistiche le trovavo più adatte a rispondere alle mie domande di tipo esistenziale e soprattutto ai miei conflitti con il mondo.»

 «A quell’età eri già consapevole di che cosa potesse rispondere alle tue domande esistenziali?» la interruppe l’altra.

«Perché ti sembra strano? Quel tipo di domande se le pongono tutti gli adolescenti, perché tu non ricordi di essertele poste? Penso di sì, altrimenti non mi avresti interrotto anche se, in effetti m’interrompi sempre!»

«Non in modo consapevole, o meglio pormele mi procurava disorientamento perché avevo la sensazione di non poter mai trovare una risposta, ciò era deprimente all’epoca. Di me, come ti ho già detto, vorrei parlare dopo, sempre che non ti dispiaccia, e scusami per le interruzioni che in genere controllo bene, ma ora non ci riesco proprio.»

«Però vuoi far parlare prima me!» esclamò l’altra. «A partire dal terzo anno incominciai a trovare interessante la filosofia, non avevo sempre la pazienza necessaria per capirne i meandri logici, ma sembravo abbastanza intuitiva forse perché mi piaceva. Sinceramente non pensavo di continuare gli studi universitari con filosofia, soprattutto perché la studiava mio fratello e tutti avrebbero detto che volevo imitarlo e fare la parte della copiona, non mi andava proprio. Il mio orgoglio e la mia volontà di differenziazione identitaria da lui ne sarebbero stati sconfitti. A quei tempi ero convinta che avrei smesso di studiare dopo gli esami di maturità. Una volta trascorsi questi cinque anni, fu molto duro il solo pensare di dover, di nuovo, scegliere, sapendo come era andata per la scuola superiore! Solo che ormai avevo 19 anni non più 14, non c’erano nemmeno più i genitori che mi potevano imporre qualcosa. Ricordo, però, che vedendomi così incerta, mi davano consigli, o tentavano di darmeli, ma io non accettavo niente, sapevo di non volere interferenze, ma sapevo che anche le mie scelte… beh ora posso dirlo, non avevo mai fatto una vera e propria scelta prima di allora!»

“La scuola superiore l’hai voluta fare tu, se hai qualcosa da lamentarti devi solo prendertela con te stessa!»

«Questo era stato il ritornello durante il quinquennio delle scuole medie superiori e soprattutto al termine di questo periodo. Non sopportavo questa frase da qualunque fonte venisse, perché tornare su quella questione? E poi dovevano essere tutti contenti del fatto che non avevo dato la colpa a nessun altro, ma nessuno mi fu grato per questo. Comunque, questa scelta della facoltà universitaria non la riuscivo proprio a fare. Un giorno prendendo il treno per andare a trovare mio fratello che faceva il servizio militare, il caso volle farmi incontrare una mia coetanea di Roma con due sue amiche tedesche che si trovavano in Italia per imparare l’italiano. Questa ragazza di nome Elena, che poi non ho più rivisto, mi raccontò in breve la storia della sua scelta universitaria. Pur avendo la mia stessa età, aveva iniziato la scuola a cinque anni, perciò aveva fatto gli esami di maturità un anno prima. Del resto, io solo per un caso non sono andata a scuola a cinque anni, mia madre ci avrebbe tenuto molto, ma accaddero degli imprevisti. Elena si mostrò molto comprensiva rispetto alle mie enormi insicurezze a differenza di tutti gli altri che non mi capivano. Mi raccontò quanto le era accaduto un anno prima. Per tutta l’estate Elena non era riuscita a prendere una decisione, allora sua madre una mattina di ottobre, senza avvertirla, si recò all’università e la iscrisse alla facoltà che lei anni prima aveva frequentato. Io rimasi esterrefatta da quanto aveva fatto sua madre e mi prese una specie di terrore che potesse accadere anche a me. Chiesi spiegazioni e mi fu risposto che, a suo tempo, sua madre non era riuscita a laurearsi e nutriva in sé il sogno che la figlia potesse un giorno farcela. Un po’ mi tranquillizzai perché, invece, mia madre, fortunatamente per me, era laureata e svolgeva un lavoro consono alla sua laurea. La laurea era un obiettivo già raggiunto da lei. Però sapevo che non si sarebbe accontentata facilmente nemmeno lei, come la madre di Elena. Aveva delle aspettative su di me, tanto è vero che pochi giorni prima aveva incontrato qualcuno che le aveva chiesto cosa avrei scelto all’università e mamma aveva risposto, con molta naturalezza, che ero decisa a laurearmi nella disciplina in cui si era laureata lei. Invece io non avevo ancora preso nessuna decisione. Se non volevo fare filosofia perché l’aveva fatta mio fratello, figurati se volevo prendere la stessa strada di mia madre! Il desiderio di differenziarmi da mia madre era ancora più forte del rischio di imitare mio fratello! Elena continuò il racconto e mi disse di non essersi recata nemmeno un giorno in quella facoltà, bensì questo episodio sgradevole la spinse a trovare una soluzione completamente diversa. Un mese dopo partì per la Germania per imparare il tedesco e lì conobbe le due ragazze che erano con lei quel giorno. Mi parlò di un’organizzazione che l’aveva sistemata in una famiglia come ragazza alla pari in cui si era trovata bene nonostante, prima di allora, non si era mai occupata di faccende domestiche o di baby-sitting proprio come me. Aveva frequentato dei corsi di lingua molto qualificanti. M’incuriosì questa esperienza e chiesi l’indirizzo di questa organizzazione. A me non interessava la Germania per motivi linguistici, bensì l’Inghilterra. Ne parlai in famiglia dove trovai il dissenso più totale. Mamma e papà dissero che dopo l’università avrei fatto un’esperienza del genere, ma non prima, ero ancora troppo immatura secondo loro. Andai su tutte le furie raccontando quello che aveva fatto la madre di Elena e accusandoli di avere la stessa intenzione. Mamma disse che lei non avrebbe fatto mai una cosa simile e che la firma per l’iscrizione all’università l’avrei potuto mettere solo io. In quel momento c’era ancora bisogno della firma autenticata personalmente, quindi la storia che avevo raccontato era inverosimile. Come aveva fatto la mamma di Elena a falsificare la firma della figlia? Contattai questa organizzazione e decisi di partire, mamma e papà nel frattempo s’informarono, per conto loro, sulla stessa. Partii a metà ottobre e all’inizio andò tutto a gonfie vele. Svanì dunque il sogno dei miei genitori di vedermi tornare prima dell’inizio dell’anno accademico e di vedermi iscritta all’università. A fine gennaio incominciai ad avere dei problemi nella famiglia in cui mi trovavo, ora non mi va di parlarne, resistetti fino alla prima metà di marzo, poi chiesi di cambiare famiglia, non fu facile, me ne trovarono un’altra, ma lì non resistetti neanche una settimana. I nuovi padroni di casa erano insopportabili, qualsiasi cosa facessi, a loro non stava mai bene e poi ero già così tanto demoralizzata da quanto era successo nella precedente famiglia.»

«Ma cosa ti era successo lì?»

«Non mi fa piacere ricordarlo, non lo sa quasi nessuno, a te forse potrei… si te lo dico: mi ero innamorata del figlio più grande di questa famiglia. Lui capì e si fece avanti. … Solo che si tirò indietro anche molto presto. Sai come va, purtroppo. Gli uomini rispettano il loro ruolo di cacciatori o per lo meno quello di non farsi incastrare, come dicono loro. … È vero che lui trascorreva lì solo il sabato e la domenica perché studiava fuori, ma io dovevo sempre rivederlo anche una volta finita la relazione. Per lui era come se non fosse accaduto niente e spesso tornava lì il fine settimana con qualche ragazza. Eravamo sotto lo stesso tetto io, lui e l’altra. Forse allora ero troppo giovane, era la mia prima relazione sentimentale o forse non c’entra l’età, ora sarebbe lo stesso, perché poi non è che con il tempo le cose vadano per forza meglio come tutti ti dicono per consolarti! Sta di fatto che non potevo più vivere lì in quella casa. A fine marzo tornai in Italia. Mamma e papà vennero a prendermi all’aeroporto e io non volevo guardarli in faccia per la vergogna, ma loro in fondo in fondo erano contenti, papà disse:

“forse bisogna fidarsi di più dei consigli dei genitori!”

Io non risposi.

«Vergogna di cosa? Avevi raccontato ai tuoi la storia con questo tizio?» chiese l’altra.

«No, sei matta? Mi avrebbero tempestato di domande, magari si sarebbero anche preoccupati, forse si sarebbero dispiaciuti molto, ma ne avrebbero sicuramente parlato facendo acuire la mia sofferenza. Penso che ai genitori la vita sentimentale vada nascosta per ridurne la sofferenza. E ti dirò, penso che vada nascosta anche alle amiche, anzi soprattutto a loro. Ricordo che mi ero confidata con qualche sedicente amica già quando ero ancora in Inghilterra, la quale mi aveva detto che in effetti quel ragazzo era troppo per me che invece ero visibilmente bruttina e dovevo accontentarmi di qualcuno di livello inferiore, ti rendi conto? Dirmelo così in faccia mentre io soffrivo come un cane. Per la prima volta nella mia vita ho pensato che anche l’ipocrisia possa servire se ben usata, mentre la sincerità può anche uccidere!»

«Poi cosa intendeva per “inferiore”? Perché chi era costui?» disse l’altra interrompendola ancora.

«Torniamo alla storia per intero, questo è un dettaglio, sebbene i dettagli, come vedi, contano molto. La prima settimana dal ritorno dall’Inghilterra mi sembrava così strana, incontravo i miei ex-compagni di scuola che avevano iniziato l’università e stavano studiando per gli esami. I miei s’informarono se c’era modo di iscrivermi per non perdere l’anno, ma questa possibilità era ormai svanita, le iscrizioni, con mora, erano scadute a dicembre. Comunque, non mi si erano affatto schiarite le idee su cosa fare. L’esperienza all’estero mi era servita molto come esperienza di vita dato che prima vivevo ancora come una scolaretta protetta dal guscio familiare, mentre lì ero vissuta diversi mesi cavandomela da sola, anche se poi avevo ceduto alle difficoltà della vita – diciamo così – ma non avevo trovato indicazioni sul mio futuro. Rimaneva il problema: cosa avrei fatto dopo? Pochi giorni dopo arrivò il mio ventesimo compleanno, il più strano che io ricordi. Decisi, però, di dedicarmi alla lettura di libri il più possibile. Casa di mamma e papà ne è sempre stata piena, e ne comprai anche molti altri. Leggevo continuamente, a volte anche di notte, a volte lasciavo perdere i libri che non mi piacevano e ne iniziavo altri e così via fino all’estate. Allora ripresi in mano anche qualche libro di scuola, in effetti forse c’erano degli interessi da coltivare, ma quali? Mi sembrava che ci fosse una sola costante nella mia vita: l’incertezza. Non era una verità facile da accettare, ma un giorno tra le mie letture mi capitò questa frase: L’impossibilità per l’uomo di fare affidamento su sé stesso o di avere una completa fede in sé è il prezzo che gli esseri umani pagano per la libertà[1] All’inizio non la capì, poi incominciai a pensare che forse tutta questa incertezza interiore che mi caratterizzava poteva essere un po’ meno negativa di come l’avevo sempre considerata. Poteva addirittura essere il prezzo per la mia libertà? Non era certo una questione facile, non so quanto la riflessione su questa frase abbia inciso, comunque in ottobre decisi di iscrivermi a filosofia fregandomene del fatto che tutti dicevano che volevo imitare mio fratello. Andò bene, mi laureai in corso con il massimo dei voti. E poi? Si ripresentava ancora una volta il problema: cosa fare dopo? Non era certo una laurea che apriva molte strade! Ad agosto feci domanda per il concorso a cattedre per insegnare nelle scuole superiori. Superai l’esame di abilitazione, ma a più di due anni dalla laurea, ancora non guadagnavo niente e non si vedeva niente sul fronte del lavoro e, a dir la verità, nemmeno su altri fronti. Decisi allora di fare domanda in qualche scuola privata fuori regione. La mia domanda venne accettata dopo molto tempo, in un liceo privato marchigiano dove venivo pagata pochissimo e lavoravo moltissimo, in più ero controllata a vista dalle proprietarie della scuola che erano suore. Alcuni autori non potevano essere spiegati perché non religiosi, mentre altri dovevo affrontarli di fronte ad una di loro che, a volte, non conosceva affatto la filosofia, ma censurava le mie singole parole. Inoltre, mi venne detto che io non potevo leggere alcuni giornali tra cui il Manifesto, dato che una suora mi aveva visto comprare proprio questo quotidiano. Mi fu detto che era peccato, così come era peccato intrattenersi con un collega uomo al bar per più di un quarto d’ora. Una volta mi avevano visto ridere con un altro insegnante che non trovavo nemmeno interessante e mi fu consigliato di confessarmi perché costui era sposato, quando io non andavo più a messa dall’età di diciassette anni, ma anche questo ovviamente andava tenuto nascosto a tutti! Alle elementari avevo frequentato una scuola di suore e ne serbavo un pessimo ricordo, col tempo non avevo mai avuto occasione di cambiare opinione su questa categoria: quando le vedevo mi veniva sempre in mente la nota frase: “chi non può dare cattivi esempi dà buoni consigli”, ma queste che avevo conosciuto ora davano anche cattivi esempi, ed io, avendole come datrici di lavoro, non potevo proprio sopportarle. L’occasione per licenziarmi arrivò quando la madre superiora venne informata del fatto che un’alunna si confidava con me riguardo alla sua vita sentimentale, io rifiutai di riferire il contenuto di queste confidenze e prima che la “badessa” insistesse le comunicai che quello sarebbe stato il mio ultimo giorno di servizio. – A 28 anni si può aspirare a qualcosa di meglio – pensai.

Ancora una volta tornai a casa da mamma e papà sconsolata dopo cinque mesi di “lavoro forzato”. Rimasi altri due anni senza fare quasi niente, a parte qualche ripetizione che non mi fu nemmeno retribuita e caddi in depressione perché, pur essendo pigra, alla fine non riuscivo a starmene con le mani in mano. Non avevo neanche un granché di amicizie dato che purtroppo ho la litigata facile… Poi incominciai alcune supplenze nella scuola pubblica, le cose sembravano andare meglio, finché, dovetti rinunciare a qualche incarico perché mamma si ammalò di tumore ed io dovetti assisterla. Come supplente non potevo chiedere nessun permesso e nessun altro poteva trascorrere le notti in ospedale con mamma, comunque io non volli che chiamassero una persona estranea per questo compito. Fu l’occasione per deprimermi di nuovo, ma almeno mamma guarì.

 Con gli anni sono diventata una supplente annuale, recentemente sono riuscita a prendere l’altra abilitazione che mi mancava, ora vivo ancora molto nell’incertezza del futuro… Non so se diventerò mai di ruolo, vivo da sola, ma il fine settimana vado spesso a casa di mamma e papà, chissà per quanto sarà ancora così? Non posso fare affidamento su niente e soprattutto non posso fare affidamento su me stessa, sarà questo il prezzo della libertà? Non è facile dirlo, ancora mi sento molto giovane, anche se non lo sono più. Nei momenti di maggiore ottimismo penso che debba ancora vivere e cogliere molte opportunità, ma poi chissà se è così? Dentro di me sono ancora un’adolescente, solo con un po’ più di esperienze rispetto a quell’età perché gli anni sono passati. Non so se l’esperienza sia un bene o una male.

Questo è ciò che dovevo raccontarti, ora tocca a te parlare, sono tutta orecchie.»

«Beh, la mia vita è molto meno interessante, forse perché molto più prevedibile, comunque per analogia con te, visto che non sono mai stata capace di essere originale, inizio anche io dalla fine della scuola media, questa volta non ho scelta come te del resto. La scuola superiore è la prima occasione, nella vita, di scegliere, anche se a quell’età nessuno ne sia in grado!

Scelsi il liceo classico perché fui molto incoraggiata dai familiari e da un’insegnante che non vedeva per me niente di meglio, non so se è per questo che non ho mai più voluto rivederla, come prima ti dicevo, ma va beh, non ha più importanza. I primi due anni andarono abbastanza bene, ma gli ultimi tre, non ne riesco neanche ora a parlare, ho avuto una forte crisi adolescenziale, come la chiamavano tutti per dare un nome a quello che mi stava succedendo. Nel mio profitto scolastico, il latino e il greco incominciarono a vacillare all’inizio del terzo anno e, in effetti, non si sono mai “rimessi in piedi” stabilmente anche se non sono mai stata rimandata. Chiesi a mamma e papà di cambiare scuola, di andare all’istituto magistrale, ma non me lo permisero, non presero nemmeno in considerazione l’idea. Finì il quinquennio con una specie di odio per le materie umanistiche. Alla convinzione di essere portata per le materie scientifiche si affiancava, purtroppo, la paura di non avere basi sufficienti per affrontarle. Codardamente la paura vinse. Un episodio può collegarsi alla scelta universitaria. Un giorno, sul treno, incontrai una ragazza laureata in scienze politiche in partenza per il Belgio, dato che aveva vinto una borsa di studio che le avrebbe consentito di accedere alla carriera diplomatica. La ragazza sosteneva che fare un lavoro viaggiando e cambiando sempre dimora era sempre stato il suo sogno che ora, finalmente, si accingeva finalmente a realizzare. Diventò anche il mio, dopo aver parlato con lei. Mi iscrissi quel giorno stesso e lo comunicai in famiglia con grande sorpresa di tutti. I miei genitori non ne furono contenti …»

«Ma tu, ne eri convinta?» la interruppe l’altra «Ti eri informata sulle materie che avresti dovuto studiare? Fu solo questa sconosciuta che incontrasti sul treno che ti convinse?»

«Non so cosa mi convinse, accadde qualcosa di simile anche a te, no? Sulle materie mi informai poco, quel tanto che me le faceva apparire tutte nuove e “abbastanza” interessanti. Forse la spinta maggiore venne data dalla prospettiva di un futuro fatto di viaggi una volta laureata. Dopo tanti anni, però, posso essere sincera e dire che, arrivata ad ottobre, dovevo trovare una soluzione ad un problema che stava diventando insolubile data la scadenza di novembre per l’iscrizione universitaria. Non pensa mai, o non lo pensai mai seriamente, di non iscrivermi all’università. Il fatto che nessuno mi avesse consigliato scienze politiche e che a nessuno piacesse m’illuse che si trattasse di una mia scelta fatta in libertà. Purtroppo, mi resi conto abbastanza presto che le materie non erano tutte così interessanti, erano nuove rispetto a quelle studiate al liceo e questo forse bastò a farmi andare avanti.»

«Come mai non hai mai pensato di cambiare facoltà? Forse ti avrebbero potuto convalidare alcuni esami in una facoltà che ti interessava di più.»

«Già, a trovarla una facoltà che m’interessasse di più! Una volta rinunciato alle facoltà scientifiche, non riuscivo a capire cosa mi piacesse veramente, non posso nemmeno dire che detestassi quello che studiavo, altrimenti sarei stata stimolata a cercare qualcos’altro. Alla fine, mi andava bene quello che facevo, pur sapendo dentro di me che qualcosa non andava, ma cosa non andava? Quel disagio esistenziale che aveva lasciato tracce dall’adolescenza? Anche allora non mi ero resa conto di quanto mi era successo. Comunque, terminai l’università in corso e con il massimo dei voti. Per questo risultato non volli nessun festeggiamento ufficiale, non me ne fregava niente di ricevere regali e complimenti vari. E poi chi avrei dovuto invitare? Le mie amiche erano molto invidiose del fatto che, pur essendo meno motivata di loro a studiare, avevo avuto più successo. D’altro canto, invece, mi innamorai di uno che trovavo eccezionale e molto diverso da me, molto più libero di me, almeno così mi sembrava perché oggi mi viene il dubbio che indossasse questa maschera per me, comunque come premio per aver fatto il sacrificio di prendermi una laurea, con il massimo dei voti, volevo che la vita mi riservasse qualche sorpresa. In precedenza, avevo già vissuto delle cotte non corrisposte che, con il tempo avevo accettato come immaginarie, ora ero in una condizione un po’ diversa, non so perché, forse perché ero ormai adulta e avevo interiorizzato la “paura sociale” di rimanere zitella? Forse. Oggi devo considerare tutte le ipotesi anche quelle meno lusinghiere, sebbene il fatto che non mi sia mai messa alla ricerca di un marito dovrebbe smentire questa ipotesi o forse volevo compensare al fatto che avevo fatto sempre la “brava bambina”, è come se mi aspettassi un premio, ma la vita non contratta, non fa delle compensazioni del genere, altrimenti sarebbe tutto diverso… Con quel tizio successe qualcosa, ma andò male come a te, non accadde quello che volevo io e mi fu chiaro da subito, sebbene abbia tentato in tutti i modi di convincermi del contrario. Mi ero illusa, o forse mi ero illusa di potermi almeno illudere! Pochi mesi dopo la mia laurea, invece della storia sentimentale, che avevo sempre voluto e non avevo avuto, la vita mi aveva riservato un’altra sorpresa: una specie di “aiuto” per vincere un concorso da funzionario ministeriale. Avevo la strada spianata per un lavoro perfettamente in linea con la mia laurea. “L’aiuto” arrivava dall’interno della mia famiglia, quindi non sarebbe nemmeno costato molto se non la soddisfazione, per chi lo forniva, di avermi ben sistemato. Tutti furono contenti tranne me. Provai ad oppormi anche appellandomi alla non troppa moralità di questo aiuto, dato che avevo sempre detestato le raccomandazioni. Alla fine, però, che alternative avevo? Avevo sprecato energie sperando in una svolta nella vita, ma dopo la disavventura sentimentale ora ero depressa anche se nessuno ne sapeva il motivo. Anche io, come te, pensai bene di non raccontare a nessuno del mio innamoramento. Mi sembrava che, per una donna di 23 o 24 anni, mai stata ufficialmente fidanzata, un insuccesso in una storia d’amore è considerato uno smacco sociale non indifferente, nel senso che sarebbe stata l’occasione per una derisione collettiva incrementata dall’invidia per il mio successo negli studi, visto che nessuna delle mie sedicenti amiche si era laureata in corso e alcune avevano persino abbandonato gli studi. D’altro canto, i miei genitori avrebbero anche loro sprecato le loro energie a pensare che la loro “brava bambina” aveva incontrato un mascalzone.»

«Si, capisco bene, anche io ho vissuto una storia simile anche se ero più giovane, ma avresti potuto separare la vita privata da quella lavorativa, non è che se va male un aspetto della vita devono andare male anche tutti gli altri!»

«Si hai ragione, ma io ero svuotata di energie, ero stanca degli studi, delusa dalle “difficoltà della vita” come le hai chiamate tu, non me la sentivo di combattere completamente da sola. Mi rendo conto di essere stata molto debole, non per giustificarmi ma del resto anche tu sei tornata dall’Inghilterra per questo motivo, con il senno di poi… siamo cretine noi donne che vogliamo fare le romantiche, se vogliamo emanciparci rispetto alle generazioni precedenti dobbiamo innanzitutto accettare meglio gli smacchi! Poi c’era un motivo apparentemente molto razionale: il rischio di rimanere senza lavoro. È pur vero che ero consapevole del fatto che non mi sarebbe piaciuto un lavoro in un ufficio, ma quale lavoro mi piaceva? Non lo sapevo. Il commento unanime era: “Sai cosa farebbe qualsiasi altra persona per quel lavoro?” Oppure quelli che non sapevano di questa opportunità che mi era capitata mi dicevano: “Speriamo che trovi presto lavoro, tanto pur di lavorare all’inizio si fa qualsiasi cosa anche se non piace molto.” E io avevo così la puzza sotto il naso per un lavoro perfettamente attinente agli studi universitari fatti? Cosa pretendevo? Accettai “l’aiuto” e presi quel posto di lavoro.

L’assunzione in servizio avvenne tre giorni prima del mio venticinquesimo compleanno. Avevo vinto il concorso sei mesi prima. Nei mesi precedenti avevo cercato un miniappartamento, ma non lo trovai vicino al luogo di lavoro. Guadagnavo bene, quindi riuscivo a pagare l’affitto che non era basso, mi comprai una macchina che però mi venne distrutta in un incidente in cui io mi salvai per miracolo. Mi spaventai molto e incominciai ad andare al lavoro con i mezzi pubblici, ormai avevo troppa paura di guidare. Con i colleghi fu molto pesante all’inizio, non perdevano occasione di additarmi come la “raccomandata”. Altri undici furono assunti con lo stesso mio concorso e non mi sembra che ce ne fosse uno che non avesse ricevuto un minimo “aiuto”, ma quello che avevo ricevuto io era troppo noto, data la “vicinanza” del mio parente con il mio capo. Del resto, tutto ciò era vero e nessuno capiva perché me la prendessi tanto quando me lo facevano notare. Con il tempo, per mia fortuna, contenuti più piccanti occuparono i pettegolezzi “di palazzo” e qualcuno cominciò persino a comportarsi meglio con me. A volte, qualche collega mi invitava a casa sua, mi presentava al marito e ai figli, solo che ogni volta che emergeva il mio stato di single, si preoccupava di presentarmi qualcuno noiosissimo “come compagnia”, mi veniva detto. Allora io, oltre a rifiutare la compagnia noiosissima, interrompevo anche l’amicizia con la collega perché non sopportavo l’interferenza nella mia vita privata e non comprendevo il desiderio di queste colleghe di vedermi per forza in coppia. Sul lavoro, incominciai anche a raccontare di avere un fidanzato anche se non era vero, lo facevo per evitarmi scocciature e per fare la parte della normale. È vero che mi sentivo molto sola in quella città grande, in mezzo a tanta gente. Credo che il sentirmi sola mi rendesse anche inavvicinabile, quindi sempre più isolata dal mondo. Il lavoro era sempre lo stesso, la giornata era tutta prevedibile e preordinata, i compiti che dovevo svolgere erano sempre uguali giorno dopo giorno, le persone non cambiavano mai, i luoghi nemmeno. Mi lamentavo molto con il parente “benefattore”, dato che, come hai detto tu prima, quando si seguono i consigli di qualcun altro ci si sente anche in diritto di lamentarsi con questo qualcun altro e non con la propria coscienza. Riuscì ad ottenere dei lievi cambiamenti, anzi ci riuscì il mio parente che pazientemente mi ascoltava, pur non comprendendo le mie lamentele considerandole solo delle esagerazioni. Ottenni che mi mandassero all’estero per qualche missione e questo vivacizzò un po’ il lavoro per circa due anni, ma anche questo finì, perché ero stanca di sentirmi dire che si trattava dell’effetto della mia “raccomandazione elevata”. Il sabato e la domenica tornavo a casa di mamma e papà, ma la monotonia mi uccideva ed il lavoro era molto meno interessante di come era stato lo studio. Poi mamma si ammalò e ottenni tre mesi di permesso, per motivi di famiglia, per assisterla senza riduzione di stipendio, anche questa volta “aiutata”. Poi mamma si rimise in salute e io ripresi la mia routine.

Un giorno che dovevo lavorare anche di pomeriggio, durante la pausa pranzo entrai in una libreria e fui colpita da un libro o meglio dalle bellissime parole contenute in una sua pagina. Il protagonista è un fiume che non fa altro che cercare di trattenere le nuvole che si specchiano in lui, queste, però, svaniscono continuamente senza che il fiume possa farci niente. Un giorno il vento le spazza via TUTTE! Si dispera, si sente vuoto, non sa più cosa fare e piange… a questo punto una frase mi colpì particolarmente: “quella notte il fiume conobbe un attimo di raccoglimento per la prima volta. Era stato così occupato a inseguire qualcosa di esterno che non aveva mai avuto il tempo di guardarsi. Quella notte fu la sua prima occasione di ascoltarsi piangere, di ascoltare il rumore dell’acqua che batteva contro le sponde. Prestando ascolto alla sua voce, fece una scoperta importante.”[2] Dovetti interrompere la lettura perché una mia collega mi disse che eravamo in ritardo e dovevamo rientrare in ufficio. Mai avevo chiuso un libro più a malincuore! Tornai il giorno dopo in quella libreria, ma non c’era più il libro. Fortunatamente avevo memorizzato l’autore e il titolo, quindi entro breve lo trovai. Mi potresti chiedere perché mi aveva tanto colpito, ti risponderei che la sensazione di perdere tutte le “mie nuvole” della vita in cambio di ritrovare me stessa era qualcosa di indescrivibilmente meraviglioso anche se sconosciuto per me…  ora ne sentivo veramente il bisogno, a qualsiasi costo!

Tre giorni prima di compiere 35 anni, ad esattamente 10 anni dalla mia assunzione, ho preso la mia prima decisione libera in vita mia: mi sono licenziata. Non ho salutato nessuno dei miei colleghi e non ho mai sentito la loro mancanza. Tenni il monolocale in affitto per un po’ di tempo ancora, finalmente riuscì a visitare tutte le mattine la città. A parte i miei colleghi, per molti mesi nessuno dei familiari o sedicenti amici sapeva che non lavoravo più, continuavo ad andare a casa dei miei ogni fine settimana e facevo finta di lavorare di fronte al mondo. Nessuno si aspettava queste dimissioni dopo dieci anni, tutti le temevano durante il primo anno di servizio, quando le mie intense lamentele e la giovane età le facevano presagire, ma allora non erano maturi i tempi, anche di sopportare le critiche che il mondo mi avrebbe rivolto. Decisi di lasciare il monolocale dopo aver visitato tutta la città, ma non avevo fretta, in quegli anni avevo guadagnato più di quanto avevo speso, i soldi non mi sarebbero mancati per diverso tempo. La prossima mossa sarebbe stata quella di comunicare al “mondo” quello che avevo fatto, ci sarebbero rimasti tutti male, del resto io non avevo mai dato delusioni ma, non essendo stata finora contenta della mia vita, non posso nemmeno dire che sono una persona che ha dato soddisfazioni, ad esempio al mio “parente benefattore” non ho mai detto grazie per “l’aiuto” che mi aveva dato e non so come abbia fatto a sopportare tutte le mie lamentele rivolte ad un lavoro così prestigioso! Quando decisi di comunicare ciò che avevo fatto, la reazione unanime fu di grande stupore e sconcerto, ma io continuavo a non essere affatto pentita sebbene tutti mi guardavano come se fossi matta”. Il mio “parente benefattore” si diede perfino da fare per trovarmi un altro lavoro, ma questa volta risposi subito “no grazie”.

Non volevo pensare a niente che fosse esterno a me ora che dentro di me c’era solo il vuoto, era questo che cercavo adesso? Sembrava da folle, ma è necessaria un po’ di follia per sopravvivere, almeno per me. Spero di ricostruire tutto da capo, non so che cosa, almeno ora ho una speranza. Per la prima volta non ho la più pallida idea di quello che mi succederà, solo questo mi sembra meraviglioso, che ne dici tu?»

L’altra stava per rispondere, ma una voce che non apparteneva a nessuna delle due s’intromise dicendo:

«Ma, quante storie! A me piacevano le materie scientifiche e mi sono iscritta a scienze biologiche pur venendo dal classico, non ho avuto certo paura!  …»  e poi continuò la sua storia con le sue vicissitudini, le sue soddisfazioni e altro.

Un’altra voce, rivolta alla prima che aveva raccontato la sua storia disse ancora:

«Che ridicola! Potevi rimanere in Inghilterra anche se quel tizio di cui ti eri innamorata ti aveva piantato. Potevi cambiare ancora famiglia. Con il tempo avresti dimenticato. Io l’ho fatto e sono ancora lì, anche se ho avuto anche altre fregature, tanto quelle non le avrei potute evitare dovunque!» e anch’essa proseguì il racconto su come era vissuta fino ad allora in Inghilterra.

Poi, un’altra voce disse di aver cambiato facoltà universitaria dopo il secondo anno.

Poi, ancora un’altra voce raccontò di aver insistito ed essere riuscita a cambiare scuola superiore arrivata al terzo anno e anche lei disse cosa le era successo… 

E così, si inserivano sempre più voci, voci nuove che raccontavano le loro storie, si facevano domande, commenti, tutto riguardo alle loro vite, alle loro storie, tutte diverse, ma tutte possibili …

La donna, spettatrice di tutto ciò, rifletteva su quanto stava vedendo e sentendo, sulla stranezza dell’accaduto.

Chi aveva parlato?

Chi continuava a parlare?

Non era sola lì in camera sua?

E fra di loro il dialogo si faceva sempre più animato, sempre sulle loro storie!

A volte si criticavano a vicenda, ognuna proponendo i propri se e i propri ma, sulle varie possibilità di scelta che erano capitate o che si erano cercate e alla fine ognuna parlava delle proprie vite come possibili alternative per le altre e a loro volta le altre coinvolte rispondevano animatamente sulle positività, gli errori, l’evoluzione di ogni storia

Quante erano?

Sembravano in due all’inizio, ma ora si erano moltiplicate, tutte si conoscevano o forse si riconoscevano man mano che intervenivano…

La donna avrebbe voluto chiedere spiegazioni del tipo:

«Come mai erano nella stessa classe in terza media?»

«Alcune erano insieme anche alle superiori, altre anche all’università, altre ancora al lavoro, o in altri momenti, ma a chi appartenevano queste voci?»

«C’erano elementi comuni da apparire come la storia di un’unica persona moltiplicata dai diversi eventi che potevano essere capitati o essere scelti. C’erano anche episodi che facevano apparire molto diverse le vite che ne scaturivano! Come era possibile tutto ciò? Da dove provenivano? Da luoghi diversi? Da tempi diversi?»

C’erano troppe cose in comune tra loro. Eppure, qualcosa le faceva sembrare incompatibili tra loro: se era vera una, non potevano esserlo anche le altre! Non potevano coesistere, come le possibilità che possono essere anche infinite, ma la realtà si riduce ad essere una, che all’inizio era anch’essa una delle tante possibilità, poi si trasforma in realtà condannando le altre a rimanere solo alternative non realizzate…

Subito dopo le venne in mente un albero con un tronco enorme da cui partivano rami che si sviluppavano in direzioni sempre diverse verso le quali, però, non si può fare affidamento, alcuni si fermano, altri proseguono, nessuno sa dove arriveranno e se arriveranno da qualche parte.

Intanto il tempo passava, anche se secondo l’orologio del suo cellulare non era passato che un minuto da quando si era stesa sul letto! Non ricordava bene l’orario ma facendo i conti era come se il tempo si fosse fermato, come nel sogno? Ma non sognava, ne era sicura! Controllò se funzionasse bene l’orologio del suo apparecchio mobile e non sembrava esserci niente di anomalo.

Voleva dire la sua, ma no, non accadde, perché? Non poteva? Si accorse di non essere stata invitata a partecipare, a raccontare, nessuno la considerava, era come se non ci fosse, come se fosse un fantasma in mezzo a tutte queste persone… che strano! Erano tutte sue coetanee. Ma chi erano rispetto a lei? Perché non l’avevano invitata a raccontare? Poteva solo assistere, non riusciva a fare niente di più che ascoltare, ma era importante che lo facesse, almeno quello lo poteva fare! Del resto, dopo aver sentito raccontare tante storie, cosa aveva da aggiungere che non fosse già stato detto? Nessuna era interessata al suo racconto? Forse non aveva bisogno di raccontare, la sua storia era quella che scorreva nella vita reale e che aveva vinto la gara con tutte le vite possibili che ora le erano improvvisamente apparse davanti agli occhi!


[1] H.Arendt Vita activa tr. it. Bompiani, Milano 2001p.180

[2] Thick Nhat Hanh, La pace è ogni passo, tr.it. Ubaldini, Roma, 1993 p.113

STORIE…è un racconto di Gabriella Milella

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