COME LICHENI di Arnaldo Manuele

Le sue mani mi allontanavano dallo stato orizzontale e sottomesso in cui giacevo, il calore, la sensazione di profondo benessere, ma anche di profonda eccitazione erano un propellente irrinunciabile verso la levitazione del mio corpo.

Solo quando sentivo di non riuscire più a controllare le sensazioni la pregavo di fermarsi per qualche istante, e lei, Meing, sorridendomi dolcemente, acconsentiva, e disarmava le sue mani.

Rimanevo nella sua tela per un’ora, a volte due, invischiato in sensazioni che non avevo mai provato prima e che lei dispensava con la partecipe generosità delle donne orientali.

Mi accoglieva nel suo appartamento in mansarda con la sua lunga frangetta color ebano, la bocca dischiusa di perle bianche con un sorriso misterioso che bastava a sciogliere lo stress della giornata.

La conoscevo ormai da un anno, era stato un mio collega a mettermi in contatto, parlandomene, una sera dopocena, in un periodo in cui la solitudine e la delusione per mille rapporti sentimentali falliti, mi aveva reso particolarmente fragile e disposto a venire a patti con la mia coscienza.  Mi aveva dato il suo numero avvertendomi che conoscerla avrebbe provocato una dipendenza difficile di cui liberarsi, ma avevo deciso di accettare il rischio e l’avevo chiamata.  

L’appartamento era in una mansarda di un palazzo della metà dell’Ottocento, con grandi scale in pietra, mosaici veneziani a pavimento e grandi finestre ad arco con vetri colorati e inferriate decorative, l’edificio composto da quattro piani si trovava in viale Zara, non distante dal piazzale Istria a Milano.

All’ultimo piano, dopo aver percorso le eleganti scale, mi trovai davanti ad un portoncino color verde petrolio appena socchiuso e fui accolto da una snella e giovanile figura in camicia bianca, dotata di splendidi occhi a mandorla che esprimevano una dolce aria interrogativa. Mi invitò a seguirla lungo il corridoio su cui si aprivano porte chiuse e misteriose. C’era un silenzio strano, ovattato. Solo nella camera in cui mi condusse, una musica orientale riverberava tra le pareti.

Si presentò come Meing, aggiunse che era cinese e che era nata a Pechino, nient’altro, poi mi invitò a spogliarmi e a fare una doccia.

Obbedii come un seguace di una strana cerimonia in cui emozione e curiosità si alternavano, mentre i miei occhi la seguivano in tutti i suoi movimenti preliminari.

Meing era molto bella, benché distante dai modelli femminili che mi intrigavano, i capelli nerissimi, la frangetta lunga sulla fronte fino a sfiorare le sopraciglia, gli occhi da cerbiatto selvatico, l’espressione dolce di chi sa rapportarsi senza tabù e preclusioni e un corpo candido come la neve che contrastava fortemente con il cespuglio irto e scurissimo del pube, le mani piccole ma con le dita lunghe e curate che danzavano sulla mia pelle con la leggerezza di una farfalla. 

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