FILI di Fabrizio Frisan (prima parte)

Come nubi che sfilano nel cielo, a volte bianche, a volte nere, a volte grigie.

Come gettarsi di notte nel mare dopo una giornata di sole incandescente.

Come la sorgente che si fa largo fra rocce e arbusti e trova la via.

Come un guerriero ferito e stanco che sa di dover combattere ancora, ancora e ancora, fino alla fine della sua vita.

Come il punto di contatto fra l’ultimo giorno d’estate e il primo d’autunno.

Come la leggera pesantezza d’un ideale che ti sembra possa renderti libero ma allo stesso tempo ti opprime.

Come questa vita dolce e feroce, amica insopportabile, ospite ardentemente desiderata, giovane fanciulla e vecchia decrepita, moglie, sorella e aguzzina, madre ed assassina.

Vivere, che altro si può fare?

La densità e l’odore dell’aria sono le prime cose ad aggredirmi quando metto i piedi fuori dalla bolla condizionata dell’aereo.

Sembra una sostanza nuova, quest’aria, la puoi toccare, si muove, respira, aggredisce i passeggeri intenti ad uscire dalla grande macchina volante per intraprendere la discesa al mondo reale.

Milioni di moscerini vorticano sotto la luce di un lampione girando uno attorno all’altro come fossero dentro una boccia di vetro.

Nulla fa in effetti pensare che questo sia un aeroporto, potrebbe semplicemente essere un capannone, un hangar militare, un grande ufficio dismesso.

Seguo la fila, entro nella sala di ritiro bagagli, aspetto non troppo, prendo lo zaino dal nastro di plastica nera e poco dopo, uscendo dalla sala, mostro il visto in hindi a un curioso uomo baffuto dalla pelle scura, il quale mi chiede qualcosa in inglese, gli rispondo, mi dà il benvenuto.

Prelevo rupie in una sala d’aspetto, mi ricorda un po’ quella di un dentista non troppo fortunato.

Esco fuori. Di nuovo mi aggredisce l’aria, stessa densità, stesso odore, si spalma sulla maglietta e sulla pelle ma non ho il tempo di pensarci perché mille mani di tassisti cercano di toccarmi e mille sguardi cercano di catturarmi.

A fatica riesco a uscire dalla mischia. Procedo in avanti su una stradina del parcheggio, senza direzione precisa.

Alla fine della via c’è un taxi bianco parcheggiato. Lì dentro, un uomo è intento ad ascoltare tranquillamente la radio, nulla sembra poterlo importunare. Busso al finestrino, apre, gli chiedo se il taxi è libero. Lui scuote la testa per dire sì, non so, forse, dipende e infine dice certo e mi indica il sedile posteriore.

Entro, poggio lo zaino, mi siedo.

Lui abbassa il volume della radio e dallo specchietto mi fa: “Dove devi andare?”

Il suo inglese è limpido, netto, lento e preciso.

“Al centro” gli dico.

Lui si gira e mi guarda con un’espressione fra l’incredulo e il meravigliato: “Centro?” esclama.

“Ci sarà un centro in questa città, no?” rispondo un po’ perplesso.

“Ma è tutto un centro…” fa infine l’autista, dispiegando le braccia per indicare il mondo là fuori.

Lo guardo e stavolta non so proprio cosa dire.

Dallo specchietto retrovisore al centro del parabrezza pendono cose, fili forse, forse stoffa, e vorticando disegnano cerchi piccoli e concentrici. Più sotto, un campionario delle più importanti divinità indiane in formato adesivo: Krishna blu intento a suonare il flauto, Shiva in meditazione estatica circondato dai serpenti, Kali nera dalle mille braccia, Rama vestito di pelle di tigre, Hanuman il dio scimmia, un grande Om e infine il vero Sai Baba, quello originario, nell’atto di benedire tutto e tutti.

È l’una di notte. Non ho la più pallida idea di cosa possa aspettarmi là, oltre quel parcheggio polveroso, lungo strade che si infilano come tentacoli in una città incommensurabile e sono stanco, molto stanco, il cervello sfasato da tutte quelle ore di viaggio e fusi orari.

“Ci sarà una via di ostelli?” chiedo infine per disperazione.

L’autista ci pensa un attimo e fa: “Sì. È un po’ tardi ma si può fare.”

Si sistema bene nel posto di guida e si mette la cintura di sicurezza. Prova ad accendere una volta, due volte, tre e finalmente il motore si avvia.

L’autista guida tranquillo e sereno, sembra voglia lasciarmi in pace, forse è abituato, canticchia con la radio mentre attraversiamo chilometri e chilometri di baracche, si intravedono bambini far girare ruote di camion con un bastone, animali indecifrabili da scansare, tutto normale, sembra pensare l’autista, tutto regolare. Una fila continua di esseri umani dorme sui marciapiedi, tutti avvolti nelle coperte, un corpo attaccato all’altro, uno dopo l’altro, senza soluzione di continuità.

Non vedo nessun cartello. Nessuna linea è disegnata sull’asfalto. Le macchine semplicemente suonano il clacson, si accostano, lasciano passare. A volte siamo noi a doverci accostare e lasciarle passare.

Dopo uno zigzagare interminabile fra strade asfaltate, strade in terra, stradine di polvere, vie larghe improvvise, proprio mentre l’autista sta dicendomi di essere quasi arrivati a destinazione, dal finestrino intravedo una marea di gente che avanza verso di noi.

Si avvicinano con canti e battiti delle mani, pentole percosse, piattini, indefiniti oggetti sonori. Sono centinaia e centinaia di persone, gli uomini tutti scalzi, le donne con teli e veli di mille colori, tutti ballano e cantano. Finalmente dalla folla spunta il dio, nero e con degli enormi occhi tutti bianchi a forma di palla. Ipnotizza subito. Dal suo corpo pendono lampadine, fili elettrici, corone di fiori.

“Jagannath” dice l’autista con enfasi, scende dalla macchina e va a toccare la statua, si mette la mano in fronte, torna al taxi.

“È una forma di Krishna” dice sedendosi e mettendosi la cintura. “Quando Krishna va in estasi, i suoi occhi diventano grandi, grandissimi, le braccia e le gambe si ritirano dal corpo e lui resta immobile perché non ha più bisogno di nulla” dice ancora e gira la chiave una volta, due volte, tre volte.

La folla sciama, i canti e gli oggetti sonori si ovattano e sfumano nella notte, la luce del dio compare un’ultima volta all’angolo lontano, infine svanisce e ripartiamo.

Dopo pochi minuti, l’autista ferma la macchina e indica fuori: “Siamo arrivati. È un po’ tardi ma forse qui potrebbero avere una stanza”.

Guardo fuori.

Potrebbero essere i ruderi di una qualche casa di fango, un casolare d’una fattoria al centro di una città senza centro.

“Grazie” dico infine. “Quanto le devo?”

“200 Rupie” fa lui.

Gli do le rupie. Lui le prende, le mette in fronte e poi le solleva al cielo bofonchiando una litania incomprensibile, infine se le mette in tasca. Sembra sul punto di dire qualcosa ma non dice nulla.

Apro la portiera e faccio per uscire ma lui mi ferma il braccio: “Senti, devo dirti una cosa importante”.

La radio, intanto, accesa per tutto il tempo, continua a diffondere una voce petulante di donna sopra una musica d’archi intensi bollywoodiani, guardo verso l’uomo e dietro di lui ci sono tutti quei fili, pezzi di stoffa, divinità adesive, colori e contrasti di colore.

“Prego” faccio dopo un po’.

“Qui in India non son tutti come me. Stai attento.”

Rimango un po’ perplesso, è come se lui avesse capito qualcosa di me che a me sfugge, forse, o forse son solo troppo stanco e non ho più forze neanche per rispondere.

“Molti cercheranno d’imbrogliarti” continua.

Sto in silenzio, lo zaino nella mano, seduto dietro, la portiera aperta.

L’aria qui è ancora diversa, al denso e appiccicoso s’è unito un retrogusto di bruciato, amaro, tagliente.

Gli chiedo: “E io cosa dovrei fare?”

“Non fidarti troppo” dice subito, senza nessuna esitazione, “ma soprattutto, segui le interiora, segui l’istinto. L’istinto, se lo ascolti bene, non sbaglia mai.”

Il suo tono così calmo e naturale mi tiene inchiodato. Cerco di capire cosa vuole dirmi esattamente ma poi mi convinco che vuole dirmi giusto quello che mi ha detto, né più né meno.

Lo guardo un’ultima volta e gli tendo la mano. Lui la stringe.

“Buona fortuna” gli dico, uscendo dal taxi.

“Buona fortuna” mi risponde subito.

Mi metto lo zaino sulle spalle, scavalco qualche corpo addormentato, mi avvio verso una scala diroccata, buia e scivolosa.

L’aria, a questo punto, è semplicemente assurda e inspiegabile, non interpretabile.

Tutto è immobile e una nota di fondo grave e continua vibra ovunque, forse viene dai lampioni, forse dal profondo della terra.

Un uomo apre la porta prima che possa bussare, mi toglie lo zaino dalle spalle e lo porta in una stanza al piano di sopra, mi dà una coperta ruvida di lana grezza, mi augura buonanotte.

Chiusa la porta della stanza con un cigolio leggero, dalla finestra rotta sento l’autista girare la chiave una volta, due volte, tre e infine scomparire fra le strade.

Poggio lo zaino sul letto, ci metto la testa sopra, mi avvolgo nella coperta ruvida e scompaio anche io, dall’altra parte del mondo.

Vissi la mia infanzia e la prima adolescenza in un paese che potrebbe essere considerato il modello della storia regionale, nazionale ed europea dell’ultima metà del secolo scorso.

Era un piccolo villaggio all’esatto angolo sud-occidentale della Sardegna. La sua terra era stata da sempre fertile, produceva un ottimo vino e i campi avevano sempre generato abbondanza fra il sole e il grande Mediterraneo. Soprattutto si pescava perché il mare era profondo e mutevole e pieno di vita.

C’erano poche case al centro, il porto, una torre spagnola, spiagge e scogli dalle mille forme. Si faceva una tonnara famosa, un rito collettivo di grande impatto visivo.

Era un piccolo paese, poche gioie, pochi dolori ma quelle poche gioie e quei pochi dolori erano forti perché quella gente conosceva bene il mare, ci viveva dentro. Oltre ai pescatori, c’erano contadini e pastori, il prete furbo della chiesa, politici mafiosi che si giostravano gli appalti, un medico che doveva curare tutto il paese.

Iniziarono ad arrivare gli uomini di fuori, da ogni direzione oltre il mare. Portavano strani fogli, dicevano ai politici cosa dire, regalavano gingilli da ricchi a chi sceglievano loro e quel prescelto o quei prescelti diffondevano un nuovo verbo: lo chiamavano benessere economico, il grande boom.

Fecero accordi, promisero una vita stabile senza le incognite e le fatiche del mare e dei campi, lusingarono e infine ipnotizzarono tutti con il suono puro e cristallino delle monete d’oro.

La terra fu trasformata in una fucina e in poco tempo dei grandi mostri d’acciaio e cemento armato presero forma e iniziarono ad esalare fuochi fatui e veleni e così, proprio là dove c’erano le vigne, i pullman azzurri iniziarono a scaricare frotte di nanetti con l’elmo giallo e le tute blu.

I contadini avevano ceduto le loro terre o erano stati costretti a cederle, chi le aveva tenute ora produceva un ibrido di vino e piombo, i pescatori si stupivano di vedere i loro pesci galleggiare esanimi sulla superficie, tutto improvvisamente fu rivoltato. Al centro del paese ora c’era una fila di grandi scatole di fiammiferi, grandi alveari per le nuove api operaie. Altri li mandavano oltre la pineta, in un nuovo quartiere piatto e uniforme di nuova edilizia popolare.

Tutto in un attimo era diventato industria.

I palazzi, le scuole, le rassegne di film americani, le feste musicali, i discorsi dei politici che si fingevano ricolmi d’autorità ma contavano meno di niente- era tutto industria, così com’erano industria i nuovi negozi di vestiti, il lungomare costruito davanti al porticciolo, i concerti d’estate in piazza con cantanti italiani o persino stranieri, i campionati amatoriali ai campetti davanti agli alveari.

Io nacqui allora.

Vivevo in un ordinato villaggetto di una ventina o trentina di villette infilate fra una pineta e la spiaggia. Le industrie non le potevo vedere, risultavano nascoste da una collina ma se guardavi bene il cielo potevi scorgere un’onnipresente colonna di fumo grigio salire verticale e la mattina, quando aprivi la finestra per far entrare il primo sole dal giardino, c’era spesso della polvere rossa sul davanzale.

Ero figlio di un dirigente, un ingegnere venuto dal Friuli, e vivevo quindi in una zona privilegiata. Nulla o poco più sapevo e capivo dei contadini e pescatori che diventavano operai o delle difficoltà di quelli che invece avevano deciso di rimanere quel che erano e per questo navigavano ora in acque infide e limacciose.

Al di là della pineta c’era un altro quartiere, case lineari e anonime, vie diritte, palazzi grigi, una scatola di latta ed eternit con una madonna dipinta d’azzurro e un crocifisso di tubi di ferro.

La pineta che separava la mia bolla privilegiata da quell’altra bolla anonima era strana, sospesa, buia e inquietante. Generava un’infinità di leggende sussurrate all’orecchio dai bambini.

Noi di tanto in tanto ci inoltravamo fra i pini e con gli aghi raccolti da terra costruivamo rifugi fantastici ma non potevamo mai superare la casupola abbandonata, mezzo crollata e ricoperta di pasticci al centro della pineta.

Quello era il nostro confine, un limite mai scritto eppure evidente.

Il nostro mondo e quello oltre la pineta erano totalmente alieni l’uno all’altro, non necessariamente ostili ma diametralmente opposti.

Due o tre volte era capitato che questi mondi si incontrassero, precisamente in un chioschetto fatiscente davanti al mare dove erano arrivati i primi videogiochi del paese.

Eravamo stati portati là dallo stesso fascino.

Una volta c’eravamo guardati a lungo, noi e loro, ma poi non era successo nulla perché a un certo punto loro se n’erano andati via gridando coi loro fratellini più piccoli sulle spalle.

Un’altra volta, un mio amico aveva sfidato uno di loro nel videogioco del Karatè ma poi il gioco s’era trasferito nella realtà spoglia del chiosco e così tutti l’avevamo finita a calci volanti ma il padrone del bar ci aveva cacciati via col bastone e ognuno s’era disperso per la sua strada.

Loro per noi erano diversi, noi eravamo diversi per loro; eppure, eravamo stati tutti attirati in quel chiosco dalla stessa curiosità ed in fondo non eravamo tutti che bambini all’avventura.

Poco più di dieci anni dopo la loro scoppiettante apertura, le industrie entrarono in crisi.

Erano state costruite grazie a immensi finanziamenti statali ma non riuscivano più a tenere il passo. Ci furono licenziamenti, riduzione della produzione, altri licenziamenti, altra riduzione e tutti quei nanetti gialli e blu furono pian piano decimati, diminuirono le esalazioni e i fuochi sulle torrette, le crepe cominciarono ad essere visibili sui muri dei palazzi alveare, le scuole furono ridotte al minimo, tutto prese d’improvviso a vacillare e incrinarsi e così mio padre riuscì a farsi dare una pensione anticipata e levò le tende con tutta la famiglia. Stipammo la nostra roba nella grande macchina bianca ammortizzata e abbandonammo la nostra villetta al suo destino incerto fra il mare profondo e la pineta oscura dalle mille leggende.

Dopo di noi se ne andarono anche gli altri, uno dopo l’altro, e il paese non fu mai più lo stesso. Non poteva più essere il piccolo villaggio di pescatori e contadini sul Mediterraneo, non avrebbe più potuto essere quel veleno travestito da illusione con cui avevano reso la terra sterile e il mare vischioso.

Andammo nella grande città, davanti a un altro mare, e da lì iniziarono innumerevoli altre storie, ma questa è un’altra storia.

Sorridevo sempre quando tu parlavi di te stessa. Mi faceva sorridere il modo in cui muovevi il piede sotto le lenzuola in un tremito veloce, una scossa. Parlare di te stessa, per te, significava compiere uno sforzo elettrico di liberazione da ostacoli densi e compatti, per questo esplodevi sempre in questo tremito elettrico.

“No so” mi dicevi, “quello che mi fa star bene è quello che mi fa star male” e dicendolo fissavi il soffitto, avvolta nella lana della coperta, gli occhi spalancati sulla notte. Dosavi i silenzi, erano parte di ciò che raccontavi, una sua naturale conseguenza.

“Quando mi sento libera, tutto diventa facile ma poi è come se mi mancasse qualcosa e torno indietro” dicevi a te stessa, al soffitto, alla coperta, alla mia presenza.

Le candele oscillavano nell’aria e proiettavano la tua ombra guizzante sul muro dietro il letto, questa danzava come le spire del fuoco, quasi crepitava mentre i tuoi occhi di metallo continuavano a rimanere fissi sul soffitto, sempre più grandi, sempre più neri.

“Quando sono sola mi mancano le sicurezze, le persone che mi danno sicurezza. Quando sono con queste persone mi manca stare sola” continuavi e subito dopo finalmente ti giravi di lato e mi fissavi con una strana intensità, una profondità sfuggente appena percettibile fra le tue pupille, un pozzo senza fondo, un salto nel buio.

Poi ti gettavi sul mio corpo con la stessa scossa elettrica che ti aveva fatto muovere il piede spasmodicamente e la tua ombra sul muro ti seguiva andandosi a confondere con la mia.

“È strano” sussurravi, “a volte sembra che i tuoi occhi si commuovano, sembra che vuoi dire qualcosa ma allo stesso tempo non vuoi dirlo” e tornavi al tuo posto, a fianco al mio corpo, sdraiata di lato, il metallo degli occhi fisso sui miei in un attimo eterno.

Scendeva il silenzio, gravido di comprensione e attesa, coscienza, simmetria.

Così ti accarezzavo i capelli, fili di seta nera, per lavare via dalla tua testa tutto il dolore e tutte le difese. Quel dolore, quelle difese, erano paurosamente simili alle mie, comunicavano fra di loro senza che potessimo accorgercene.

Intanto le ombre continuavano a danzare sui muri e fuori dalla finestra sfrecciava qualche macchina solitaria, missili su un muro di nebbia e freddo.

“Non è che mi commuovo” dicevo infine, “è che mi sembra di capirti subito senza che neanche cerchi di spiegarti. Mi capisci?” chiedevo ma sapevo bene che non c’era bisogno di nessuna conferma. Il tuo essere lì a fianco a me, la tua ombra sul muro, l’odore intenso della tua pelle- tutto questo era già una risposta, l’unica possibile.

Ti avvinghiavi al mio corpo.

“Che ne sappiamo di quel che sarà” sussurravo alle tue orecchie, “che ne sappiamo di quello che è stato. Chi si ricorda più di quel che è stato. Chi se ne frega di quel che sarà. Vorrei solo stare così per sempre. Non si può?”

Arrivava l’alba. Un tenue e sottile raggio di luce penetrava attraverso la serranda per accucciarsi all’angolo del letto. Pian piano chiudevamo gli occhi, tutt’e due, avvinghiati e confusi, la pace nel cuore, un senso lontano di felicità inafferrabile che sapevamo sarebbe potuta durare solo adesso, né prima né dopo.

Pian piano scivolavamo uno nel sogno dell’altro, dimenticando la solita candela accesa sul comodino la quale, solitaria e sonnolenta, guizzava ancora un po’ sul muro per poi lasciare spazio al giorno nascente.

Cammino per le interminabili vie di Kolkata con la chiara sensazione di non essere nessuno.

Più cammino, più la sensazione si fa netta: sono un corpo in mezzo a decine di milioni di altri corpi tutti appiccicati l’uno all’altro, corpi che si toccano, si sfiorano, si sfregano, si scontrano.

È una sensazione estremamente spiacevole ma stranamente interessante.

Ho lo zaino in spalla, sudo copiosamente e non mi posso fermare, non c’è un posto dove sedersi e riposare, solo questo muro inespugnabile di corpi umani in mezzo a un altro muro di macchine anche loro appiccicate l’una all’altra, i parafanghi a contatto. C’è un vociferare continuo, acuto e insistente confuso col rumore perenne dei clacson.

Non ricordo da quante ore sono sveglio, ho perso il conto. Ho provato a dormire stanotte in quella stanza con la finestra rotta di un casolare al centro di una città senza centro, avevo ancora tutti i fusi orari nel cervello ed ero esausto ma degli antipatici insettini poco familiari uscivano dalle interiora del materasso mentre dalla finestra rotta entrava un po’ di tutto: inquinamento, zanzare, aria densa, un brusio indefinibile e sotterraneo. Così mi son seduto sul letto e ho pensato.

Ho pensato a quant’era strano essere lì da soli, dall’altra parte del mondo, in un ostello sgangherato ai confini del tempo. Ho rivisto tutta la mia vita, avvenimento per avvenimento, come se finalmente potessi osservarla da una distanza nuova e sconosciuta. All’alba ho preso le mie cose e me ne sono uscito ad esplorare il mondo nuovo. Il sole è diventato subito forte, potente e determinato quanto la polvere che ogni passo di ogni corpo sollevava al suo passaggio.

Seduto al tavolino d’un ristorante- una stanza quadrata, tavoli sbilenchi, sedie di plastica- trangugio un succo d’arancia fresco e ingurgito un’omelette al formaggio mentre mi guardo intorno e cerco di recuperare le energie residue.

Un ragazzo magro e pallido si siede a fianco a me e mi osserva per un attimo.

“Amo Calcutta perché qui non mi sento nessuno” dice subito.

La sua frase mi colpisce come un pugno allo stomaco.

Continuo a mangiare.

Lui continua a parlare: “È incredibile non sentirsi nessuno per noi che veniamo dall’occidente, è come una droga, è meglio di ogni droga.”

Non so che rispondere. Addento l’omelette.

“Da quanto tempo sei qui?” mi chiede.

“Sono arrivato ieri notte” gli dico.

“Sei arrivato ieri?” fa stupito e mi squadra intensamente come fossi un caso clinico. “E come ti senti?”

Sorrido e non dico nulla. Bevo un po’ di succo d’arancia.

Alla tv mandano una partita di cricket, dei tipi si muovono sul campo, lanciano una palla in modo strano, la colpiscono con delle strane mazze, non si capisce nulla, tutto si muove con un ritmo imperscrutabile e misterioso. Agli altri tavolini ci sono uomini scuri che mangiano riso con le mani e bevono Chai, tutti vestiti con camicie e pantaloni leggeri. Appesa al muro, Kali nera e spietata calpesta uno Shiva stranamente sereno. Le mosche ronzano nell’aria, sbattute qua e là dai ventilatori. La gente entra ed esce, esce ed entra, tutti hanno quelle camicie e quei pantaloni, tutti sono inspiegabilmente sereni.

È l’esatto opposto del mondo là fuori e delle strade oltre l’ingresso.

“Sei già andato al tempio di Kali?” fa il ragazzo magro e pallido.

Scuoto la testa.

“Sai che qui c’è il tempio più antico e importante di Kali?”

Scuoto di nuovo la testa. Lo guardo per un attimo. È vestito di bianco e ha un’aria generale allo stesso tempo spaventevole e curiosa, barba incolta biondiccia, pallido, occhi blu e sguardo fisso.

“Se ti va ti ci accompagno” dice infine.

“Va bene” faccio io.

“Non ho molto tempo” fa lui guardando il grande orologio sul muro del ristorante, “ti accompagno all’ingresso poi vado a lavoro.”

“Che lavoro fai?” gli chiedo un po’ stupito.

“Curo i lebbrosi.”

Rimango intontito. Mi alzo, pago il conto. “Andiamo” faccio infine.

Così camminiamo per piccole vie incastrandoci fra corpi anonimi, tutto il marciapiede è invaso da un’interminabile fila di enormi pentole in cui uomini scuri friggono tutto ciò che si può friggere, l’aria è satura di vapori che vanno a confondersi con l’umidità e lo smog del traffico ininterrotto- un pachiderma di acciaio e anidride carbonica. Le case si incastrano una nell’altra, i muri grattati e scavati, i balconi traballanti, ricordi di colori fra le macchie di umido, ogni tanto uno spiazzo ricolmo di gente, ogni tanto un piccolo parchetto, di nuovo strade strette e case miracolosamente in piedi.

Dopo un tempo indefinibile usciamo da quel labirinto e davanti a noi si staglia la minacciosa presenza del tempio.

“Ecco, qui c’è Kali” fa il ragazzo asciugandosi la fronte con un fazzoletto. “Ti avviso, è molto potente.” Ferma un taxi, mi saluta, ci entra dentro e va via.

Lascio lo zaino in una piccola stanza a un uomo che mi indica le scarpe. Le tolgo e gliele affido.

Entro nel tempio.

Mi muovo scalzo sopra un mare di fango rosso. Un’impossibile quantità di uomini e donne si accalcano e cercano disperatamente di arrivare a toccare la statua nera di Kali mentre lei osserva neutrale e spietata con i suoi occhi enormi ma la gente è troppa e lo spazio è troppo piccolo.

Ogni quarto d’ora è lo stesso rituale, da chissà quante migliaia d’anni: Kali vuole il sangue, vuole la vita. Tutto attorno a lei è pesantemente oscuro e minaccioso. Mi guardo i piedi, sono rossi, cerco di respirare ma l’aria è opprimente e stantia, tutti ci muoviamo insieme come un unico organismo, non c’è spazio, non si può far altro che lasciarsi muovere dall’ammasso di corpi. Nessuno è più nessuno. Anzi, siamo tutti nessuno, vittime sacrificali di un ciclo infinito all’infinito ripetuto nel sangue.

Qualcuno urla e mi vengono le vertigini. Un bambino piange e strilla e finalmente sono davanti a Kali, tutto si fa nero, tutto diventa ovattato, le voci, le immagini, gli occhi delle persone. Raccolgo le ultime forze e facendomi largo fra la folla scappo via, lontano dal buio.

Fuori dal tempio, l’aria densa e inquinata di Calcutta sembra quasi piacevole.

Mi lavo i piedi in una bacinella che un uomo mi ha scaltramente prestato. Una volta, due volte, cento, mille, un milione di volte.

L’uomo si riprende la bacinella e mi guarda. Muove la testa. Allunga una mano. Gli do le prime monete che trovo in tasca, lui ringrazia e scompare.

Scompaio anch’io.

Davvero, non sono più nessuno.

Quando torno a me stesso, ritiro lo zaino e le scarpe, mi getto in mezzo alla strada e fermo un taxi.

“Alla stazione dei treni” dico all’autista.

Ci infiliamo in mezzo al traffico delirante di una città tentacolare impazzita.

È pomeriggio inoltrato.

Scappo via da Calcutta, la città di Kali.

Proprio nel momento in cui il respiro sembrava essersi fermato e mi sentivo soffocare fra quelle pareti umide e avvolgenti, riuscii finalmente a trovare la via d’uscita, l’aria riprese a circolare nei miei piccoli polmoni appena formati e il mondo iniziò ad apparire per la prima volta, luci bianche e senza contorno, una stanza bianca nell’ospedale di provincia, odore di naftalina e anestetici. Ad Est sorgeva la sfuggente costellazione del Cancro, quasi invisibile nel cielo terso e stellato. Il sole riposava in attesa di levarsi su quella dello Scorpione.

In quel momento avevo già vissuto tutto: l’amore nel calore del galleggiamento, il dolore del distacco mentre venivo strappato e lacerato e già amore e dolore erano uniti, all’uno seguiva l’altro, a una pace apparentemente eterna era subentrato il trauma della separazione e del distacco violento.

Già nel mio corpo appena nato erano inscritte le emozioni fondamentali: l’amore era il calore, il dolore era lo strappo, tutto lì, in quel momento.

In quel lampo di luce accecante qualcosa mi tirò fuori mentre mi sembrava d’essere sul punto di morire. Anche la paura della morte, quindi, iniziò nello stesso istante.

Poi il mondo.

Niente più mi protegge, sono gettato in un caos abbagliante di macchie senza contorno, la luce bianca asettica dell’ospedale mi ferisce gli occhi, braccia disattente mi trasportano, le prime mani sul mio corpo, il primo contatto con l’altro- chi erano quelle persone così veloci e professionali? Chi mi ha lanciato nel mondo?

Tutto ho vissuto allora e il mio cervello già portava tracce indelebili, nodi di sensazioni e desideri, passioni, cicatrici, sangue, violenza, dolcezza, assenza e presenza.

Ogni cerchio chiuso riporta lì, al primo cerchio fondamentale.

Mia madre era lì per caso, la mia nascita non era attesa se non per il mese successivo e così inaspettatamente uscii al mondo in una cittadina creata dai fascisti e ricolma di minerali e polveri sottili ma anche di grotte neolitiche e un monte sacro a Tanit.

La mia infanzia trascorse a una ventina di chilometri da lì, a due passi dal mare, fra giardini verdi, pinete fitte e scure, scogliere a forma di mostri antichi o animali preistorici. Attraversavo i mondi con la mia bici cross, compagna fedele e maestra di vita e d’avventura, senza mai osare o poter osare di andare oltre la collina, dietro il paese dove si ergevano minacciose, grigie e marroni, grandi, immense e spettrali le industrie di alluminio, zinco, piombo e quant’altro.

Tutto questo, per me, semplicemente non esisteva. Esisteva la collina, certo, il paese oltre gli scogli, il mare sempre uguale sempre diverso, l’isoletta con il faro lì in mezzo, gli altri scogli dall’altra parte dove si andava a fare tuffi.

Il paese è ancora lì, davanti a quel mare, con tutte le sue immutate contraddizioni.

A dodici anni fui strappato dalla mia vita naturale e gettato nelle fauci della grande città, unica grande città di quest’isola meravigliosa e terribile, sul letto di una camera uguale identica a mille altre camere di altri mille palazzi tutti uguali.

Fui costretto subito ad assorbire l’impatto e sviluppare coscienza e lucidità, tutto d’un colpo, cambiare ritmi, spazi, vie di fuga. Dai giardini verdi passai alla strada grigia e il primo anno fu un susseguirsi di incubi di incendi e palazzi che crollano, aerei in picchiata, esplosioni. Mi sentivo una microcellula in mezzo a miliardi d’altre microcellule, tutte sole, senza protezione né vie di comunicazione. Questo però mi diede la spinta a lottare per cercare un mio spazio, combattere per essere felice di vagare indisturbato fra strade, macchine, palazzi e semafori.

Mi sofisticai, scoprendo la letteratura, la musica, le diverse forme d’espressione umana ma allo stesso tempo non abbandonai mai la strada, vero terreno di crescita ed espressione.

Quel mondo selvaggio di scogliere e pinete divenne un mondo di asfalto e piazzette, infilato in una civiltà regolamentata da strisce pedonali, numeri civici e recinti d’ogni tipo.

Dovetti imparare a scavalcarli, quei recinti, per spostare sempre un po’ più avanti i confini, di piazzetta in piazzetta, di cortile di palazzo in cortile di palazzo, era l’unico modo di tener vivo il ricordo delle scogliere e delle pinete e delle lunghe cavalcate in bici in strade di terra senza semafori né strisce pedonali.

“Chai Garam, Chai Garam, Chai Garam…”

“Pani Bottel, Pani Bottel, Pani Bottel…”

“Paper, Paper, Paper…”

I venditori di cibo, bevande e giornali passano a ritmo serrato lungo lo stretto corridoio del treno, uno dopo l’altro, senza sosta.

“Coffe, Coffee, Coffee…”

Sono sdraiato su una specie di letto blu di plastica in mezzo a scompartimenti e scompartimenti di letti blu in file di tre. Il mio è quello più in alto della fila, proprio di fronte a due grandi ventilatori bianchi e sporchi attaccati al tetto del treno.

“Pani Bottel, Pani Bottel, Pani Bottel…”

Quando ho comprato il biglietto, mi hanno dato un grande pezzo di carta con un codice corrispondente a un letto e mi hanno spiegato che per trovarlo bisogna seguire le coordinate. Non mi spiego allora perché ci sia molta più gente che letti, in alcuni di questi ci sono anche tre o quattro corpi incastrati, tutti dello stesso sesso, quasi tutti uomini intenti a mangiare con le mani del cibo più o meno liquido.

“Paper, Paper, Paper…”

I ventilatori accesi di fronte a me roteano e smuovono l’aria emanando una nota continua bassa e vibrante. Vibrante è anche la pallida luce giallognola proveniente dai finestrini aperti, rende tutto piatto e bidimensionale mentre il treno procede letargico e costante.

Siamo partiti da Kolkata qualche ora fa. Ho dovuto lottare contro una calca impressionante, cercando di interpretare il codice del biglietto mi son dovuto far largo fra persone inspiegabilmente immobili negli angusti corridoi, ho girovagato come un folle e infine, proprio mentre il treno lasciava gli ormeggi, ho finalmente trovato il mio letto blu, quello che mi spettava di diritto. Ci ho lanciato lo zaino sopra, ho scavalcato i due letti più bassi della fila ed esausto ne ho preso possesso.

Ero contento, potevo non fare niente di nuovo, evitare ogni avventura in quella continua mareggiata di esseri umani, starmene per le mie, sdraiato come se tutto il resto non esistesse. Ho chiuso gli occhi, subito è apparso il buio familiare nascosto dietro le palpebre, quell’oscurità sempre uguale ovunque io sia. È apparsa Kali, nera, gli occhi spietati e per un attimo ho sentito l’odore di fango e sangue. È tornato il buio nascosto dietro le palpebre, trafitto da filamenti luminosi, mi son concentrato sul suono grave vibrante dei ventilatori e infine son sprofondato in un sonno senza sogni.

“Chai Garam, Chai Garam, Chai Garam…”

“Pani Bottel, Pani Bottel, Pani Bottel…”

“Paper, Paper, Paper…”

Riapro gli occhi, il sole sta per tramontare e si infila perpendicolare nello scompartimento dandogli un’ombra d’arancione scuro.

Nella fila di fronte alla mia, al primo piano, una curiosa famiglia parla una lingua sconosciuta, potrebbe essere russo, tutt’e tre son seduti sullo stesso letto blu e mangiano pane e formaggio. Lei è grossa e ha tutti i denti d’oro. Lui ha un cranio lucente con una lunga cicatrice all’altezza della fronte. Il figlio, un bimbo forse di dieci anni, ha il petto molto in avanti e una grande gobba sulla schiena. Il bambino gioca con un videogioco portatile ma subito mi accorgo che il suo sguardo di tanto in tanto abbandona lo schermo e mi osserva di traverso, quando me ne accorgo accenna un sorriso e riporta gli occhi al videogioco. Mi balza in testa un’idea bizzarra, lui potrebbe stare usando quel corpo per mimetizzarsi, magari è una spia, nel momento in cui lo penso noto di nuovo i suoi occhi guardarmi di traverso, forse pensa che la spia sia io, ci guardiamo, sorridiamo tutt’e due allo stesso modo.

“Coffee, Coffee, Coffee…”

Esco dalle mie stupide fantasie e balzo giù dal letto.

Indico il mio zaino alla famiglia aliena, l’uomo col cranio lucente mi fa il pollice in su, sgattaiolo verso la toilette. Uscito dal bagno, mi accorgo subito che la porta d’ingresso del treno è spalancata, mi siedo sullo scalino, mi accendo una sigaretta.

“Chai Garam, Pani Bottel, Paper, Coffee…”

Di fronte a me sta sfilando la campagna indiana, uno sterminato mare di grano assorbe e riflette gli ultimi barlumi di luce, tutto appare rosso e dorato. Ovunque guardo, spuntano uomini o donne, chi raccoglie le spighe, chi fuma tabacco su foglie di tabacco, chi è seduto nella tipica posizione indiana e ci osserva. Dopo il grano sfilano un boschetto, un piccolo tempio di terra rossa fra gli alberi scuri, mucche immerse per metà in una piccola pozza d’acqua, strade bianche, uomini scuri in biciclette nere.

Il treno giunge a una stazione e si ferma.

Getto la sigaretta fra i binari, per metà fumata dal vento, torno verso il mio letto blu di plastica. La famiglia non è più lì, la intravedo camminare sulla piattaforma della stazione con tutti i pacchi e le borse e le valigie e per un attimo mi sembra di vedere il bambino cercarmi fra le finestre del treno. Sul mio letto, un contenitore di plastica è stato poggiato al mio zaino. Lo apro, ci sono un po’ di pane e una bella fetta di formaggio. Sorrido, mi siedo sul letto e mi metto a mangiare, ringraziando la famiglia aliena.

“Pani Bottel, Pani Bottel, Pani Bottel…”

“Coffee, Coffee, Coffee…”

Fermo il venditore ambulante, prendo un caffè di acqua torbida, me lo porge, gli do una moneta, la intasca, continua: “Coffe, Coffee, Coffee…”

Il treno riparte e sferza l’oscurità.

Si accendono le lampadine, tremolanti, giallastre, intermittenti. Le ventole ronzano ancora ma non è un suono spiacevole, fa da contrappunto allo sferragliare ritmico e continuo delle ruote del treno.

Chiudo gli occhi al mondo e nella mia mente prendono forma le immagini viste mentre fumavo seduto sul gradino della porta d’ingresso: il grano, gli alberi, il tempio rosso, le mucche, il bosco, tutto quello spazio sterminato di grano, tutto quello spazio senza tempo.

Mi addormento.

Mi risveglio a notte fonda, poco prima dell’alba.

Tutti i letti sono occupati, alcuni anche da due o tre persone, tutte dello stesso sesso. Altri dormono in terra, nel corridoio, davanti al bagno. Tutto tace tranne il moto del treno e quello delle ventole.

Di fronte a me, all’ultimo piano della fila di fronte alla mia, dorme una ragazza bellissima, sembra presa da una favola o da un film romantico di Bollywood, ha la testa poggiata su una borsa e un telo azzurro le avvolge il corpo. Potrebbe davvero essere la principessa d’un altro tempo, qui ancora esistente con tutti quei bracciali, collane, anelli e quei lunghi capelli neri e quelle labbra disegnate.

Cerco di guardarla un po’ ma gli occhi mi si chiudono di nuovo.

Navigo per un attimo in palazzi sontuosi, boschi pieni di canti d’uccelli e fiumi, tutto è abbondante, tutto è misterioso, fertile, rigoglioso, forse ingannevole, forse no, poi finalmente è il buio.

Lei era oscurità e luminescenza, l’indefinito confine fra luce e ombra, prima di scivolare via sulle ali del desiderio.

Emanava danza stando immobile sulla sedia, le esili gambe accavallate, lo sguardo lanciato qua e là a carpire il segreto della notte.

Non so quanto sia durato tutto questo.

Un secondo, qualche mese, anni, forse solo il tempo di un respiro mentre stava in silenzio e poggiava il viso sulla mia spalla, su una panchina, il tintinnio continuo delle stelle sulle vele delle barche.

Rotto il silenzio, parlavamo e ridevamo per lunghi attimi sospesi e il cuore mi batteva forte sul petto scandendo il ritmo del mio sangue in sincrono con il suo. Capivo e pensavo al ritmo originario da cui son scaturiti il mondo, l’universo, tutto ciò che esiste, è esistito, esisterà- la progressiva separazione dal Tutto, il desiderio di tornare al Tutto.

Qua dentro, al confine fra separazione e desiderio, era già scritta la storia del nostro perderci e trovarci, l’infinita ricerca e l’infinita distanza, essere uno dentro l’altro ed essere lontani anni luce, dispersi nello spazio vuoto.

Non so più quanto tempo sia passato, se mai siamo stati insieme, se mai ci siamo sentiti uno nell’altro, uno dentro l’altro, uno per l’altro.

Tutto ora sfugge dalle mani, faccio fatica ad afferrarlo, cambia forma, non c’è modo di capire di quale sostanza fosse fatto.

Di quale sostanza son fatti i sogni?

È l’alba di un tempo nuovo. Nel petto una voragine, come se qualcosa fosse stato letteralmente asportato. Qualcosa c’era e ora non c’è più.

Ho un groviglio di ricordi sfavillanti e cupi, un odore pungente, morbido, rotondo di mare e muschio, silenzio, musica appena percettibile oltre l’orizzonte.

Non so più che nome dare a tutto questo.

Il mondo crolla e allo stesso tempo assume una sua forma definita, per qualche istante tutto si rivela essere un gioco continuo di forze contrastanti.

Istanti, certo, istantanee di istanti a sé stanti.

Nel petto, però, una voragine.

Dove sei?

Quale forma hai assunto, adesso?

Sei felice? Hai trovato ciò che cercavi?

Splendi ancora al confine, prima stella del tramonto e ultima prima dell’alba?

Spesso, negli infiniti pomeriggi d’estate sotto il grande albero del giardino, quando il sole assassino invitava a stare all’ombra e non fare nulla e tutto il paese si divideva fra chi stava lavorando nelle industrie nonostante l’arsura e chi invece languiva in spiaggia a cuocersi la pelle, parlavamo di pirati.

Quegli uomini così crudeli, segnati dall’esistenza precaria e pieni di cicatrici, bende sugli occhi e moncherini d’acciaio, ci affascinavano e spaventavano allo stesso tempo ma il fascino era troppo magnetico per fermarsi di fronte alla paura. Anzi, la paura faceva parte di quel fascino.

La sera poi andavamo a cercarli ovunque, arrampicandoci con le bici fra le scogliere a picco sul mare e rischiando di cadere rovinosamente, là dove non si scorgevano più neanche le villette del villaggio e tutto poteva somigliare davvero a una remota isola dimenticata dei Caraibi.

In certe notti d’inverno, dopo cena, quando la spiaggia era deserta e la vita collettiva ridotta la minimo, mi sedevo sugli scalini che scendevano verso il mare e aspettavo. Sentivo il rumore delle onde e la sabbia era così scura da ingoiare la luce dei lampioni lì attorno. Nei giorni di plenilunio era un perfetto quadro piratesco: la luna al centro e i suoi sentieri luminosi e tremolanti sul mare profondo; a sinistra, arroccata sulle rocce, la torre spagnola; a destra grandi scogli che nell’oscurità fitta assumevano sembianze di animali, giganti, guerrieri, custodi e quant’altro.

Io stavo lì, sugli scalini, e aspettavo perché avevo seriamente intenzione di chiedere ai pirati di portarmi via con loro in qualche sanguinosa avventura crudele che mi lasciasse vita e cicatrici.

Una volta vidi una scena davvero strana.

Una piccola forma scura navigava lungo il sentiero proiettato dalla luna sul mare, proprio davanti a me. Quando fu abbastanza vicina, vidi che era una piccola imbarcazione di legno verde scuro. Al centro, un uomo osservava davanti a sé con una lanterna. Arrivato a riva, l’uomo scese sulla sabbia e altri due uomini, improvvisamente materializzatisi dal ventre della barca, balzarono anch’essi giù reggendo delle casse. L’uomo risalì, fece un saluto e riprese il sentiero al contrario, verso la luna. Gli altri due personaggi invece si persero nel buio fitto della spiaggia trascinando le loro casse e non ebbi il coraggio di seguirli. Per tutta la durata della scena non mi ero mosso di un millimetro dallo scalino e respiravo appena.

Non so se fosse il mio desiderio ad essere diventato così forte da creare quella visione o se semplicemente avessi assistito a uno sbarco di contrabbandieri o ancora più semplicemente di pescatori, ma in genere questi attraccavano al porticciolo e quelli non erano così ingenui.

Quando fui più grande, scoprii che i pirati avevano davvero vissuto fra quelle spiagge e quelle rocce, centinaia e centinaia d’anni prima, da qualche parte e ovunque, e la torre spagnola fu costruita proprio per difendere la tonnara dagli attacchi dei corsari.

Noi eravamo sicuri che questi esistessero ancora, nascosti sotto le spoglie di marinai e pescatori. Ci creammo questa leggenda e poi come sempre finimmo per dimenticarci d’averla inventata e così, per noi, diventò certezza storica. Come era certezza storica, per noi, che i pirati se ne fregassero di tutto e andassero solo in cerca di fortuna senza scendere a compromessi con nessuno, neanche con la vita. La sfidavano di continuo, la vita, per cercare di spremerne il succo come un limone. Non avevano confini, se non quelli fra mare e terraferma, e questa era solo un attimo di respiro prima di rituffarsi nel flusso dell’oceano e della vita. Visitavano posti fantastici di minareti e moschee luccicanti, sfidavano le tempeste, bestemmiavano, stavano sempre sotto il sole incandescente e avevano perciò la pelle secca e riarsa e i capelli intrisi di sale.

Insomma, erano le nostre divinità solari, formate sugli elementi culturali e storici che la nostra società ci forniva ed essendo divinità potevano fregarsene del bene e del male.

Bene e male, in fondo, non sapevamo ancora cosa fossero esattamente, tutti spiegavano e cercavano di costringerci a capire ma a noi quei discorsi sembravano sempre bolle d’aria fritta e ci riservavamo la possibilità di sospendere il giudizio e fare solo quello che la nostra fantasia o il nostro istinto ci suggerivano. Spesso erano consigli disordinati e forieri di sventura ma questo non ci importava, era il prezzo da pagare.

La vita era vita e basta, giusta o sbagliata che fosse.

Questo erano per noi i pirati.

“Questa è la soluzione della lettura” fa lei indicandomi una delle carte poggiate in terra.

“Bella. Bei colori.”

“Cosa ti dice?”

“E me lo devi dire tu…”

“Guardala bene.”

“Sembra triste.”

“Triste? Guardala meglio” fa lei fissandomi negli occhi.

“Ti assomiglia.”

“Ma che dici?”

“Lo sguardo…”

“Dai…”

“Sì, ti assomiglia.”

“E smettila. Cosa ti dice?”

“È malinconica.”

“Ecco, così va meglio.”

“Quindi è triste, no?”

“Non è la stessa cosa.”

Nella stanza a fianco, separata da un esile muro, la bionda israeliana sta imparando ad accordare il Sitar, una lunga operazione fra lo scientifico e il meditativo, un numero esagerato di corde e chiavette che scricchiolano quando vengono girate e si sente l’israeliana imprecare nella sua lingua madre mentre le note sbilenche superano l’esile muro e arrivano appena attutite nella nostra stanza. Fanno pensare a un elastico o a un’altalena.

“Dici?”

“Certo. Una cosa è la tristezza, una cosa la malinconia” fa lei con tono deciso.

“In che senso?”

“Beh, io posso essere triste per qualcosa che è finito o morto o che ne so…”

“Certo.”

“La malinconia è un’altra cosa. Non ha una forma.”

“Uhm.”

“Certo. È una sensazione senza forma. È la mancanza di qualcosa che non si capisce cos’è” fa lei sempre più decisa.

Rimango un po’ a pensare.

Ora che l’israeliana ha deciso di fare una pausa e ha smesso di imprecare nella sua lingua madre, arrivano grappoli di melodie persiane cesellate dall’iraniano che sogna chiuso nella sua stanza, l’unica rialzata dell’ostello, l’unica a cui si accede grazie a degli scalini. L’iraniano è sempre vestito da perfetto indiano e la sua stanza è piena di sacchetti di frutta secca disseminati lungo tutto il perimetro, sulle mensole, negli angoli, a fianco al letto. Sostiene di sentirsi a casa a Benares perché la città sacra gli ricorda il mondo da cui deriva, quello che la sua città, Teheran, ha rimosso nel nome della modernità. Almeno, così sostiene.

“Guardala bene” fa lei spezzando quell’attimo sospeso, “non è triste, è malinconica.”

“E perché getta l’acqua nel fiume?”

“Sta versando sé stessa nel fiume.”

“Perché un vaso d’oro e uno d’argento?”

“Non vuole trattenere nulla.”

“Per questo è malinconica?”

“Certo. Sa che lo deve fare e lo fa.”

“Ma perché lo deve fare?”

“Se tu trattieni le emozioni come fossero un tuo tesoro, ti fai del male.”

“Dici?”

“Certo. Le tue emozioni non sono tue, è solo un fiume che ti attraversa e le devi rendere al fiume.”

Di nuovo sto zitto e penso.

Insieme ai grappoli di melodie persiane, da fuori adesso arriva il suono delle voci dei bambini indiani, devono aver finito di cenare e giocano strillando incontrollabili come sempre. I francesi, come al solito, sono intenti a friggere qualche verdura nel burro chiarificato in cortile, lo si intuisce dall’odore acido che penetra dallo spazio libero sopra la porta della nostra stanza.

“Guarda bene” fa lei a ritmo con tutto questo, “sopra di lei ci sono le stelle. Che fanno le stelle?”

“Brillano?”

“Sì. E poi?”

“Tremano?”

“Certo. Poi?”

“Girano?”

“Ecco, girano. Ruotano.”

“Vorticano?”

“Esatto. Girano, ruotano, vorticano. Si muovono sempre per tornare sempre allo stesso punto” fa lei mimando il movimento con le dita.

“Come il fiume? Sempre uguale e sempre diverso?”

Lei sorride. Quando sorride tutto diventa acqua che scorre.

Ora lo svedese, che ha la stanza in fondo davanti al cortile, suona un ritmo con le Tabla, sempre lo stesso ritmo, uguale e identico a sé, perfettamente metronomico si interseca in maniera bizzarra e asimmetrica con i grappoli di melodie persiane creando una musica straniante e irregolare.

Per un attimo si sente di nuovo una nota sbilenca e una chiavetta scricchiolare, lo scricchiolio diventa un brutto rumore di qualcosa che sta per spezzarsi e l’israeliana impreca ancora più forte, si sente il rumore del Sitar poggiato in terra senza grazia e infine il rumore della porta che si apre, dei passi veloci, poi nulla più.

“Tutto scorre” dice lei con dolcezza, “tutto si muove e torna al punto di partenza.”

“E questo che c’entra con la malinconia?”

“È un sacrificio. Sacrificare sé stessi, le proprie difese, l’idea di sé e la propria importanza, tutte cose che alla fine ci incasinano ma a cui rimaniamo aggrappati manco fossero la cosa più importante che abbiamo. Non è facile lasciar andare tutto al fiume, per questo è malinconica.”

“Ama il fiume ma non può possederlo?”

Lei ora mi guarda perplessa.

“Certo che lo ama” fa dopo un po’, “ama di poterlo amare, ama anche di dover soffrire, ama tutto perché ha capito.”

“E cosa ha capito?”

“Che non c’è nulla da capire. Solo lasciar andare” fa infine e si sdraia sulla stuoia nel pavimento, proprio sotto il grande ventilatore.

Improvvisamente il tempio lì dietro emana un canto antico e penetrante diffuso nell’aria da casse scadenti, una voce maschile nasale presto accompagnata da un’altra femminile troppo acuta e tutto il resto ammutolisce e scompare.

Dura poco, qualche minuto, ma subito dopo subentra il Muezzin che dalla moschea inizia un canto a dire il vero estremamente affascinante, un filo di perle che si dipana nell’aria, perla per perla, fino al silenzio.

Stavolta è solo un leggero suono di canne sbattute dal vento, il vociare lontano delle strade di Benares, ancora vento.

“Sei una creatura del fiume?” chiedo infine guardando un po’ lei, un po’ il suo corpo svizzero e un po’ la carta in terra.

“Sì” dice senza neanche aprire gli occhi, “mi hai scoperto.”

“Quindi non è vero che vieni dai monti e dalla neve?”

“Perché nei monti non ci sono i fiumi?”

“Hai ragione. E da quale fiume vieni?”

“Da lì.”

“Ti ho riconosciuto.”

“Anche io.”

“Ci siamo riconosciuti.”

“Spegni la luce.”

Click.

È una sorpresa continua. È riuscire a mantenere vivo lo stupore, il bambino e il vecchio presi per mano.

È l’avventura, certo, soprattutto l’avventura. È non aver timore dell’ignoto ma anzi amarlo come un pezzo di ferro ama la sua calamita.

È guardarle in faccia, le paure, viverle e accettarle e affrontarle, farle diventare stimolo e azione.

È azione, prima di tutto, ma anche la quiete che segue l’azione, il loro giusto equilibrio, ognuno al momento giusto, ognuno con il suo spazio.

È superare ogni volta il muro e spostare più in là il confine che ci separa dall’espressione piena di noi stessi.

È una battaglia, una dura battaglia senza fine, questa amata dannata vita degna d’esser vissuta.

A volte la stanchezza scende nel cuore e si vorrebbe solo una normale tranquillità, a volta vale la pena leccarsi le ferite o semplicemente annoiarsi prima di rimboccarsi le maniche e iniziare di nuovo a lottare.

Grandi sfide portano a grandi traguardi e nessun traguardo è più grande della felice serenità colma di vita, la più difficile di tutte le battaglie, quella più mortale- tanti cadono sul campo, glorificati o dimenticati, non importa.

Pochi ci arrivano infine e guardandosi indietro vedono la propria esistenza come una pellicola o una sceneggiatura ben scritta, interessante, stimolante, piena. Sorridono e ringraziano prima di partire per l’ultimo viaggio, quello definitivo, forse.

Chi ha vissuto una vita degna d’esser vissuta, sorride di fronte alla morte.

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