FORSE UNA DOMENICA di Giovanni Barbieri

Corro nel prato pieno di fiori tra l’orto e il fosso dei gamberi e saltello freneticamente per non calpestarli.

Ma è un sogno, mi sveglio di soprassalto, sento frinire le cicale anche se è novembre ed è così per quasi tutta la notte.

È presto, anticipo anche il gallo. Mi alzo, apro la finestra e gli lancio un moccolo di candela che lo fa sobbalzare e frullare nervosamente le ali. Poi mi guarda indignato e inizia a cantare di malavoglia.

Qualcosa si muove, sento rumori e voci sommesse provenire dalla cucina: mi sa tanto che i preparativi per il pranzo della domenica stanno per iniziare.

Allora vado in bagno, mi lavo la faccia e le ascelle. L’acqua è talmente fredda che mi tremano anche le gambe. Poi prendo i vestiti ghiacciati che avevo preparato la sera prima sulla poltrona e indosso le cose più eleganti che ho, sembro un damerino, con la brillantina di mio papà in testa.

Scendo le scale ballando e guardo attento i jeans e le scarpe nuove. Sembra stiano bene, do una sbirciatina allo specchio e mi sento sicuro di me o quasi.

La sala da pranzo è lustra come non mai. Il tavolo con la tovaglia della festa e i tovaglioli di panno bianco è tozzo e vecchio e le sedie, una diversa dall’altra, stanno in piedi per miracolo.

Vado in cucina, la colazione stamattina si fa lì perché sedersi al tavolo della sala è tassativamente proibito. Mi siedo educato e silenzioso e inizio a inzuppare i biscotti nel latte; mia mamma si gira, mi guarda per bene e senza dire una parola mi sorride soddisfatta.

«Billy, spostati di lì! Giacomo, quando hai finito, va’ a prendere altra legna. E tu papà, basta, sei sempre il solito!», dice mia mamma un po’ arrabbiata.

Mio nonno, già un po’ brillo, si fa un goccetto mentre finge di disporre al meglio le bottiglie di vino sul tavolo e ridacchiando mi fa:

«Eh, le donne, Giacomino, sono buone per far carnazza e me lo fa capire con un gesto del braccio».

Io e Billy, ubbidienti, corriamo a perdifiato verso la legnaia della cascina spersa nella pianura: è il mio mondo e il cielo è il suo unico mistero.

Oggi è domenica, dicevo, e per il pranzo arriveranno tutti, anche gli zii dalla città. Mi pare già di sentire il rumore delle macchine fare il loro ingresso nell’aia. Ci sarà anche lei e per l’agitazione non riesco a stare fermo.

La felicità è che ci siamo tutti, seduti rumorosamente uno accanto all’altro: mio nonno a capotavola, i miei, mia sorella Martina, i miei zii, mio cugino Marco e poi lei, mia cugina Roberta, della quale sono segretamente innamorato.

Mentre fuori non nevica ancora, il brodo di gallina fumante con gli anolini di magro appanna gli occhiali di mia sorella. Nessuno ci fa caso e mi ritrovo a ridere da solo.

Sono tutti impegnati a mangiare, le voci e i rumori delle stoviglie sono assordanti. Io invece sono distratto, con la forchetta giochicchio con l’insalata e guardo lei. Quando i nostri sguardi si incontrano il cuore mi va in gola, i rumori e le voci si spengono di colpo: rimaniamo solo noi e tutto il resto è indefinito.

«Giacomo, insomma, a cosa pensi sempre? Ho un figlio poeta, vedeste che belle frasi scrive! La sua insegnante lo adora, dice che non è adatto per i lavori dei campi, che dovremmo farlo studiare, il mio angelo!».

«Mamma, dai…»

«Oh, ma guarda, è diventato rosso come un pomodoro, povero…»

Per fortuna, a distogliere gli sguardi puntati su di me ci pensa mio nonno con una delle sue battute sporche.

Non la finiscono più di bere e di mangiare, e io non ne posso più di stare a tavola.

Dopo un po’ mi alzo imbronciato e vado a sedermi sul divano sfondato accanto a mio nonno che ronfa come una locomotiva; lo guardo, ha una faccia buffa, i baffi vanno su e giù, le guance rosse e un rivolo di saliva gli esce dalla bocca semiaperta. Alzo gli occhi e incrocio i suoi che mi sorride dolce.

È un angelo!

Si avvicina timidamente e mi dice:

«Ce lo mangiamo fuori sotto il portico il panettone?», e nessuno bada a noi mentre usciamo e andiamo a sederci sulle scale che portano alle camere.

«Davvero scrivi poesie? Mi piacerebbe tanto leggerle.»

«Ma no», dico balbettando, «sono solo frasi scritte così per gioco, mia mamma esagera sempre».

Mi sento agitato e guardo imbarazzato la mia fetta di panettone.

Dopo un’eternità rialzo la testa e lei mi sta guardando.

Rimango immobile col mio piatto sulle ginocchia mentre inizia a nevicare, o almeno credo. Lei si alza lentamente, mi prende la mano e le risate e le voci della casa piano piano si allontanano.

Camminiamo stretti uno accanto all’altra verso le stalle.

La neve scende più fitta e i nostri passi sono sempre più silenziosi: stiamo scappando, paurosi e tremanti come due esploratori inesperti.

Entriamo nella stalla, le mucche mangiano tranquille e ci guardano con distacco. È caldo e non si sentono rumori. Un film muto, in bianco e nero, tranne i suoi occhi.

«Non parlare…»

Mi stringe forte la mano, mi guarda con intensità.

Dalla finestra si vede la neve scendere, è uno schermo bianco, la casa non esiste più. Il mondo qui è un altro, lontano dal fragore. Le nostre mani sono sudate e strette mentre saliamo le scale: il legno scricchiola, ma con dolcezza per non disturbare. Sono cieco, sento solo l’odore del fieno.

«Mi dai un bacio?»

Abbracciati scivoliamo lentamente sulla paglia che è un tappeto morbido, forse un letto accogliente.

Ho paura, sono impacciato, le nostre bocche si avvicinano, le labbra si aprono un po’ di più e la mia lingua sfiora con innocenza la sua. La bocca è umida e calda, il respiro aumenta, un vento forte fa vibrare le finestre.

Tremando le sfilo la felpa e infilo la mano inesperta nel reggiseno azzurro. Sono confuso, le bacio i capezzoli, le orecchie fischiano.

«Non parlare…»

Il bacio ormai si allaga.

Come uno stupido esploratore in trance le accarezzo la pancia. Le dita impaurite toccano i peli appena accennati del suo pube, il profumo delle sue mutandine azzurre è sempre più intenso.

Siamo sudati, la cintura si sfila, i jeans sono ormai alle ginocchia.

Ora è la sua mano a indagare il mistero: la sento, è calda, mi tocca e fa quasi male.

Ci stringiamo più forte, il mio sesso contro il suo, fa troppo caldo.

«Non parlare…»

Il respiro impazzisce, le labbra tremano.

Sono in agonia: gli occhi sbarrati, la bocca spalancata, lei mi prende, io l’abbraccio più forte, i nervi si tendono, il dolore è un attimo, la vita corre, siamo perduti. Poi i corpi esplodono, lei mi chiama, io la imploro, e i nostri gemiti si perdono lassù nel paradiso inventato.

Un forte rumore ci sveglia di colpo, ci hanno scoperto, penso subito.

Ma, una voce metallica manda in mille pezzi la scena:

«Che cazzo ci fai ancora qui, barbone di merda? Quante volte te l’ho detto che qui non ci puoi stare?! Ma ora basta, ti porto all’ufficio della Polfer, così ti sistemano una volta per tutte!».

Penso svagato a testa bassa mentre un agente incazzato nero mi sputa in faccia la sua rabbia e il suo disprezzo in un ufficio buio della stazione centrale.

Ma oggi è Natale, non vogliono altre seccature e a spintoni mi cacciano via.

Nevicava ormai da giorni. La neve ricopriva le strade e gli alberi come la polvere ricopre le cose.

“Dove potevo andare? Dove poteva andare uno come me?”

E allora, trascino meccanicamente la mia ombra ancora là nella catapecchia abbandonata tra i binari e i pali arrugginiti dell’elettricità.

Apro la porta, il tavolo è tozzo e vecchio e le sedie stanno in piedi per miracolo.

Fa un freddo boia, mi butto sul divano mezzo sfondato e inizio a bere.

A metà della seconda bottiglia scivolo lentamente di lato e appoggio dolcemente la testa sulla spalla di mio nonno. Piango, chiudo gli occhi pregando forte che non si riaprano più e vedo la neve scendere, è uno schermo bianco, la casa non esiste più.

Le nostre mani sono sudate e strette, sento solo l’odore del fieno.

«Mi dai un bacio?»

Ci hanno scoperto, penso subito. Ci guardiamo terrorizzati, in fretta ci ricomponiamo e strisciamo senza fare rumore fino al parapetto del fienile. Di sotto, nella stalla, mio padre sta mostrando agli zii il nuovo sistema di mungitura e i vitellini nati da pochi giorni. È orgoglioso, ha il viso paonazzo e parla muovendo freneticamente le mani. Gli altri ascoltano un po’ distratti guardando qua e là e tirando delle grandi boccate di sigarette.

Mi sembra di sentire chiamare in lontananza il mio nome:

«Roby, dobbiamo muoverci, se salgono siamo veramente nei guai!»

Lei ha paura, forse più di me, e sembra sul punto di piangere.

«Vieni, andiamo verso quella finestra laggiù.»

Le prendo la mano e camminiamo accovacciati strisciando i piedi per non fare rumore fino alla finestra.

La apro, fortunatamente c’è un cumulo di sabbia ricoperto dalla neve proprio sotto.

«Dai, possiamo tranquillamente saltare, non ci faremo male».

La prendo e la aiuto a sedersi sulla soglia. La sorreggo con le mani sotto le ascelle e la faccio scendere. Poi accosto la finestra e con un balzo sono accanto a lei.

«Siamo salvi», le dico, e con sollievo rivedo un accenno del suo sorriso.

«Facciamo così, andiamo alla legnaia e prendiamo un po’ di legna ciascuno così abbiamo la scusa giusta, un alibi perfetto per giustificare la nostra assenza.»

Lei ride un po’ di più e mi dice:

«Corriamo in fretta, mi sembra un’ottima idea, sei un genio!»

Ci carichiamo un po’ di legna a testa e guardandoci in modo complice ci incamminiamo verso la casa cercando di affrettare il passo il più possibile.

Trionfanti, corriamo sotto il portico, ci avviciniamo alla porta e con il gomito faccio pressione sulla maniglia.

Entriamo, il tavolo è sparecchiato e stanno giocando a carte; sono talmente presi che non ci degnano di uno sguardo. Mio cugino Marco invece ci guarda in modo strano, quasi severo, ma poi si rituffa nel suo libro scuotendo leggermente la testa.

Mettiamo la legna nel cesto accanto alla stufa, ma è già pieno e alcuni ciocchi cadono per terra. Che non fosse necessaria altra legna è evidente.

«L’abbiamo scampata», dico a voce bassa e Roberta abbassa gli occhi e respira profondamente. Intanto alle nostre spalle mia mamma e mia zia si sono affacciate alla porta della cucina e ci stanno osservando da un po’.

«Che fine avete fatto voi due, vi abbiamo chiamati un sacco di volte.»

«Roby puoi venire qui un attimo?», dice mia zia.

Io rimango immobile e la guardo mentre se ne va quasi saltellando verso la cucina. Ho

l’impressione che qualcosa non torni…

La porta si chiude sbattendo forte, il tono della voce si alza e d’improvviso il rumore di uno schiaffo fa tremare il vetro.

La sua felpa messa al rovescio non era passata inosservata.

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