INSOLITI RITRATTI di Gaetano Gaziano

genere: UMORISTICO

 28 racconti su fatti ignoti di personaggi noti

AGOSTINO E MONICA, SANTI CONFLITTUALI

«Mamma, perdonami se te lo dico, non puoi ossessionarmi con la tua presenza!» Agostino d’Ippona si sfoga così con la madre Monica nel loro incontro a Milano nell’anno del Signore 385.

«Perché mi dici queste cattiverie, Agostino? Mi fanno molto male!»

«Mamma, so bene che tu lo fai per amore, ma ti ricordo che ho trentun anni e posso fare da solo! Io mi trovo benissimo qui a Milano dove mi hanno pure affidato la cattedra di retorica.»

«Ma come puoi rimproverarmi di assillarti con la mia presenza se è da due anni che non ci vediamo, da quando sei partito dalla Numidia per venire a Milano?»

È vero, ma se non ti avessi lasciata a Cartagine con uno stratagemma, tu mi avresti seguito e a me non faceva molto piacere.»

«Con quella tua trovata mi hai procurato un dolore immenso. Sono stata a piangere un giorno intero e una notte sulla tomba di San Cipriano.»

«Perdonami, mamma. Ma sentivo il bisogno di staccare con il passato e di intraprendere una mia vita autonoma. La tua non era esattamente una presenza discreta.»

«Ti ricordo che il dovere di una madre è quello di vigilare a che i figli crescano sani fisicamente ma soprattutto eticamente.»

«D’accordo, mamma! Ma non credo di averti dato particolari motivi di preoccupazione per ciò che riguarda la mia condotta morale.»

«Non si può certamente affermare che eri messo sulla buona strada. Ti ricordo la birbacciata del furto delle pere.»

«Mamma, sempre a rimproverarmi ‘sto furto delle pere. Si è trattato della bravata di un ragazzino appena sedicenne che ha voluto provare, con alcuni coetanei, il gusto della trasgressione ma di cui mi sono abbondantemente pentito.»

«Ma questo è il meno!»

«Cos’altro mi rimproveri, mamma?»

«Be’, da quindici anni vivi con una concubina.»

«Guarda che Corinna* è la mia compagna. Viviamo onestamente, mi ha dato anche la gioia di essere padre di uno splendido bambino che abbiamo chiamato Adeodato, dono di Dio.»

«Ma tu devi vivere cristianamente e, come ogni buon cristiano, devi aspirare alla santità. E il tuo non mi sembra il percorso giusto!»

«Mamma, magari tu sarai fatta santa. Io non ho di queste aspirazioni: per me è importante vivere nel rispetto delle leggi dello Stato romano e dei precetti morali che mi detta la coscienza.»

«Non basta! Ti invito, anzi ti supplico di battezzarti.»

«Te lo ripeto, mamma: per me è regola esistenziale imprescindibile comportarsi correttamente. Per fare ciò il battesimo non è necessario!»

«Che dici mai, figlio mio? Con il battesimo si riceve la grazia di essere purificati dal peccato originale. Ti consiglio di parlarne con Ambrogio, il vescovo di Milano.»

Agostino aderì all’invito della madre a incontrare Ambrogio, con qualche riluttanza però. Non aveva un buon rapporto con lui. Al suo arrivo a Milano gli era stata affidata da Quinto Aurelio Simmaco, praefectus urbi, la cattedra di retorica proprio al fine di contrastare la fama e il carisma del vescovo che non era ben visto nelle alte sfere imperiali.

Pertanto, si recò abbastanza scettico all’incontro con il vescovo.

«Benvenuto, caro Agostino, era da molto che aspettavo questo incontro con te» Ambrogio lo accoglie con un largo e disarmante sorriso nella sede vescovile.

Agostino, sorpreso dal fare inaspettatamente cordiale del vescovo, deve ammettere: «Anche a me fa piacere incontrarti.»

«Tua madre mi ha espresso la sua viva preoccupazione per la tua indecisione ad abbracciare la religione cristiana e ad essere battezzato.»

«Vedi, caro Ambrogio, sono tormentato dalla ricerca continua della verità e delle ragioni della nostra esistenza. Mi sono a lungo interrogato. Ho studiato filosofia, astronomia, medicina, mi sono confrontato con studiosi autorevoli di queste discipline, ma non sono soddisfatto dell’esito di questi confronti. I miei dubbi permangono sempre e non credo che la religione cristiana possa aiutarmi a dissiparli perché si fonda su dogmi di fede e non su basi razionali.»

«Caro Agostino, potrai studiare interi trattati di filosofia, seguire le teorie dei neoplatonici che oggi vanno tanto di moda ma non arriverai mai alla verità!»

«Perché, Ambrogio?»

«Perché, mio caro, non è l’uomo a trovare la verità, ma deve lasciare che sia la verità a trovare lui. La verità è una persona: è Gesù Cristo, il figlio di Dio!»

Agostino è incantato dalle parole semplici ma intense ed incisive del vescovo e ne resta commosso e coinvolto.

Dopo qualche giorno di riflessione e di sofferta meditazione, torna dalla madre: «Mamma, ho avuto un lungo e proficuo colloquio con il vescovo Ambrogio. E’ un sant’uomo. Mi ha convinto. Mi ha pure concesso l’onore di battezzarmi personalmente. Oggi sono un nuovo catecumeno della Chiesa cristiana anche se sono un po’ triste.»

«Perché mai, Agostino?»

«Corinna ha deciso di tornare in Numidia.»

Corinna lasciò Milano, promettendo che sarebbe tornata. Ma non fece mai più ritorno.

Non si può escludere che dietro la sua decisione ci sia stato un “miracoloso” intervento della madre Monica, all’insaputa di Agostino.

* Il nome Corinna è di fantasia, perché Sant’Agostino, pur parlando della sua compagna nelle Confessioni, non la nomina mai.

CARLOMAGNO, IMPERATORE E PADRE PADRONE

Carlomagno, oltre ad essere stato il fondatore e il primo imperatore del Sacro Romano Impero, si adoperò molto a popolarne personalmente i territori.  

Ebbe cinque mogli ufficiali e un numero imprecisato di concubine che gli assicurarono una numerosa prole. Diciotto figli conosciuti e una miriade di figli ignoti.    

Delle figlie fu gelosissimo e pretese che non si sposassero mai. Volle che abitassero sempre con lui, ad Aquisgrana, e le conduceva sempre con sé nei vari spostamenti, anche nelle località più lontane dell’impero.      

Tentò di imporre loro uno stile di vita morigerato. Ma, al riguardo, non poteva rappresentare, di certo, un riferimento morale, date le numerose relazioni extraconiugali che intratteneva sia a corte che fuori.     

Infatti, le figlie, che avevano la stessa natura esuberante del padre, le piccanti scappatelle se le concessero allegramente con cavalieri, dignitari e menestrelli di corte e, al padre, non restava altro che chiudere non uno ma entrambi gli occhi, perché una sua eventuale reazione punitiva si sarebbe ritorta a disdoro della famiglia reale.

Divenne, però, intransigente dopo l’episodio che minò il prestigio dell’impero: la disfatta del prode Orlando a Roncisvalle per mano degli odiati musulmani. *    

Era cupo e intrattabile. Introdusse nuove rigorose norme di comportamento a corte, dirette anche alle figlie incolpevoli, peraltro, del disastro militare.      

«Ma padre, che colpa abbiamo noi della sconfitta contro i saraceni?» si lamentarono loro.    

«È colpa anche del generale rilassamento dei costumi a corte,» replicò Carlo Magno, «che influenza negativamente la vita all’esterno del palazzo, con infiacchimento delle virtù, anche di quelle militari!»     

«Padre, è una pietosa bugia per non ammettere i vostri clamorosi errori nella conduzione della guerra agli infedeli! E poi da che pulpito viene la predica…»      

Carlo Magno inghiottì amaro, perché la reprimenda gli arrivava da Berta, la figlia prediletta, che portava, tra l’altro, il nome della madre adorata, Berta di Laon.   

«Basta! Ho deciso di riformare completamente l’organizzazione sociale e amministrativa dell’impero, basandola anche sulla rigorosa osservanza dei precetti morali della Chiesa cattolica. Sono o non sono l’Imperatore del Sacro Romano Impero, incoronato a Roma da sua Santità, Papa Leone III?»     

«Cambia tutto,» continuò, «anche nella vita di corte, soprattutto nella vita di corte, per dare il buon esempio alle popolazioni che noi amministriamo nei nostri sterminati territori. A partire anche dai miei comportamenti (e qui era consapevole di mentire). A voi, o mie adorate figlie, ho riservato una vita serena lontana dagli affari di corte, sempre più complessi e articolati, incomprensibili alle donne. Ho pensato per voi ad un’esistenza fatta prevalentemente di preghiere, meditazioni, esercizi spirituali. Una soluzione che certamente vi troverà d’accordo e che gradirete: ho deciso che vivrete in convento: alcune in quello di Argenteuil, altre in quello di Faremoutiers.»      

«Padre, siete un crudele ipocrita. Io non andrò mai in convento!» lo rintuzzò Berta.      

«Il mio non è un desiderio. È un ordine dell’imperatore!»      

Berta trasgredì l’ordine del padre e fuggì ad Abbeville, nel nord della Francia, con il suo antico amore, Angilberto di Saint-Riquier, poeta della Schola Palatina, l’accademia di Carlo Magno, composta da letterati, filosofi e matematici.

Angilberto era stato chiamato a corte per deliziare le serate dell’imperatore e dei dignitari con i suoi componimenti, compito che assolse con particolare diligenza, deliziando soprattutto Berta, la volitiva figlia di Carlo Magno. Col tempo, il loro, era diventato amore autentico e non solo fugace passione.   

Prima di abbandonare, con il suo compagno, Aquisgrana, Berta scrisse un’accorata e commovente lettera al padre. O, meglio, la fece scrivere allo scrivano di corte, perché non aveva ricevuto un’adeguata istruzione, nemmeno quella di base per leggere e scrivere, com’era usanza diffusa nel Medio Evo di non istruire le fanciulle, per evitare che scrivessero lettere d’amore a persone invise alle famiglie di appartenenza.      

«Caro padre, scusatemi se non eseguo il vostro ordine di chiudermi in convento. Probabilmente ciò vi arrecherà qualche dispiacere, ma, sapendovi uomo di mondo, penso che, con il passare dei giorni, accetterete questa mia scelta e mi perdonerete. Ho deciso di seguire l’uomo che amo, Angilberto, perché l’amore è la cosa più importante sulla terra e voi lo sapete bene. La stessa decisione ha preso mia sorella Rotrude, di andare via, cioè, con l’uomo che ama, Rorico, conte di Rennes. La vostra volontà di condannare le figlie ad una vita monastica di clausura, scusatemi se ve lo dico, è incredibile, inspiegabile e malvagia. Mia sorella Rotrude e io abbiamo una visione diversa della vita, più umana e naturale, e seguiremo la nostra strada. Comunque, vi voglio tanto bene. Spero che anche voi continuerete a volermene. Vostra affezionatissima figlia, Berta.»      

Carlo Magno chiamò Liutgarda, l’ultima delle mogli ufficiali, le mostrò la lettera e gliela lesse, perché anche lei era analfabeta, come da tradizione, e affermò, desolato:     

«Vedi cara, cosa si guadagna ad essere un padre magnanimo?»

*La disfatta di Orlando, a Roncisvalle, avvenne in realtà per mano dei Baschi.  Per il mio racconto ho privilegiato la tradizione letteraria epica, scaturita successivamente all’episodio, incentrata sulla lotta tra Cristiani e Infedeli.

ANTONIO E FRANCESCO, SANTI ANOMALI

«Eu sou preocupado, io sono preoccupato, Francisco. Por favor, consigliami tu» si confidò, nel suo incerto italiano, frate Antonio con Francesco d’Assisi.

Antonio era un colto predicatore portoghese, si era formato a Coimbra, città universitaria. Conosceva bene il latino, oltre, naturalmente, al portoghese e allo spagnolo, ma stentava in italiano.

E, per uno che di professione faceva il predicatore, era un grosso handicap.

Dopo i successi avuti in Portogallo e in Spagna, era stato inviato dal Papa in Italia del Nord a predicare, ma veniva accolto ovunque tiepidamente.

A Rimini, considerata dal papato semi eretica, le sue prediche andarono deserte. I romagnoli, si sa, sono più attenti ai piaceri della tavola e, in generale, a quelli del buon vivere piuttosto che a quelli dello spirito.

«Allora, predicherò ai pesci» disse, con sfida, ai pochi astanti della sua ultima predica.

Si recò in riva al mare e parlò ai pesci che, numerosissimi, l’ascoltarono in religioso silenzio, leggermente affioranti dall’acqua.

Almeno, così raccontò in giro, di ritorno dalla predica.

Non era molto sicuro di avere convinto i riminesi.

Per questo motivo si risolse a chiedere consiglio a Francesco.

«Mio caro amico» gli disse Francesco, «il mestiere di predicatore non è facile. Bisogna avere carisma e tu, per quel poco che ti conosco, ne hai da vendere. Per essere ascoltati, però, non è sufficiente. Occorre che tu approfondisca il tuo incerto italiano, sennò hai un forte problema di comunicazione.»

Antonio lo ascoltava, attento, non potendo non subire il fascino dell’umile frate italiano.

«Basta solo questo?» chiese.

«Be’, un altro consiglio mi sentirei di dartelo.»

«Dimmi!»

«Tu sei una persona colta, il nostro pontefice Gregorio IX ti ha pure definito “esimio teologo”.»

«Grazie, Francisco!»

«Però, caro Antonio, quando predichi, non parlare di astrusi concetti teologici, altrimenti la gente non ti ascolta. Parla, piuttosto, di cose semplici: di sorella acqua, di frate sole, di sorella luna, di sorella morte.»

«Anche della morte?»

«Perché no? È la cosa più temuta dalla gente. Se tu gliene parli come ‘sorella morte corporale’ rinviando, dopo di essa, alle gioie celesti dell’anima, ti ascolteranno. Lo so, è un sistema consolatorio di approccio. Ma la gente, soprattutto la povera gente, di questo ha bisogno: essere consolata per le molte pene di questa vita terrena.»

«Sei muy convincente, Francisco!»

«E, infine, se mi permetti, per quanto riguarda il miracolo della predica ai pesci di Rimini, non metto in dubbio ciò che mi hai riferito, ma non devi essere tu a raccontarlo. Capisci: deve essere la gente a diffondere la notizia dei nostri miracoli, caro Antonio, altrimenti non siamo credibili.»

«Sono muy incantato dalle tue parole. Muchas gracias, fratello!» disse Antonio, abbracciando Francesco.

Forte dei suoi consigli, Antonio riprese a predicare.

Portò il Vangelo non solo in Italia, ma allargò il suo raggio di azione all’estero, anche tra popolazioni di fede musulmana, come del resto fece Francesco, in una coraggiosa opera di conversione al cristianesimo.

Oggi San Francesco d’Assisi e Sant’Antonio di Padova (Sant’Antonio di Lisbona per i portoghesi), sono venerati e amati in tutto il mondo, non solo cristiano.

Questo, che oggi sarebbe considerato un fatto anomalo dati i forti contrasti tra le diverse religioni che sfociano spesso in gravi episodi di terrorismo, ha una sola spiegazione: è stato recepito il loro messaggio universale di pace.

PETRARCA, IL CRITICONE

«Perdonatemi, Maestro, perché non vi piace Dante Alighieri? Ritengo la sua “Commedia” un’opera eccelsa, tanto che mi sono permesso di definirla “divina”. Voi siete poeta laureato, e un vostro apprezzamento sarebbe il suo riconoscimento ufficiale» osservò Boccaccio a Petrarca nel loro ultimo incontro a Firenze.

«Non discuto il Dante poeta, non mi piace il Dante politico, mio caro Giovanni. Fai bene a chiamare “divina” la sua “Commedia”. Anch’io la ritengo la massima espressione in lingua volgare, almeno fino al giorno d’oggi.»

«Cos’è che non vi piace del Dante politico?»

«La sua visione politica: è stata ambigua e ondivaga! Contrariamente a suo padre Alighiero, che fu un Guelfo ma in modo molto blando, tanto da non subire mai conseguenze per il suo schieramento, Dante si schierò apertamente con i Guelfi di parte bianca, ma riusci a scontentare tutti: Guelfi bianchi e Guelfi neri, con il suo comportamento filo Ghibellino, tanto è vero che, quando a Firenze prevalse la fazione dei Guelfi neri, venne condannato all’esilio, come i Ghibellini.»

«Ma siete d’accordo con me, Maestro, che Dante resta un grande poeta?»

«L’ho detto e lo ripeto: Dante è un grande poeta! E la tua ammirazione è legittima. Ma mi sembra, scusa se te lo dico, che esageri un po’, quando enfatizzi la sua vita.»

«Vi sembra che abbia esagerato, Maestro?»

«Be’, mi pare che avere messo in giro la storiella che la madre di Dante, Bella degli Abati, quando era in attesa del figlio, lo sognò cinto di alloro fin da bambino, se non ti sembra una esagerazione questa…»

È vero, Maestro, ma la mia finalità era quella di diffondere la sua opera.»

«E fai bene, Giovanni, ma non esagerare! Consentimi, nel contempo, di criticare Dante sotto il profilo della coerenza politica. Su questo aspetto sono intransigente! E se mi permetti, anche tu…»

«Lo so a cosa alludete, Maestro! A quelle maldicenze, che circolarono su mio conto, che volevano che io avessi partecipato a un tentativo di colpo di Stato qualche anno fa qui a Firenze, sol perché alcuni cospiratori erano amici miei. Ma ne sono uscito pulito anche se, per la verità, per diversi anni non ho ricevuto incarichi pubblici. È una storia vecchia, ormai archiviata!»

«Bisogna essere cauti, ai nostri giorni, caro Giovanni!»

«Grazie, Maestro! Ma, visto che siete stato così franco nel criticare, garbatamente d’accordo, il mio comportamento e quello di Dante in materia di coerenza, se mi permettete, anche voi…»

«Cosa intendi, Giovanni?»

«Maestro, voi da giovane avete preso gli ordini religiosi, ma ciò non vi ha impedito di avere alcuni figli naturali con delle anonime popolane. Ma al di là di questo che, tutto sommato, riguarda la vostra sfera privata, non si comprende bene la vostra presa di posizione pubblica nei confronti della Chiesa: da giovane eravate filo papista, da vecchio siete antipapista aberrato. Mi pare che nel vostro comportamento ci sia un deficit di coerenza, perdonatemi Maestro!»

«Touché! Come direbbero in Francia, dove ho vissuto per lunghi anni. Non posso negare ciò che dici, per quanto riguarda la mia vita privata, anche se ritengo innaturale e odioso il vincolo di celibato per i religiosi. Per quanto riguarda la mia posizione nei confronti della Chiesa, bisogna contestualizzare i due diversi momenti storici, mio caro Giovanni.»

«Vi ascolto, Maestro!»

«Da giovane, sono stato filo papista, come dici tu, quando, però la Santa Sede si trovava a Roma. Da quando è stata trasferita ad Avignone per ordine del dispotico re di Francia, Filippo il Bello, non ho smesso mai di criticare la vita corrotta della curia avignonese. Per anni ho risieduto ad Avignone e ho potuto toccare con mano gli abusi della corte papalina francese.»

«Non è che, però, le cose andassero meglio ai tempi di Bonifacio VIII, l’ultimo Papa romano.»

È vero! Ma, almeno, i pontefici romani erano liberi. Quelli che si sono succeduti sul soglio di Avignone, sono stati e sono tutti servi dei re francesi!»

«Voi, Maestro, avete fatto qualcosa per il ritorno della Santa Sede a Roma? Il vostro prestigio in Europa è grande e un intervento al riguardo potrebbe essere utile.»

«Ho scritto delle lettere accorate a Papa Benedetto XII, esortandolo a tornare a Roma. Non ho avuto riscontro. Più di questo cosa avrei potuto fare?»

«C’è, secondo voi, qualche speranza che la Santa Sede faccia ritorno a Roma?»

«Ho saputo che una suora domenicana, suor Caterina Benincasa da Siena, stia tentando, con il nuovo pontefice Gregorio XI, di fare il miracolo del ritorno della Santa Sede a Roma.»

«Pensate che ci riuscirà?»

«Mi risulta che è una tipa bella tosta. Avrà successo!»

GRAZIE, CATERINA

«Santità, voi dovete tornare a Roma, per il bene della fede cattolica, per il bene della Chiesa e per il vostro stesso bene!»

Suor Caterina Benincasa era arrivata ad Avignone da Siena, per perorare di persona il trasferimento della Santa Sede a papa Gregorio XI.

Gli aveva precedentemente inviato alcune lettere per lo stesso scopo, ma non aveva ricevuto risposta alcuna.

Lo aveva, pure, invocato come “Dolce rappresentante di Cristo in terra”.

Ai santi è concessa un po’ di piaggeria, se è finalizzata al compimento di miracoli, e il ritorno della Santa Sede a Roma sembrava proprio una “mission impossible”.

«Cara Caterina, ci sono pervenute molte sollecitazioni dal mondo cattolico per il nostro rientro a Roma. Tempo fa è pure venuta ad Avignone una colta suora francescana, una certa suor Brigida, dalla Svezia a supplicarci di tornare nella nostra antica sede romana, ma io sto bene ad Avignone!» le rispose, tranchant, il papa, che tra l’altro era francese.

«Sai bene quali furono le motivazioni storiche» continuò «che costrinsero i miei predecessori a spostare qui la Santa Sede. Non fu per un capriccio: troppe lotte intestine dilaniavano le famiglie nobili romane, ambiziose e avide di potere e denaro. E, a farne sempre le spese, era il pontefice di turno, fragile vaso di coccio tra vasi di ferro. Conoscerai certamente il triste e doloroso episodio chiamato lo ‘Schiaffo di Anagni’: papa Bonifacio VIII venne tenuto prigioniero nel palazzo del nobile Caetani dall’inviato del re di Francia, Filippo il Bello, complice anche il nobile romano Giacomo Sciarra Colonna. Fu per il coraggio degli anagninesi, che si ribellarono alla notizia del suo arresto, che il papa venne liberato e non fu tradotto prigioniero in Francia.»

Caterina si rese conto che non era facile smontare le argomentazioni del Papa, ma non si arrese.

Era una toscana tosta!

Fin da ragazzina aveva dimostrato di possedere un carattere deciso e risoluto. Rifiutò con forza, ad esempio, l’accordo dei genitori di darla in sposa, lei appena dodicenne, ad un agiato cittadino senese.

Ma quel papa Gregorio era un osso duro!

Caterina capi che, per farlo recedere dalla ferma intenzione di non lasciare Avignone, doveva usare argomenti forti.

Conosceva l’ammirazione che il Papa aveva per Francesco Petrarca, frequentato da giovane, quando il poeta italiano aveva soggiornato ad Avignone e lui era ancora un semplice canonico.

Aveva intrattenuto con Petrarca una fitta corrispondenza, anche dopo che il poeta italiano se ne era allontanato, indignato per la vita corrotta della curia papale.

«Sapete, Santità, il disprezzo che ha espresso Francesco Petrarca per la Chiesa avignonese?» chiese, risoluta, Caterina.

«So delle sue sollecitazioni a che la Santa Sede tornasse a Roma. So anche di alcune lettere inviate, a tal fine, al Papa avignonese Benedetto XII, un mio predecessore, ma ignoravo che si fosse espresso in modo così pesante nei nostri confronti e la cosa mi dispiace e mi addolora moltissimo, per la stima e l’affetto che nutro nei confronti di Francesco.»

«Addirittura, Santità, Petrarca ha coniato il termine “cattività avignonese” per definire la disastrosa esperienza della Chiesa di oggi, con riferimento alla ‘cattività ebraica’ di quando il popolo di Israele fu tenuto prigioniero in Babilonia. Senza mezzi termini, il poeta, che voi amate tanto, ha chiamato Avignone ‘l’empia Babilonia’ nella sua opera più conosciuta “Il Canzoniere”!»

«Davvero?» disse, scioccato, il papa.

Caterina aveva colpito nel segno!

Papa Gregorio programmò e attuò il non facile trasferimento a Roma in tempi ragionevoli.

Si imbarcò a Marsiglia, con tutti i cardinali francesi, alla volta di Genova, da dove avrebbero dovuto proseguire per Roma.

Giunti a Genova, però, si verificò un intoppo. I cardinali francesi del seguito, che non erano di certo felici del trasferimento, informarono il pontefice che erano giunte da Roma recenti notizie (inventate ad arte) che a Roma erano ripresi i violenti contrasti tra le potenti famiglie locali.

Il debole Gregorio decise allora di fare ritorno ad Avignone.

Caterina, che aveva accolto l’invito papale di accompagnarlo nel viaggio di trasferimento, consapevole che avrebbe potuto esserci qualche ripensamento, irruppe furibonda nella cabina papale del veliero pronto per far ritorno a Marsiglia.

«Santità, così facendo voi tradite le aspettative dell’intero mondo cattolico. Se siete un vero uomo, dovete tornare a Roma!» gli disse, mentre lo strattonava con forza.

E fu così che la Santa Sede, il 27 gennaio del 1377, fece solenne ritorno a Roma, dove, grazie al cielo, si trova ancora oggi.

P.S. Santa Caterina da Siena e Santa Brigida di Svezia sono state proclamate compatrone d’Europa. Queste due grandi donne e grandi sante rappresentano al meglio quello che dovrebbe essere lo spirito dell’Unione Europea.

IL CRUCCIO DI LEONARDO

«Perché sei così triste, Leonardo?» chiese Sandro Botticelli all’amico Leonardo da Vinci, con cui era a bottega dal maestro Andrea del Verrocchio da alcuni anni.

Botticelli aveva notato che, da diversi giorni, Leonardo era scuro in volto. Evitava i colleghi di bottega, senza un apparente valido motivo.

«Ti sbagli, Sandro» rispose, freddamente, Leonardo.

«Non me la racconti giusta!» insistette l’amico.

Messo alle strette, Leonardo sbottò: «Ho scoperto che in segreto mi chiamate ‘Leonardo il bastardo’.»

«Ma sono innocenti bischerate» tentò di rassicurarlo l’amico, non potendo negare che, a volte, lo avevano appellato in tal modo, per gioco senza malizia.

Magari, senza malizia, i talentuosi colleghi di bottega, come Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandaio e Pietro Perugino, avevano usato l’appellativo ‘bastardo’ per l’amico, solo tra di loro, però, e mai in pubblico, ma certo a Leonardo tutto ciò non poteva far piacere.

Anche perché lui era l’unico figlio non legittimo dei tredici figli che il notaio fiorentino, Piero da Vinci, aveva avuto da una relazione con una donna di bassa estrazione sociale, di nome Caterina, e questo gli pesava anche se il padre l’aveva accolto in casa propria e lo trattava come gli altri figli.

Si sentiva addosso questa differenza di condizione familiare e ne soffriva intimamente.

«Saranno pure bischerate» disse Leonardo, «ma voglio confidarti una cosa, caro Sandro,» continuò, rincuorato dalle parole dell’amico per cui nutriva un sentimento sincero di stima e di affetto, «temo che sia per questo pregiudizio che il maestro non mi ha ancora affidato un incarico importante dopo anni di bottega a disegnare anatomie, drappeggi e ghirlande.»

«Non lo penso proprio» lo rassicurò l’amico Sandro, «vedrai che prima o poi l’incarico arriverà.»

Botticelli non pensava che fosse il pregiudizio familiare sul conto di Leonardo a frenare il Verrocchio, piuttosto il timore del maestro per l’affermarsi di un temibile concorrente.

In ogni caso parlò con il maestro dei dubbi di Leonardo.

A questo punto, Verrocchio non poté più dilazionarne l’incarico.

Lo chiamò, alla presenza di tutti i giovani di bottega, e gli affidò l’opera da realizzare.

«Fammi un Arcangelo Gabriele, ma non su tela, su di una piastrella di maiolica 20×20» propose a Leonardo, pensando intimamente di metterlo in difficoltà.

«Maestro, ma io veramente pensavo di…» tentò timidamente di replicare Leonardo, che sperava di realizzare una tela dalle dimensioni almeno di una pala d’altare.

«Non ci sono ma che tengano. È questo l’incarico!» tagliò netto il maestro.

«Bene,» disse Leonardo «farò qualcosa che vi stupirà!»

«Ne siamo certi» disse il maestro, con un malcelato sorrisetto ironico. 

Leonardo si mise subito al lavoro, deciso com’era a sorprendere tutti fin dalla sua prima opera.

Si recò a subito al vicino borgo di Bacchereto-Montelupo, dove contava di reperire la migliore argilla disponibile a quel tempo e, soprattutto, dove poter utilizzare la fornace del nonno per la cottura della piastrella.

Per prima cosa preparò il cartoncino, disegnando il volto di profilo dell’Arcangelo Gabriele, e fu il primo degli autoritratti che Leonardo inserirà in alcune delle sue opere. Completato il disegno, lo trasferì nell’argilla per poi passarlo alla cottura, diverse volte, nella fornace del nonno, secondo la procedura osservata ai suoi tempi con delle modifiche originali che egli stesso vi apportò, per rendere la maiolica inalterabile e indistruttibile.

Fu il primo a sorprendersi del risultato ottenuto, ma lasciò che fossero il maestro e i colleghi di bottega a giudicarlo. I quali restarono estasiasti di fronte all’Arcangelo di Leonardo.

«Bravo, Leonardo,» dovette ammettere a denti stretti il maestro, «hai realizzato un pregevole mix di pittura e scultura. Sei stato un po’ vanesio nel raffigurare l’Arcangelo con il tuo autoritratto, ma il risultato è eccellente.»

«In effetti,» proseguì Sandro Botticelli, sinceramente ammirato per l’opera dell’amico e trovando d’accordo anche il Perugino e il Ghirlandaio, «era difficile inserire dettagli così minuziosi in una piccola piastrella: il profilo angelico, i riccioli dei capelli dettagliatamente cesellati e addirittura, al fondo, due ali di pavone che rappresentano il simbolo dello spiegamento cosmico dello spirito: complimenti, davvero!»  

La notizia dell’opera di Leonardo si diffuse ben presto anche al di fuori della bottega del Verrocchio.

«Leonardo, Leonardo» corsero ad annunciare gli amici, svegliandolo, una mattina di qualche giorno dopo, «Lorenzo ti vuole conoscere e ti ha convocato al palazzo della Signoria.»

È arrivato il mio momento!» pensò, gongolante, Leonardo.

E lo sfruttò a dovere.

P.S. L’attribuzione della piastrella maiolicata a Leonardo è fortemente contestata, ma ad uno scrittore è consentito fare ricorso alla propria fantasia, senza, con ciò, avere la pretesa di volere proporre ipotesi storiche diverse da quelle più accreditate.

RAFFAELLO E MARGHERITA, UN GRANDE AMORE A TORTO INFANGATO

«Raffaello, io mi vergogno un po’ per come mi hai raffigurata nell’ultimo ritratto. Ne è venuta fuori un’immagine alquanto impudica.»

«Che dici mai, Margherita? In pittura non esistono figure caste o figure oscene. Esistono solo lavori ben riusciti o lavori mediocri. E io, in verità, di questo ritratto sono molto soddisfatto!»

«Ma, amore mio, cosa dirà la gente, soprattutto gli alti prelati della Curia che frequenti tu, vedendo questo ritratto?»

«Quella è gente colta e raffinata, abituata ad apprezzare il bello in arte sia che rappresenti il sacro o il profano. Tiziano qualche anno fa ha dipinto un meraviglioso quadro raffigurante proprio L’amor sacro e l’amor profano. Vi si vedono raffigurate vicino ad una fontana due splendide dame, una elegantemente vestita e una a seno nudo, che rappresentano la Venere celeste e la Venere terrena. Nessuno si sognerebbe mai di pensare o affermare che la modella usata da Tiziano sia una poco di buono. Allo stesso modo, io ho voluto rendere, usando te come modella, l’idea di una Venere terrena mentre, nel ritratto che ti ho fatto, qualche anno fa, vestita e agghindata, ho inteso realizzare una Venere celeste.»

«Ma perché mi utilizzi per raffigurare solo donne anonime e mai per personaggi storici? Ti vergogni forse perché sono la figlia di Francesco Luti, un umile fornaio di Trastevere?»

«Come puoi affermare ciò, amore mio? Ti ricordo che ti ho utilizzata come modella per alcuni miei dipinti che sono stati molto apprezzati. Ne cito uno: il Trionfo di Galatea che ha incantato chi l’ha visto. Quando il mio amico, il raffinato letterato Baldassare Castiglione, mi ha chiesto il nome della modella utilizzata, gli ho detto che si trattava di una fanciulla creata dalla mia fantasia perché tu mi avevi chiesto di non rivelare mai l’identità della modella. Mi sono attenuto al tuo desiderio, per rispetto e per amore tuo.»

«E per forza, mi hai raffigurata sempre con il seno nudo…»

«Amore mio, Galatea è una ninfa del mare, vuoi che la raffigurassi vestita? E non dimenticare che ti ho utilizzato anche per la Madonna Sistina, commissionata dal convento di San Sisto a Piacenza, stavolta non ti puoi lamentare!»

È vero! Ma tu non mi ami, ne sono certa!»

«Queste sono cattiverie, scusa se te lo dico!»

«E allora, perché non ci sposiamo? Noi ci amiamo, stiamo insieme da diversi anni more uxorio, perché opponi sempre il tuo rifiuto alle mie richieste? Ci sono forse altre donne nella tua vita?»

«Che dici mai, tesoro mio? Come puoi dubitare del mio amore, se anni addietro ho addirittura rifiutato di sposare Maria, la nipote del potente cardinale Bernardo Dovizi da Bibiena che me l’aveva proposta con l’allettante offerta di una ricchissima dote e con la promessa della sua protezione vita natural durante.»

«Ti credo, perdonami amore mio. Però una cosa me la devi promettere!»

«Dimmi pure, angelo mio!»

«Che non cederai mai a nessuno questo ultimo mio ritratto qualsiasi somma ti venga offerta!»

«Te lo prometto!»

P.S. In effetti, Raffaello non si separò mai dal ritratto della Fornarina fino alla sua morte che avvenne poco tempo dopo averlo realizzato, il Venerdì Santo del 1520, all’età di soli trentasette anni, quando era all’apice della fama nazionale ed europea. Anche Albrecht Dürer gli aveva manifestato la propria ammirazione e Raffaello, per ringraziarlo, gli aveva donato un disegno raffigurante due nudi maschili.

A Roma circolarono delle voci che il grande Urbinate fosse morto a causa di “eccessi sessuali”, attribuendone la responsabilità all’incolpevole Fornarina. La maldicenza fu ripresa dal Vasari nelle Vite, avallandone in un certo senso la veridicità.

La sua morte resta avvolta nel mistero e, per far luce su di essa, la sua salma è stata riesumata due volte, una nel Settecento e una nell’Ottocento, senza mai venirne a capo. Sembra più credibile l’ipotesi dell’avvelenamento per arsenico, in quanto, alla prima riesumazione, la salma si presentò quasi intatta e ciò avviene generalmente nelle morti per arsenico. Intanto permane la malignità storica della morte per stravizi sessuali.

La Fornarina, alla morte di Raffaello, si ritirò, poco più che ventenne, in un monastero a Trastevere del Terzo Ordine di S. Francesco, successivamente diventato di S.Apollonia.

IL VIZIETTO DI MICHELANGELO

«Michelangelo, perché ti ostini a creare anche sculture false? Hai tanto di quel talento che puoi diventare un grande artista. Vuoi essere ricordato come un falsario?»

In tal modo, Domenico Ghirlandaio rimproverò amorevolmente il discepolo, intuendo le sue notevoli potenzialità artistiche, per cui non si spiegava questo suo incredibile “vizietto”.

«È per puro divertimento…» farfugliò Michelangelo.

In effetti Michelangelo ebbe il “vizietto” di realizzare, in qualche occasione, delle opere false.

Il suo scopo era quello di sorprendere gli intenditori di arte, come quella volta che creò una testa di satiro in marmo e, dopo averlo antichizzata con cura, la presentò a Lorenzo de’ Medici, quasi per burla.

Ma Lorenzo, che era un politico accorto e, soprattutto, un raffinato intellettuale, scoprì subito l’imbroglio e, canzonando il giovane scultore, affermò, alla presenza dei suoi cortigiani, «come può un vecchio satiro avere i denti?»

Michelangelo assorbì l’autorevole rimbrotto ma non perse il “vizietto”.

Dopo qualche tempo, essendo già affermato artista a Firenze e in alcune delle prestigiose corti italiane, Michelangelo aveva un’idea fissa approdare a Roma, il centro culturale più importante del mondo, ai suoi tempi. Poter lavorare nelle Stanze Vaticane, sarebbe stata la sua consacrazione ufficiale.

Per ingraziarsi la curia romana, pensò di inviare a Roma un dono che doveva essere recepito come veramente importante.

Creò una statua raffigurante il mito classico del Cupido dormiente, l’antichizzò in modo, a suo avviso, perfetto e la spedì a Roma, fiducioso che l’omaggio gli avrebbe aperto le porte vaticane.

Attese fiducioso la convocazione, che però tardava ad arrivare. Passarono settimane, lunghi mesi, ma della convocazione nessuna nova. Seppe, per vie traverse, che la sua statua “antica” era stata affidata, per l’esame critico, al cardinale Riario.

Chiese informazioni su questo prelato al suo antico maestro, Domenico Ghirlandaio.

«È uno degli esperti d’arte tra i più importanti al mondo, forse il più importante!» disse il maestro.

Michelangelo inghiottì amaro.

«Anche questa volta l’ho combinata grossa» penso, pentendosi amaramente della sua infelice trovata.

Si rassegnò e quasi non ci pensava più, quando ricevette un plico con il sigillo vaticano: triregno papale con le chiavi di San Pietro incrociate. Lo aprì trepidante e lesse: “Il cardinale Riario, esaminata la statua del Cupido dormiente inviata come antica dallo scultore, architettore e pittore Michelangelo Buonarroti, ne ha riscontrata immediatamente la contraffazione; tuttavia, avendo rilevato la pregevole fattura del manufatto invita il sopraddetto artista presso la Curia romana, onde eventualmente affidargli la committenza di alcune opere per l’abbellimento delle Stanze Vaticane. Firmato: Raffaele Riario, Cardinale in Roma”.

Michelangelo trasecolò.

L’indomani si mise in viaggio per la città eterna.

GALILEO, L’ ASTROLOGO

«Come mai, vi siete deciso a fare gli oroscopi, messer Galilei?» chiese, esterrefatto, Taddeus Vendramìn, Procuratore Generale della Serenissima, allo scienziato pisano.

«Sapete? Ho un notevole carico famigliare…» rispose Galileo, ricorrendo all’eterno “tengo famiglia”, che lasciò di stucco il procuratore.

«Non mi dite, messere! Siete professore universitario di matematica a Padova e la Serenissima vi paga uno stipendio annuo di mille fiorini.»

Ma Galileo non esagerava sul “notevole carico famigliare”.

Aveva, intanto, da mantenere la convivente Marina Gamba e i tre figli naturali, due femmine e un maschio, Vincenzo, l’unico ad essere stato legittimato dal padre.

E, se non bastasse, s’era fatto carico anche di mantenere, alla morte del padre, la famiglia originaria.  Contrasse degli onerosi debiti per fare la dote alle sorelle Virginia e Livia e per sostenere la numerosa famiglia del fratello Michelangelo.        

Si era messo a fare gli oroscopi, prima per gioco e poi per venderli, per arrotondare lo stipendio.

Osservando le stelle, con il cannocchiale di sua costruzione, studiava il movimento degli astri e dei pianeti e, contemporaneamente, confezionava oroscopi, dietro richiesta e a pagamento.

I suoi clienti non li trovava, di certo, tra la povera gente priva di cultura che non poteva permettersi il prezzo di 60 lire venete a responso oracolare, ma tra la la gente di alto rango e danarosa.

Gli commissionarono oroscopi vescovi, cardinali, aristocratici di varia estrazione e magistrati. In modo discreto. E che non si sapesse in giro…

«Caro Galilei, voi mi mettete in grande imbarazzo. Conoscete bene la stima che ho per voi e, da matematico dilettante, ho anche frequentato alcune vostre lezioni all’ateneo di Padova. Il fatto è che non posso esimermi dall’aprire un procedimento nei vostri confronti, in quanto mi sono pervenute numerose denunce, al riguardo, e non solo anonime. Vi rendete conto che il rischio che correte è grande? Giordano Bruno, per molto meno, è statoarso vivo, brusà come diciamo noi veneti, a Roma in Campo dei Fiori. Cosa avete da dire in vostra discolpa?»

«Signor Procuratore, so bene che l’astrologia è condannata dalla Chiesa, ma so anche che è tollerata nei territori della Serenissima e del Granducato di Toscana. Io stesso ho confezionato un oroscopo personale per il Granduca Ferdinando I de’ Medici, che tiene addirittura un astrologo fisso a corte, tal Raffaele Gualterotti, con cui scambio regolarmente delle corrispondenze sulle metodologie per creare oroscopi.»

«Caro Galilei, voi capite bene che il dovere di ufficio mi impone di portare avanti l’inchiesta e di chiuderla anche se, in confidenza vi dico, ne proporrò l’archiviazione al Senato di Padova. Ma non posso pronunciarmi sull’esito finale.»

Qualche giorno dopo Galileo fu convocato presso lo studio del Procuratore Generale “per comunicazioni urgentissime”.

Si recò all’appuntamento trepidante, consapevole, com’era, che la mancata archiviazione dell’indagine ne avrebbe comportato il trasferimento, per competenza, al Sant’Uffizio di Roma, il Tribunale dell’Inquisizione.

L’accoglienza cordiale del Procuratore, però, fugò subito ogni sua paura.

«Caro Galilei, consentitemi intanto di chiamarvi Maestro, ho una bella notizia per voi: il Senato di Padova ha accolto la mia richiesta di archiviazione dell’indagine che vi riguarda!»

«Bene, grazie!»

«Posso, ora, chiedervi una cortesia?»

«Dite pure, se posso…»

«Potreste farmi, per favore, l’oroscopo personale?»

SHAKESPEARE, IL MESSINESE

«Annette, che ne diresti se facessimo un viaggio a Messina?» propose Shakespeare alla moglie.
 Così all’improvviso, in una fresca notte d’estate, nel loro delizioso cottage con il tetto di paglia, a Stratford-upon-Avon.

«Dov’è Messina, Willie?» rispose, interdetta, la moglie.
«In Italia!»

«In Italia, dove? Italia è un’espressione geografica che racchiude una miriade di stati e staterelli tutti in lotta tra di loro.»

«Nel Sud! In Sicilia, esattamente.»

«You are foolish, sei pazzo! Ci vogliono almeno tre mesi di veliero per arrivarci. E, poi, quei posti sono infestati da pirati e briganti.»

«I tuoi sono stereotipi, my dear! La Sicilia, che fece parte della Magna Grecia, è considerata, ai nostri tempi, la culla della letteratura italiana. A Palermo, nel XIII secolo, prosperò la prima scuola in lingua volgare, alla corte di Federico II.»

«Sarà come dici tu, ma a Messina non andiamo!»

«Tesoro, ne ho bisogno! Devo ambientarvi la mia nuova commedia ‘Much adoe about nothing’ (Tanto rumore per nulla) e la conoscenza di quei luoghi mi è indispensabile.»

«Non se ne parla neppure! Sei uno scrittore e hai fantasia da vendere. Inventa!»

Shakespeare si mise al lavoro. C’era grande attesa per questa nuova opera dell’autore teatrale più acclamato del momento e la stessa regina Elisabetta, sua convinta estimatrice, era ansiosa di vederla.

Vi lavorò intensamente, com’era sua abitudine. Dopo le ultime correzioni, prima della rappresentazione, volle leggerla alla moglie Anne.

«Che te ne pare, my love?»

«Commedia eccezionale! I personaggi perfettamente disegnati, soprattutto sotto il profilo psicologico, e i luoghi di Messina minuziosamente descritti, come se tu avessi vissuto in quella città. Complimenti, come hai fatto?»

«Mi sono documentato!»

«Non me la racconti giusta! Certi particolari li può conoscere solo uno che è stato in quei luoghi.»

Messo alle strette, Shakespeare si confidò con la moglie.

«Devo svelarti un segreto!»

«Dimmi!» disse, con sorpresa, Anne.

«Shakespeare è il mio nom de plume. In realtà io sono Michelangelo Florio Crollalanza, scrittore siciliano. La mia famiglia, una delle più note e benestanti di Messina, cadde in disgrazia, inseguita dall’Inquisizione, per avere abbracciato la fede protestante.  Fu costretta all’esilio e a girovagare per diverse città italiane.»

«Perché non me l’hai detto prima?»

«Per un doloroso ricordo, che volevo restasse chiuso in me e che, però, mi pesava come un macigno. Mio padre fu trucidato a Venezia, ultimo nostro rifugio, sempre a causa delle nostre idee religiose. Per questi motivi decisi di trasferirmi nella tollerante Londra. Qui mi sono rifatto una vita, iniziando il lavoro di drammaturgo e, soprattutto, cambiando nome, che non è altro che la traduzione del cognome di mia madre, la nobile siciliana Crollalanza, che tradotto in inglese fa: Shake = scrolla e speare= lancia. Tu sai che ho firmato alcune delle mie opere teatrali non con il nome intero ma con quello con il trattino, Shake-speare, come messaggio evidente che si tratta di un nome costruito per la mia nuova vita. Quando ti ho chiesto di recarci a Messina, era più che altro per la nostalgia di rivedere la mia terra. Mi perdoni, Annette, per avere mantenuto dentro di me questo terribile segreto?»

«Perdonarti? Vuoi scherzare, my love, sono io che devo chiedere scusa a te!»

«Allora, verresti con me in Sicilia?» chiese, fiducioso, Shakespeare.

«Se ne può parlare» rispose la moglie, non molto convinta.

ELISABETTA, LA REGINA “VERGINE”

«Vuoi sapere una cosa divertente, Francis?» disse la regina Elisabetta al suo focoso amante, il pirata Francis Drake, a conclusione di uno dei loro consueti incontri d’amore, a palazzo reale.

«Dimmi pure, Betty!»

«Mi chiamano “la Regina Vergine”, non solo nel nostro Paese, ma anche all’estero.»

«Divertente, davvero!»

«Tutto questo per il fatto che non sono sposata. Ma ho avuto le mie storie, anche intense. Non è un mistero per nessuno!»

«È importante che lo credano e, soprattutto, che lo dicano!»

«Perché mai?»

«È la comunicazione, bellezza! Se una notizia ti può giovare, che ben venga!»

«Non ti sapevo così cinico, my love

«I fatti hanno la loro importanza, ma più importante dei fatti è la loro comunicazione! E, a volte, bisogna pure “aggiustarne” gli accadimenti. Come insegna il fiorentino Machiavelli: il fine giustifica i mezzi!»

«Questa regola, la conosco bene e l’ho anche applicata, qualche volta.»

«Fammi qualche esempio!»

«Quando ho fatto decapitare il mio medico personale, Rodrigo Lopez, che aveva ordito una congiura contro di me per favorire il re spagnolo. Non avevo le prove del complotto, le ha costruite il mio favorito del momento, il conte di Essex.»

«E dici cinico a me…»

« È la Ragion di Stato, bellezza!»

«Be’, al riguardo, avrei anch’io qualcosa da dire a proposito delle mie gesta marinaresche…»

«Non mi dire che ti sei inventato tutto…»

«Non tutto, qualcosa. La circumnavigazione che ho effettuato nel 1580, quella è vera e resta un’impresa storica. Sono stato il primo inglese ad effettuarla, dopo Magellano che, poverino, finì tragicamente. Qualche “aggiustamento”, invece l’ho apportato alle notizie su alcune mie imprese contro gli Spagnoli. E qualche sconfitta nelle lontane Americhe è diventata una vittoria. Tanto chi l’andava a controllare?»

«Sei un bel furbetto! Avevo pensato, in verità, di nominarti baronetto perché il pirata Francis Drake, per come sei conosciuto oggi, diventasse Sir Francis Drake…»

«Con ciò, vuoi dire che non mi nomini più?»

«No! Non lo farò per i tuoi meriti marinareschi. Ti nomino Sir e inoltre farò in modo che tu ottenga un seggio in Parlamento e diventi sindaco di Plymouth, tutto ciò per i tuoi indiscutibili meriti di appassionato e focoso amante, my dear!»

«Thank you very much, Betty

CONTINUA

INSOLITI RITRATTI di Gaetano Gaziano

genere. UMORISTICO

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