LA BUFERA di Roberto Conti (parte prima)

No.

Non te la faccio aprire questa porta.

D’istinto, per fare più forza, aggiunge una seconda mano alla presa sulla maniglia. È fondamentale che questa resti ferma, che non si abbassi neanche di un millimetro.

Così però non resisto granché.

Devo sistemarmi meglio.

Le gambe più larghe, la spalla appoggiata allo stipite, le mani ben salde al pezzo di metallo. Costi quel che costi, chiunque stia provando ad aprire la porta, non ci deve riuscire. Non deve vederlo in volto.

Un primo tentativo.

Poi un secondo. Questo è più deciso del primo, ma la maniglia non si muove. Il tale lo sente che fa qualcosa di più che opporre resistenza, perché per dirla tutta, non si muove proprio. E allora esista un istante. Lo capisce che c’è qualcosa di strano. Ogni porta, benché chiusa a chiave, ci si aspetta che possa permettere il movimento della propria maniglia. Se non lo fa è strano, verrebbe da pensare che sia rotta, oltre che chiusa. Certo non ci si può immaginare che a tenerla immobile siano nervi e muscoli, ora tanto tesi da sembrare acciaio.

Il terzo tentativo è un colpo secco. Ancora una volta non c’è verso, quella maniglia non si muove proprio.

Dal lato opposto, chiuse nel silenzio e nel buio, le nocche sono bianche da tanto che stringono e le gocce di sudore si staccano dalla fronte con cadenza ormai regolare, impattando sul pavimento. Le forze sono ormai al limite. La spalla, ancora appoggiata allo stipite della porta, è scivolata più in basso. Anche i piedi si sono allontanati e le gambe quasi completamente divaricate. Tutto il corpo si sta lentamente contorcendo. Non ha idea di quanto possa resistere. Ma un secondo, anche un solo secondo in più, può fare la differenza.

Può voler dire vivere o morire.

La via Grandi taglia in due il paese.

Nasce dal prolungamento della provinciale, che dai piedi dei monti si snoda per la valle, sino a raggiungere le prime case e comparire così nelle visure catastali con un nome ed un cognome.

Vista dall’alto sembra un serpente. Il suo diametro aumenta gradualmente dalla punta della coda a monte, sino alla testa a valle, dove raggiunge il centro abitato. Quindi lo attraversa, costeggia il fiume e passa davanti alla chiesa parrocchiale, sino a raggiungere largo Vittorio Veneto dove si mostra grande, con tanto di doppio senso di marcia, parcheggi, pista ciclabile e spartitraffico. Di solito i paesi nascono sulle rive di un fiume o in punti geograficamente strategici.

Beh, questo no.

Questo sembra sia nato intorno alla via Grandi. Come se fosse venuta molto prima, ancor prima del fiume, assieme alle montagne che lo circondano; un’insolita struttura geologica, successivamente ricoperta d’asfalto per necessità. A ben guardare, in via Grandi ci si trova la maggior parte dei residenti. È lunga, lunghissima, quasi da farci stare una maratona. Il paragone non è casuale, perché da più di vent’anni lo si fa per davvero. Da quando il sindaco di allora, appassionato podista, non ha deciso di raccogliere qualche sponsor locale ed organizzare il primo evento. Un appuntamento annuale che diventa subito un must nella valle. Ad oggi è quasi impossibile non andarci se sei di queste parti. Ancor più difficile se ci attacchi la festa del paese, le giostre, le bancarelle, lo stinco con le patate e la birra che scorre a fiumi. Buttaci dentro anche la messa per San Rocco che apre la fiera del bestiame e hai fatto bingo. Se poi hai le conoscenze che ti permettono di combinare gli eventi in una tre giorni incessante, allora te li porti a casa proprio tutti; dagli sportivi ai contadini, dagli imprenditori ai bambini; tiri su anche gli alcolizzati, i vecchi, i turisti per caso, i preti e i paolotti più indecisi. Tutti, insomma.

Una maratona che non è una maratona.

Ci hanno anche provato ad allungare il percorso, quella manciata di chilometri che avrebbe permesso di poterla chiamare ufficialmente così, ma non c’è stato verso. Del resto se devi rispettare i requisiti minimi di sicurezza e non puoi segare via un pezzo di montagna, allora devi spostare il paese. Non se ne esce, non rimane quindi che fare di necessità virtù, approfittandone per pompare l’evento ben oltre il ragionevole. In comune decidono di stampare un volantino assurdo, dove pare ti invitino a partecipare alla più incredibile maratona del mondo; roba che se avevi già preso il biglietto per quella di New York, ora sei indeciso sul da farsi.

Così recita lo slogan. Grazie al cazzo, verrebbe da dire a chi è di queste parti, è praticamente l’unico evento. Una gara podistica che non è manco omologata e per ben più di un ragionevole motivo, tanto che al sindaco viene in mente di chiamarla ‘Maratoma della Valle’, giusto per citare un noto formaggio che si produce da queste parti e che per l’occasione te lo fanno pagare come un tartufo di quattro chili.

– Lo scriviamo in corsivo, così non ci si fa neanche caso che quella è una M – queste le parole con cui aveva esordito il primo cittadino ad una delle riunioni con la giunta comunale. Percorrere la via Grandi in discesa e di corsa significa affrontare pericolosamente un percorso sconnesso, ripido e tortuoso; una strada che ti spacca le caviglie e ti fa andare più veloce di quanto potresti, mettendo completamente a rischio persone, animali e cose. Per i primi due chilometri credi di essere un professionista, anche se hai la pancia e ti bevi sette birre a sera. Al terzo hai visto l’Arcangelo Gabriele almeno una volta. Entro il quinto ti sei slogato qualche cosa. Il rischio è tale da rendere lecito il coinvolgere tutte le ambulanze dei paesi limitrofi; Croce Rossa, Croce Verde, Croce Azzurra, Croce Oro e persino quei disgraziati della Croce di Legno di Morascone, ennesimo ed altrettanto irrilevante paese della bassa. Che sia la gara più veloce nessuno lo mette in dubbio, resta solo da capire se ci si riferisca alla scarsa quantità di metri che riesci a percorrere prima di fracassarti il cranio o alla massima velocità che riesci a raggiungere prima di farlo. L’importante è rincasare, questo avrebbero dovuto mettere nel volantino. Come se non bastasse, il tragitto attraversa una valle sperduta dove piove ogni trenta secondi e quando parcheggi l’auto speri che attrito e forza di gravità ti concedano la grazia di fartela ritrovare al ritorno. Certo mozza il fiato, altro che New York.

La lunghezza significativa permette alla via Grandi di poter essere descritta non solo da un punto di vista geografico, ma addirittura sociale. C’è prima la via Grandi sentiero e mulattiera degli escursionisti, poi la provinciale che diventa la via Grandi dei pastori a monte e quella dei contadini subito più a valle. C’è la via Grandi della zona industriale, quella del centro storico e quella dei cittadini più abbienti. Quest’ultima occupa l’area a ridosso della zona pedonale; un chilometro di strada su cui vi si affacciano grosse ville ed una lunga fila di platani. Qui ci abita la classe dirigente del paese, divisa tra imprenditori, proprietari terrieri e più o meno onesti generici arricchiti. Gente come Amelia e Glauco per esempio, una coppia di ultracinquantenni che assieme ai loro quattro figli abitano una di queste ultime privilegiate residenze.

 Amelia è una donna dinamica, vanta grinta e personalità. È piccola e magrolina, ma è anche un fascio di nervi e fibre che non si piega e non si spezza, con forza e resistenza fisica a dir poco sorprendenti. Completa il quadro una massa di capelli rossi, ricci ed indomabili; una specie di casco che tanto ricorda un fungo atomico. Ha cominciato facendo l’insegnante nella scuola media del paese. Questo lo dice il contratto che ha firmato una trentina d’anni fa e lo dicono anche le brutte voci che si sentono in giro, tutte concentrate sul suo strano modo di gestire le classi. Certo è severa, ne è consapevole, ma i ragazzi devono avere disciplina. È necessario. Devono imparare il rispetto e le regole, non esistono eccezioni. Ci basa l’intera carriera sulla sua inflessibilità, una molto discutibile integrità d’animo che però porta i suoi risultati. Insegnante di ruolo, a seguire rappresentante del personale docente, poi vicepreside, quindi preside e successivamente dirigente scolastico a capo di quattro diversi istituti. In una valle piccola come questa, se fai più di così significa che il tuo volto si trova su qualche monumento.

Glauco ha di uguale a sua moglie solo l’anno di nascita. Alto, obeso, un corpo flaccido, quasi burroso. Più lo si osserva e più sembra di vedere un enorme budino color carne infilato dentro ad un gigantesco paio di pantaloni. Così come il budino, Glauco è buono; uno di quelli che non si arrabbia mai. La sua indole porta degli indubbi vantaggi, anche se non tutti vogliono avere a che fare con qualcuno che dice sempre di sì. Il suo atteggiamento, l’elevatissimo quoziente intellettivo e la capacità di ascoltare le persone, gli hanno permesso di scalare rapidamente l’organigramma della multinazionale per cui lavora, così come gestire sua moglie. Già perché dire che Glauco risolve problemi è limitativo. Lui è un artista in questo senso, uno capace di osservare le cose sotto diversi punti di vista, in un modo che non ti immagineresti mai. Lui non trova la soluzione, la dipinge. Produce continuamente concetti brillanti a cui gli altri non hanno ancora pensato e se lavori per la Silicon Valley, questo di solito significa una sola cosa: soldi. Tanti soldi. Soldi coi quali ti puoi comprare una villa nel più bel quartiere del paese, per esempio.

Al terzo anno di matrimonio, forti dei rispettivi successi lavorativi, Amelia e Glauco si trasferiscono nella via Grandi abbiente. Sono ancora molto giovani, ma ambiziosi ed estremamente produttivi. Lavorano settanta ore a settimana e per anni non si concedono quasi mai nulla, che sia una vacanza, uno sfizio o anche solo una cena in un bel ristorante. Nella loro vita tutto è ordinato, tutto è sotto controllo, tutto è programmato per rendere al meglio. Non sbagliano un colpo, non hanno debolezze. Sono robot finalizzati al successo aziendale, economico e sociale, finché non accedono alla seconda fase della loro vita: i figli. In brevissimo tempo diventano infatti una grande famiglia, inteso nel senso più rapido e fisico del termine. Un figlio ti impegna, si sa. Due ti riempiono completamente la vita, tre te la possono distruggere. Se poi ce n’è anche un quarto, sei ufficialmente in balìa degli eventi. Puoi pianificare tutto, anche i figli, nei limiti del possibile certo, ma se quei quattro ti arrivano tutti assieme, allora rimane ben poco da programmare. Al limite c’è da chiedersi cosa hai fatto di male per entrare a far parte delle statistiche nazionali. Sicché gli equilibri vanno a farsi benedire e la situazione non è più quella dei due sposini con il lavoro perfetto e la casa perfetta. I meccanismi subiscono le più impensate evoluzioni, così come le priorità, gli obiettivi ed i compromessi a cui si è disposti per raggiungerli.

Nel corso degli anni, da buono che è sempre stato, Glauco evolve in passivo. Mai propositivo, mai dinamico o solerte, né tantomeno coinvolto da un punto di vista, per così dire, sentimentale. Si limita a svolgere meccanicamente il suo lavoro, così come le faccende casalinghe. Nessun interesse, nessun hobby. I suoi presunti amici si contano sulle dita di una mano. Amici che non ha quasi mai voglia di frequentare.

Amelia subisce un cambiamento ancor più grave. Il suo essere sempre più intransigente la porta a compiere un percorso irreversibile. Frustrata, sempre meno apprezzata ed appagata, mai serena né tantomeno felice, vive la sua vita come una serie di compiti da portare a termine. L’infinito adempiere ai suoi doveri familiari e lavorativi materializza nella sua mente una sorta di graduale senso di rivalsa. Diventa improvvisamente lecito prendersi ciò che le spetta, ciò che a suo modo di vedere le è dovuto. Come se ogni nuovo desiderio potesse improvvisamente rappresentare la giusta ricompensa per il sacrificio a cui è stata sottoposta in tutti questi anni. Il proibito diventa soggettivo e ciò che è dichiaratamente illegale può essere giustificato dalle circostanze. La sua visione distorta del giusto e sbagliato, del bene e del male, del meglio e del peggio, le toglie ogni freno. Sparisce ogni inibizione, ogni rimorso e quasi ogni sentimento. Amelia non se la ricorda neanche più quella mogliettina che cercava lavoro e baciava il suo futuro marito con passione.

– No Glauco, questo no. È davvero inconcepibile. Devi trovare una soluzione. E poi proprio non capisco come certa gente possa essere così sfacciata ed arrogante. Di te se ne approfittano, si capisce. Come sempre del resto. –

Questa mattina le parole di Amelia hanno la cadenza di una mitragliatrice. Ogni periodo suona come una sventagliata di colpi a ripetizione a scapito del coniuge.

 – Ma dai Amelia… Si sono appena trasferiti! Corrado mi ha solo chiesto un favore. Tutto qua. Non mi va di essere scortese. –

La risposta, Glauco la serve con la personalità dell’orso Yoghi. Sprofondato nella poltrona, l’uomo sfoglia distrattamente il quotidiano, anche se superare la terza pagina pare un ostacolo insormontabile.

Sì, certo. Si è trasferito da dodici minuti e ha già la faccia tosta di chiederti di tenergli il figlio tutta la sera – incalza la donna, accompagnandosi con ampi gesti delle braccia – ti pare che noi abbiamo mai fatto nulla di simile con i nostri figli? E di occasioni ne avremmo avute parecchie, se non ricordo male… Ma dico, questo ti sembra un comportamento normale? E fino a che ora dovremmo tenerglielo poi? – rincara la donna – magari stanno fuori fino a tardi e devi anche stare sveglio ad aspettare che finiscano di fare i loro porci comodi. Perché due così, mi immagino non si facciano grandi problemi a tirare la corda… Sia chiaro, ci stai tu in piedi ad aspettarli. Non certo io. E poi scusa, che razza di genitori sarebbero questi? Non hanno ancora messo i vestiti negli armadi e già pensano a far baldoria? Quando usciranno a cena tra un mese cosa faranno? Oltre che tenergli il figlio ti chiederanno anche di prestargli l’auto? –

Amelia è inarrestabile, paragonabile ad un fiume in piena. Ed oggi in particolare, polemica più che mai.

 – Hai visto anche tu che casa che si son fatti, non credo che Corrado avrà mai bisogno di chiedermi l’auto… –

La piatta e disinteressata risposta di Glauco non può scalfire neanche minimamente la corazza della controparte. Dal canto suo, Amelia è sempre più nervosa ed intrattabile, la sua pantofola batte sul pavimento con il ritmo incalzante di un telegrafo.

– E poi scusa, io neanche li ho mai visti in faccia. Questo bambino, per esempio, quanti anni ha? Magari ha bisogno di attenzioni particolari, non conosciamo niente di lui. Per quanto ne sappiamo potrebbe avere anche qualche strano disturbo ed è magari per lo stesso motivo che non può stare in casa da solo. O addirittura deve prendere delle medicine, chi lo sa? Del resto, tu non chiedi nulla, tu ti fidi anche di chi non conosci… Io davvero non mi capacito di come tu possa essere così superficiale. –

Glauco la osserva con una faccia inerte condita da occhi socchiusi ancora assonnati. Non ha voglia di litigare. Almeno la prima parte della mattina, quella in cui è appena sveglio, vorrebbe trascorrerla serenamente. L’ansia di sua moglie però si sta impennando e rimanerci intrappolato potrebbe addirittura peggiorare le cose.

Forse è meglio intervenire subito.

– Ma che cosa dici Amelia? Io non sarò informato, ma tu invece cosa ne sai? Salti a conclusioni basandoti su teorie totalmente infondate. E comunque credo che il ragazzo faccia le medie. Se non lo conosci tu… –

Terminata la contestazione con il colpo ad effetto sulle scuole medie, Glauco volta con forza la pagina del giornale, come fosse il miglior gesto di stizza a disposizione. La sua pallida grinta iniziale svanisce però troppo rapidamente, merito della sventolona mezza nuda che a bordo articolo fa la pubblicità degli occhiali da sole.

– Quindi lo conosco. Se fa le medie, lo conosco. Come si chiama? – prosegue Amelia curiosa e pronta a gestire la cosa nel più autoritario dei modi.

– Kevin, mi sembra. –

– Kevin? Che razza di nome è Kevin? Cosa sono, inglesi? Americani? Irlandesi? Kevin come? –

– Sono italiani Amelia. Si chiama Kevin Trovato. Come suo padre, no? –

– E io che ne sono di come si chiama suo padre – risponde – mica è mio amico! –

La donna è sempre più acida; si capisce anche da come abbia deciso di calcare pesantemente sulle discutibili conoscenze del coniuge. Poi prosegue.

– Comunque, benché il nome non sia certo comune, non mi dice nulla. Ma insomma, non potevano portarselo dietro questo ragazzino? C’era proprio bisogno di sbolognarlo a dei vicini che manco conoscono? –

Glauco la conosce bene sua moglie, e conosce bene questo suo tipico comportamento. È come se la donna fosse ormai stata risucchiata dal vortice dell’attacco al marito ed in qualche modo non ne potesse più venir fuori. Non aver mai sentito nominare il ragazzo, per esempio, è una chiara nota di merito, ma non lo ammetterà mai. Amelia ha bisogno di trovare dei punti deboli nella controparte, un bisogno quasi fisico. La seconda contestazione, Glauco cerca di placarla un po’.

– A dire il vero io e Corrado ci conosciamo da un sacco di anni, eravamo anche in classe insieme. E poi non metterla giù come se arrivassero da chissà dove, abitavano dall’altra parte del paese, mica dell’oceano. –

La spiegazione dell’uomo ha un tono in bilico tra il deciso ed il non voler dare troppa importanza alla conversazione. Non più di ciò che merita, insomma.

– E se dovesse farsi male in casa nostra? Che facciamo? Di chi sarebbe la responsabilità? A questo ci hai pensato? –

– Amelia, piantala. Nessuno si farà del male, ok? –

– Va beh, comunque per me è assurdo. Che sia chiaro, te ne occupi tu di questo Kevin Trovato, che io meno lo vedo e lo sento nominare, e meglio sto. –

Terminata la frase, attraverso i vetri della cucina, la donna scruta la gigantesca quanto inquietante casa dei vicini. Pare una cattedrale da tanto che è grande; sproporzionata rispetto al giardino e al quartiere. Il comune avrebbe dovuto impedire si costruisse un edificio del genere, fuori misura e privo di gusto sotto ogni punto di vista. Del resto a quelli basta prendere i soldi. Solo a quello pensano.

Ignobili assessori comunali.

Parassiti, questo siete. Privi di ogni morale e rigore.

Una staccionata in legno alta circa un metro e mezzo, dipinta di bianco come nei migliori telefilm americani, separa i terreni delle due proprietà. Da una parte casa Ghirelli, la casa di Glauco ed Amelia, una sobria ed elegante villa con alberi e giardino. Dall’altra casa Trovato, un gigantesco e sfacciato immobile delle dimensioni di un castello. Castello sì, perché nonostante il cantiere sia ancora allestito, se ne percepiscono i principali elementi strutturali. Le sue mura in mattoni a vista, le merlature, le torrette e le cupole non fanno pensare ad altro. In cima vi è persino una bandiera rappresentante lo stemma familiare o qualcosa di simile. Manca il ponte levatoio a sormontare il fossato coi coccodrilli e poi c’è proprio tutto. Chi l’ha pensato deve aver temuto un’improvvisa invasione dei Visigoti, altrimenti tutto ciò non si spiega. Non finisce qui, basta dargli un’occhiata poco più che fugace per capire che c’è dell’altro che stona, a cominciare dagli infissi. Pare se ne sia occupato uno che ce l’aveva con il proprietario, o giù di lì. Ci sono finestre bifore in stile gotico, finestre quadrate, rettangolari, rotonde ed altrettanto svariate tipologie di serrande, riconducibili anch’esse alle forme più bizzarre. È come trovarsi di fronte ad un enorme catalogo, oppure alla casa della persona più indecisa del mondo. Infine, a reggere lo strettissimo porticato d’ingresso ci sono due mastodontiche colonne greche che terminano sui rispettivi capitelli. Pare ce le abbiano buttate lì, così. Senza un motivo. Forse avanzavano. Ennesimo pugno in faccia sferrato dai proprietari ad un qualsivoglia osservatore. La paura per i Visigoti deve aver creato tensione, o gettato scompiglio nel progetto, alimentando in qualche modo un’inimicizia tra architetto, ingegnere e geometra. Ma se il risultato è questa bella macedonia edile, i cui stili spaziano dalla Grecia antica fino a Guerre Stellari passando per il far west, la favola di Cenerentola e la Terra di Mezzo, si direbbe siano venuti alle mani, più che altro.

Ai coniugi Trovato, singolare e multietnica coppia ultracinquantenne, piace avere spazio per muoversi. Questo è poco, ma sicuro. Nel castello ci vivono la moglie Yvonne, il marito Corrado, il figlio Kevin e un gatto. Punto. Praticamente quattrocento metri quadrati a testa, giardino escluso.

Yvonne è polacca. Formosa, piacente, costantemente ricoperta di gioielli, abiti costosi e spesso anche da una cascata di lucenti capelli neri. Bella, bellissima, pure troppo, ma fine e delicata come una mazza da baseball. Quando è arrivata in Italia, quasi trent’anni fa, lavorava nell’impresa di pulizie di suo fratello. Poi ha capito che un fisico come il suo non ce l’avevano tutte e l’idea di sfruttarlo avrebbe potuto portare i suoi vantaggi. Nel caso specifico sfruttare non significa vendere, bensì realizzare di avere più potere decisionale della media femminile, in fatto di uomini. Sì, perché poter scegliere l’uomo che si vuole, fa la differenza. Non semplice denaro fine a sé stesso, bensì un potenziale. Un investimento, insomma. Chi se ne frega del sesso, dell’amore e delle buone maniere, qua si parla di soldi. E così, in poco tempo capisce che è sufficiente entrare nel giro giusto, farsi presentare alla persona giusta nel momento giusto, per permettere alla tua vita di cambiare da così a così.

Ok, ma come fai a sapere che è proprio lui l’uomo della tua vita?

Beh, per esempio è passato a prenderti col Porsche, un’auto veloce che ha scelto proprio per non fare tardi all’appuntamento; quindi, è sicuramente un uomo che ci tiene. Yvonne però è una sveglia e sa che non si deve mai peccare di superficialità. Del resto, l’apparenza inganna, è noto a tutti. Le persone bisogna conoscerle prima di prendere delle decisioni importanti e potenzialmente definitive. Devi passarci del tempo insieme, è doveroso avere un dialogo. Che so, nella sua barca a vela, nella baita a Cortina, nella villa a bordo lago, nel pied-à-terre a Manhattan. Solo parlandoci puoi assicurarti che sia scoccata davvero la scintilla, che ci sia della sostanza insomma. Non bisogna mai essere precipitosi.

E che significa che è bruttino?

Che vuol dire che ha la pancia?

Va bene, non ha i capelli. E allora?

Le persone si devono guardare dentro. Soprattutto dentro al portafogli.

Corrado non è un bell’uomo, è vero. Dentro o fuori che lo si guardi, le cose da vedere non sono un piacere né per la mente, né per gli occhi. Corrado però è un uomo furbo. È ricco. Senza scrupoli. Uno che sa come muoversi per raggiungere i suoi obiettivi. Qualunque essi siano. Per fare un esempio, l’impresa edile fondata dal padre è un attimo che sotto la sua gestione prenda il decollo. E che decollo. Morto il padre, la piccola società vede presto decuplicare il numero dei suoi dipendenti, fino a diventare leader nel settore locale. Appalto dopo appalto, il giovane e brillante imprenditore non ci pensa neanche a sporcarsi le mani con calce e cemento. Preferisce sporcarsele ungendo a destra e a manca chi di dovere; amministrazione dopo amministrazione, le sue mazzette arrivano puntuali e sempre al posto giusto. Invisibili e precise, gonfiano le tasche delle persone che contano, al momento opportuno. Corrado non è semplicemente scaltro, ha un vero e proprio sesto senso. Lo capisce subito se il soggetto è corruttibile o se invece rappresenterà un problema. Capisce anche quanto contano le persone, quali sono le loro priorità e ciò che vogliono sentirsi dire. Ed è uno spasso vederlo in azione. Le cene di lavoro sono il suo terreno di gioco e lui è il Maradona della trattativa; brillante e simpatico, sa come e quanto osare per raggiungere il suo scopo. Sa sempre cosa dire. Sa divertire. Questo è ciò che ha capito della vita: se sei spassoso, puoi ottenere ciò che vuoi, da chi vuoi. Se sei simpatico ti ascoltano, tutti preferiscono avere a che fare con te piuttosto che con qualcun altro. Bisogna solo adattarsi, non importa se quello con cui stai brindando preferiresti investirlo con l’auto; se devi ridere ridi, se devi piangere piangi. Se devi stare zitto, stai zitto. Il piccolo ed onesto capitale lasciatogli dal padre, diventa così un enorme e disonesto patrimonio che lui lascerà presumibilmente a suo figlio. Al netto degli sfizi, delle forze dell’ordine e naturalmente della moglie.  

– Corrado, ma con Kevin che facciamo stasera? Lo portiamo con noi? –

– Che? Ma va… No, stasera no. –

La mattina presto, specialmente in quell’arco di tempo che precede l’uscita di casa, il dialogo tra i coniugi è un costante tira e molla. Chi ha bisogno di sapere qualcosa insegue l’altro da una stanza all’altra, combinando il tentativo di lavarsi i denti, infilarsi un paio di calze, piuttosto che dar da mangiare al gatto. Hanno entrambi la necessità di uscire in pochi minuti, per urgenze più o meno realistiche; pertanto, la scena si presenta estremamente dinamica. 

– E quindi? Cosa hai pensato? Portiamo da tua madre? – insiste la donna, mentre attraversa la stanza con una scarpa sola. L’altra è un po’ che ce l’ha in mano, ma il tacco è così alto che non ha ancora trovato il momento né il posto buono per infilarsela.

– No, te l’ho detto. Stasera no. –

La risposta di Corrado è una specie di copia e incolla della precedente, sia con le parole che con il tono della voce. La controparte sbuffa. Percepisce la mancanza di collaborazione e tutto ciò non può che infastidirla.

– Sai solo dire questo? – sottolinea Yvonne – Niente altro? – 

– Mia madre oggi va dal dentista e lo sai come torna a casa ogni volta che ci va. È intrattabile e se le chiedo una cosa del genere mi manda a cagare. Comunque, non ti preoccupare, c’ho già pensato io. Lascia fare a me. –

Le ultime parole di Corrado, pronunciate col mento alto mentre finisce di sistemarsi la cravatta, suonano più consapevoli; il tentativo è quello di trasmettere una certa sicurezza nella gestione del problema. È deciso, ma estremamente sereno e vorrebbe tanto che anche sua moglie lo fosse. E che magari la smettesse di fargli pressione.

– Ah, il dentista… Quell’uomo non sopporto. È porco e schifoso. Ci vado solo perché non ti fa pagare, altrimenti col cazzo che ci andavo. –

Mentre sputa di getto la sua polemica, Yvonne sente il grosso gatto nero strusciargli tra le gambe. Con un gesto che rasenta l’automatismo, lo afferra con le sue lunghe dita per tenerlo in braccio. Adora accarezzarlo, per lei è una cosa estremamente rilassante, meglio che fumarsi una sigaretta.

– Chi è che sarebbe il porco? – chiede il marito, aggrottando la fronte. È probabile che la prima parte della frase manco l’abbia sentita dall’altro lato della stanza.

– Il TUO amico dentista è un porco. –

– Ma non dire cazzate… Tutte idee che ti fai tu senza motivo. –

– Io non dico cazzate. Appena mi giro sento mi guarda il culo. Sento proprio i suoi occhi sulle mie chiappe che vanno destra e sinistra. E poi non vedi che vado sempre con maglione con collo alto? Una donna lo capisce subito se uomo ti vuole saltare addosso. –

La protesta di Yvonne prende forza, accompagnata da due guance diventate rosse come pomodori. Più si arrabbia e più il suo italiano diventa meccanico, sgrammaticato; salta articoli e congiunzioni come se li mancasse per un pelo. Succede sempre così quando pensa poco e reagisce d’istinto. È una curva che si impenna fino a raggiungere gradualmente il suo limite massimo, oltre il quale le labbra, perennemente cariche di rossetto color rosso fuoco, sputano solo parolacce in polacco.

– Se lo dici tu… A me sembra che sia LUI a sopportare tutte le TUE richieste assurde. Gli hai fatto spostare tre appuntamenti perché per tre volte hai fatto tardi dall’estetista, se non ricordo male… –

Il tono di Corrado è quello di chi recita la parte del disinteressato, ma sotto sotto prepara l’arma segreta.

– Non è vero. Mica faccio tutte le volte. Per una volta non more nessuno… Poi tu non sai che pazienza ho io di ascoltare lui. Quello parla, parla… Mentre sei lì con trapano in bocca mica puoi rispondere, no? Quello fa domande, ma come faccio io rispondere te, se ho trapano in bocca? –

Anche Corrado non risponde, il fatto che sia entrato nella cabina armadio, lasciando sua moglie a conversare da sola, la dice lunga sul grado di interesse e rispetto. La moglie lo segue con il grosso felino in braccio, imprigionato in qualche modo tra le sue lunghissime unghie. Il suo obiettivo è capire almeno che ne sarà di suo figlio questa sera.

– Va beh, posso sapere anch’io a cosa tu hai pensato per Kevin? –

– Lo portiamo dai vicini. – risponde Corrado, alzando lo sguardo per un istante mentre si allaccia le scarpe. È così lapidario e deciso da non ammettere obiezioni.

– Dai vicini? Ma cosa dici? Siamo appena trasferiti, neanche conosciamo! –

L’espressione teatrale della donna rasenta l’allibito. Il tono della sua voce, risoluto e con una sottile punta di aggressività, è totalmente in contrasto con la mano che accarezza dolcemente il gatto. Instancabile sia lei che lui, potrebbero starci ore a farsi le coccole a vicenda. Anche Corrado, così come la mano di Yvonne, mantiene una calma olimpica. Sembra sicurissimo di sé. È la super classica espressione di quando sa che non ci saranno problemi, la stessa faccia di tolla su cui ci ha costruito una famiglia ed un impero economico.

– Non ti preoccupare. Glaucone lo conosco da una vita, eravamo in classe assieme. Vedrai che quel ciccione non ce la farà a dire di no, non l’ho mai sentito farlo. Pensa, al liceo lo chiamavamo ‘Ghirelli mangia-patelli’; una volta gli hanno messo un pezzo di cacca nel panino e quello se l’è mangiato senza battere ciglio! Non fa troppo ridere!? Un ciccione grosso come un frigorifero che si nutre di qualunque cosa! –

Corrado ride di gusto, alzando gradualmente il volume della voce. Quando esagera in questo modo così volgare, diventa insopportabile. E poi dovrebbe guardarsi la sua di pancia, se non è un frigorifero, è almeno una lavastoviglie. Questo pensa sua moglie.

– Ma quindi tu ancora non hai detto a lui? –

– Ti ho detto che non ti devi preoccupare… E comunque ci siamo sentiti al telefono e adesso gli porto Kevin per fargli vedere almeno che faccia ha – risponde l’uomo, mentre afferrata una scarpa, alza il volto per incrociare lo sguardo della moglie – Contenta adesso? Se non mi interrompi ancora ci metto un attimo, il tempo di infilarmi le scarpe. –

– Vai adesso? Sai che sono sette e mezza, vero? Sei sicuro che loro sono svegliati? –

Yvonne scuote la testa, sa benissimo che non c’è speranza di cambiare quella testa dura di suo marito. Se ce l’ha in mente, lo farà. Punto. In casa decide quasi sempre tutto lui; personalità schiacciante, menefreghismo costante, arroganza quanto basta e senso del potere sempre a portata di mano. I pantaloni li deve portare il marito, questo pensa Corrado, non importa se infilati in testa o indossati al rovescio.

Corrado scende le scale rapidamente. Nella mano destra stringe un’elegante ventiquattrore in pelle nera con manico in metallo, nella sinistra il cappotto. Ad esclusione della loro camera da letto, in casa c’è una gran confusione. La ditta di traslochi ha avuto qualche problema e terminerà il lavoro la prossima settimana, lasciando temporaneamente i proprietari a convivere con una specie di campo di battaglia. Ad una prima occhiata, pare abbiamo sollevato il tetto e rovesciato dentro tutto con la gru. Ci sono cartoni ovunque, pochi mobili e posizionati a caso e persino una bicicletta in corridoio. L’unica cosa che Corrado si è degnato di fare è stato collegare il televisore all’antenna, appoggiarlo su un cartone e metterci una sedia davanti. Non alza un dito, lo fa per principio. Lui è il capo. Lui paga, quindi lui decide e lui comanda.

– Cristo, ma la volete spostare ‘sta bici? A momenti rischio di ammazzarmi… –

In cucina, Kevin è seduto al tavolo e consuma pigramente la sua tazza di latte e cereali. I suoi occhi fissano un tablet, il quale trasmette le immagini del videoclip di un giovane rapper anticonformista, il quale si direbbe più intento a cercar di dar fuoco ad un’auto che a far rime.

– Kevin, vieni con me. – gli ordina Corrado, mentre varca la soglia della stanza; contemporaneamente appoggia la valigetta alla gamba del tavolo e si infila il cappotto.

– Ma dove dobbiamo andare? Sto ancora mangiando… –

– Non mi interessa, mettiti le scarpe e muoviti. –

Il giovane non si permette di contraddire suo padre. Sa che le conseguenze potrebbero essere drammatiche, sicché appoggia il cucchiaio alla tazza e va in cerca di un paio di scarpe. Yvonne osserva la scena da spettatrice passiva. Non interviene, non fa nulla. L’unica parte del suo corpo che si muove è quell’instancabile mano che non la smette di lisciare il pelo del gatto. Sarebbe interessante contare le volte che ha fatto avanti e indietro, ne verrebbe fuori un numero astronomico.

– Dobbiamo andare dai vicini, stasera sei da loro. –

Corrado sputa istruzioni a suo figlio con distacco e regolarità. Non vuole essere contraddetto ed il tono freddo, incessante e deciso è l’arma migliore per ottenere questo risultato.

– Ma perché papà? –

Il ragazzo sembra sorpreso oltremodo.

– Perché io e tua madre abbiamo una cena importante. –

– E perché non posso stare a casa da solo? –

Kevin già se lo immagina il contesto imbarazzante. Un imprevisto questo che irrompe nei suoi piani serali come un’incudine che cade dal quarto piano su una torta di panna.

– No, non puoi. Sei troppo piccolo, questa sera non c’è nessuno che può stare qui a guardarti. In più la casa è nuova e non la conosci neanche bene. Ci manca solo che combini qualcosa e poi ci tocca tornare a casa di corsa… –

È chiaro che la priorità sia impegno dell’uomo, non certo la sicurezza del ragazzo.

– Ho tredici anni, mica cinque! – protesta Kevin.

– Non ne stiamo discutendo. –

L’affermazione dell’uomo non prevede ulteriori scambi verbali.

Pochi istanti dopo, padre e figlio stanno già camminando spediti sul marciapiede, diretti verso la casa dei vicini. Raggiunto lo steccato, Corrado spinge il cancelletto e prosegue lungo il vialetto attraversando completamente il giardino, sicuro e deciso come fosse lui il proprietario. Kevin lo segue a ruota senza fare domande. Raggiunta la porta d’ingresso, l’uomo s’inchina leggermente, dà una sbirciata alle finestre, dopodiché suona con vigore il campanello per un paio di volte. Al suo fianco, in pigiama e scarpe da tennis, coperto solo dalla giacca, Kevin lo osserva con crescente timore. Quando suo padre agisce in questo modo gli fa sempre un po’ paura. Ha uno sguardo teso, serio, combinato con la fronte corrugata di chi è molto concentrato e disposto a tutto pur di ottenere ciò che vuole. Improvvisamente, accompagnata da un lungo cigolio, la porta si apre. D’istinto il ragazzo volge timidamente lo sguardo verso il basso, diretto alle sue scarpe da tennis.

Ora il palcoscenico è tutto per suo padre.

– Oh Glaucone! Ma che piacere! –

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