LA GUERRA DELLE LUCI di Luca Jackowski (prima parte)

Il sole stava calando, i suoi raggi trafiggevano le vele delle ex-navi da commercio attraccate al porto, la luce era di un arancione spento, nostalgico. Il vento cominciava a spingere, facendo muovere, ondeggiando come foglie in autunno, le pesanti catene arrugginite dei vecchi magazzini e producendo di conseguenza un sinistro eco.

Un sottofondo tetro, complementare allo stato d’animo che emergeva in Blazej, gravato da ansia e timori ma supportato da una sicurezza ferrea riguardo a ciò che andava fatto. Stava sfogliando poesie raccolte pagina per pagina in un quaderno intitolato “Frammenti di libertà”.

Lo aveva ricevuto in regalo da suo padre il giorno in cui egli era stato costretto a lasciare la famiglia per la guerra.

La guerra, la vera protagonista di ogni epoca, di ogni storia, la sposa di ogni uomo, la madre di ogni pargolo. Ovunque c’era guerra o perlomeno c’era stata, diffondendo i suoi veleni nell’aria e inquinando ogni cosa. Come portatrice di distruzione, possedeva il dono di cambiare le menti e i luoghi. Tra macerie e edifici logorati, infatti, era venuta alla luce Naproz, capitale di Kontyn, patria della rivoluzione mancata, cicatrice sulla terra.

Le fonti d’informazione erano costituite dal bollettino giornaliero di Naproz, monopolizzato da toni e fatti propagandistici che testimoniavano la pace e l’ordine tanto ricercati e desiderati dagli uomini, disposti a morire per essi. Ma le parole non godevano più del loro senso primordiale, originale, anzi, erano state cambiate e reinterpretate, finché concetto e significato apparivano radicalmente stravolti.

La schiavitù si arrogava il diritto di farsi chiamare ordine, le morti divenivano controllo, i compromessi che era necessario accettare in cambio della sopravvivenza erano chiamati opportunità. Blazej si soffermò su una poesia in particolare, la sua preferita, che recitava:

Blazej sognava perennemente di essere libero, benché non sapesse esattamente cosa si provasse.

Gli era stato solamente raccontato, da vecchi libri che illegalmente riusciva a procurarsi, da voci che circolavano rapide nell’ombra come spettri per la città, dai racconti di anziani ai bordi delle strade o in case dissestate che attendevano invano che la vita le abbandonasse.

Questi racconti, queste leggende spesso esasperavano alcuni eventi e spesso ne sminuivano altri. Eppure, in fondo al profondo barattolo delle menzogne, un pizzico di verità c’era sempre. Il mondo presentato non era utopico, basato unicamente sui principi dell’amore e della fratellanza incondizionati.

L’epoca precedente rimaneva di fatto caratterizzata dagli scontri di uomini contro altri uomini, ma esisteva la scelta, il primo assioma della libertà.

All’improvviso Blazej sentì il rumore di un campanello, chiuse il quaderno e si portò la mano nella tasca. Estrasse il FindP, che emetteva una brillante luce rossa a intermittenza. Avvicinandolo ai suoi occhi color ciano, lesse:

“È tutto pronto, l’aquila sta per spiccare il volo. Il posto lo conosci, il momento è giunto, P.”

Lo ripose con cura nella giacca e prese una pala arrugginita da un magazzino…

Contati dieci passi in avanti e cinque verso destra, partendo da una cadente quercia, si spostò i capelli biondi che gli cadevano sulla fronte e cominciò a scavare una buca poco profonda.

Ci ripose il quaderno, ben protetto da un sacco di iuta, ma solo dopo averne piazzato all’interno un suo appunto:

“Se conoscete il mio nome, significa che tutto è andato per il meglio, altrimenti che ho fallito. In quest’ultimo caso, se le catene dell’oppressione pesano ancora sul mondo, se l’amore è un concetto estraneo ai cuori e alla mente degli uomini e i frutti di questa terra affamano una bugia, allora tocca a te, a voi, ribellarvi. Sarete i nuovi figli della libertà. Firmato, Blazej Rewson.”

Si mise lo zaino in spalla e poco prima di partire lanciò un’ultima occhiata al mare.

Le acque al porto erano ancora calme e i rifiuti dondolavano tra un’onda e l’altra, galleggiando lenti.

La calma prima della tempesta pensò Blazej. Fece un sorriso amaro e partì senza guardarsi più alle spalle.

Attraversò la città devastata, desolata, fredda e inanimata, un ammasso di ruderi, una città fantasma depredata da ogni forma di vita dall’ora in cui entrava in vigore il coprifuoco. Si muoveva tra vicoli stretti di cui molti ignoravano l’esistenza, strisciava da un muro a un altro, passava sotto ponti crollati e letti di fiumi ormai prosciugati che un tempo erano alvei fiorenti.

Mentre sfrecciava da un punto all’altro di Naproz, stava bene attento a evitare i fari, i posti di blocco e le ronde armate dell’A.G.O.S. (Arma Guardiani Ordine Supremo), consapevole del fatto che se l’avessero preso tutto sarebbe andato in fumo.

Arrivò finalmente al palazzo N.114, un imponente e cadente edificio in pietra che in passato era il tribunale della città. La scritta di pietra in caratteri seri “la legge è sovrana ma giusta” era rovinata al terreno pezzo dopo pezzo ed era stata sostituita da uno striscione che sventolava minaccioso “la legge è cieca obbedienza” (nonostante avesse smarrito la sua funzione).

Sì, era al posto giusto. Ricontrollò per scrupolo il contenuto dello zaino: cesoie, un paio di torce, dei fischietti arrugginiti, maschere a visione notturna e un coltello ben affilato. Tutto il necessario per l’operazione.

Stava appunto per entrare dal portone principale, quando fu raggiunto da rumori provenienti dall’interno. Poteva trattarsi di qualche animale alla ricerca di cibo, una situazione ormai più unica che rara. Magari un cervo, un cinghiale oppure un cane, ma forse anche qualcosa di peggio. Certo non potevano esserci uomini dell’AGOS, quell’edificio difatti non compariva nel registro dei controlli di quel giorno. Il palazzo era l’unica via che poteva percorrere.

Decise di non aspettare oltre.

Salì per le scale semi distrutte ed entrò nella stanza che era adibita al giudice, superando le alte colonne che garantivano un aspetto serio e autorevole all’atrio, nonostante la deturpazione causata per via dello scorrere inesorabile del tempo. Il caos regnava sovrano, una quantità immane di fogli diventati tutt’uno con il pavimento emanava un odore pungente di carta bagnata che lottava con vigore con quello del marciume della scrivania, rendendo l’aria per nulla piacevole da respirare.

Blazej afferrò il martello per stabilire le sentenze che giaceva inerme a terra e per un attimo fantasticò di un mondo in cui un’autorità, pura e incorruttibile, giudicasse in modo imparziale le azioni di un uomo, qualcuno che fosse sospinto dalla fede nella giustizia e non dalle false promesse di sicurezza dell’Ordine Supremo.

Pensò che fare il giudice sarebbe stato un mestiere importante e di cui essere orgogliosi. Quel pensiero fu interrotto da alcune voci gravi provenienti dal piano superiore. Blazej reagì prontamente e si appiccicò alla porta, premendo forte l’orecchio contro il legno spesso per sentire meglio.

Fu colto da un brivido e sudò freddo.

Si trattava di ricognitori, ne era certo. I ricognitori erano formazioni specializzate dell’AGOS composte di due miliziani, addestrati all’odio e alla violenza, il cui compito era di perlustrare gli edifici dismessi alla ricerca di qualcosa di utile o di rifugiati e reietti da catturare. Agivano come cani affamati in cerca di cibo, e Blazej li immaginava ringhiare con la bava alla bocca nella commistione di eccitazione e foga che scaturiva dalla caccia. Non lo avevano scoperto, non ancora.

Blazej ragionò, poteva tentare di correre fuori. No, troppo rischioso, si sarebbe trovato ad affrontare un inseguimento ed era noto che i ricognitori fossero segugi instancabili e imbattibili. Senza contare che avrebbe mandato in fumo tutto il piano richiamando attenzione, che equivaleva a maggiori controlli e pattuglie in quella precisa zona.

La seconda possibilità era di cercarsi un nascondiglio e pregare che i ricognitori fossero già sulla via del ritorno.

Scelse la seconda opzione, forse la più sicura, ma anche quella che gli faceva sprecare più tempo, e non aveva il privilegio di permetterselo.

In un angolo dell’ufficio stava, nascosto da un paio di travi venute giù dal soffitto, un grande armadio. Con cautela dispose a terra le file di faldoni che abitano l’armadio e ci si catapultò dentro.

I ricognitori intanto stavano scendendo a passi pesanti e presto sarebbero arrivati. Il cuore di Blazej batteva furiosamente, tanto che temeva lo potessero sentire anche loro. La porta si aprì delicatamente e una voce esclamò:

«C’è qualcuno qui? Offriamo cibo e acqua, suvvia uscite, siamo amichevoli, di noi potete fidarvi.»

Il secondo ricognitore scoppiò a ridere:

 «Ancora che ci provi?» e scosse lentamente la testa «l’unica strategia che dà risultati concreti e immediati è mettere tutto sottosopra. Quei topi di fogna oramai non ci cascano più. Tu procedi al controllo nella prossima stanza e mostrami ciò che sai fare, smettila di sprecare tempo e non farmi perdere le staffe. Io, nel frattempo, esaminerò quest’altra zona.»

Così si divisero.

Blazej era agitato, la sua scelta si era rivelata fallace, i ricognitori setacciavano con scrupolo ogni centimetro di ogni stanza e l’avrebbero sicuramente individuato, poi catturato e poi…

Non volle nemmeno pensarci. Doveva riflettere in fretta su come tirarsi fuori da quella situazione apparentemente senza soluzione. Chiuse e strinse forte gli occhi pensando intensamente all’addestramento a cui si era sottoposto negli ultimi mesi e arrivò alla conclusione che il problema poteva essere superato in un solo modo. O lui o loro.

Controllò attentamente dagli spifferi dell’armadio che offrivano uno scorcio di visuale sulla stanza e al momento opportuno saltò fuori.

Accovacciandosi, si diresse verso il balconcino che dava sull’atrio.

Qui un ricognitore se ne stava tranquillo (la loro temibile efficacia e propensione stakanovista forse erano solo una leggenda), aspirando tabacco da una pipa bianca da cui usciva un fumo nero e denso.

Mentre sbuffava nubi che si dissolvevano nell’aria con molta calma, giocherellava distrattamente con un anello d’oro splendente. Era un tipo grosso, tanto che la divisa gli entrava appena.

Dava inconsapevolmente dei deboli colpi alla balaustra con gli spessi e rigidi stivali di pelle e la pietra, che aveva vissuto sicuramente momenti migliori, sembrava poter venire giù da un momento all’altro.

Il marchio dell’AGOS gli occupava tutta la schiena, un cerchio dai marcati contorni neri rappresentava una “O”, che stava per “Ordine”, e che era completata da una croce rossa sull’angolo in alto a destra, metaforicamente un mirino, che indicava il controllo perpetuo. A livello della vita portava un grosso cinturone che conteneva un manganello elettrico, una torcia e la fondina con la pistola. Sul braccio destro, in rosso scuro, il numero R0348 che indicava divisone d’appartenenza e codice identificativo. La manica terminava all’altezza dell’avambraccio, lasciando scoperto il polso sul quale aveva marchiato sulla pelle il simbolo dei fedeli all’Ordine Supremo.

Blazej si piazzò alle sue spalle e con tutta la forza che aveva, lo spinse oltre la balaustra mandandola in frantumi. La guardia non fece in tempo né a gridare né a capire cosa stesse accadendo e si schiantò pesantemente al suolo con un suono assordante, seguito da un eco di calcinacci che incessantemente gravitavano a terra.

«Jas! Che succede Jas?»

Il caposquadra, naturalmente, non udì repliche. Animato da un impeto d’ira nel non ricevere risposta alcuna, si precipitò fuori dalla stanza e riprovò:

«Ricognitore 0348, pretendo immediate spiegazioni…» 

La frase terminò scemando gradualmente di volume perché il capo aveva notato giù, a circa sei metri, il corpo immobile del compagno, circondato da polvere e sassi.

“Non deve utilizzare la radio e non gli posso concedere nemmeno di estrarre la pistola” pensò Blazej, che si era accucciato dietro una pila di sedie ricoperte di ragnatele.

Sgusciò dal nascondiglio con il coltello in pugno e sferrò un colpo deciso all’altezza del tendine destro, recidendolo.

La guardia chiuse gli occhi e urlò a denti stretti ma non cadde, anzi, caricò rapidamente il gancio sinistro.

Blazej si chinò un istante prima che il ricognitore riuscisse a girarsi e a mettere a segno il colpo e lo pugnalò di nuovo, ma questa volta al fegato. La vittima, che finalmente vedeva il volto del suo assalitore, boccheggiando si accasciò lentamente al terreno. Gli occhi sgranati e la mano destra sulla fondina, questi ricognitori non si arrendevano mai! Ci fu bisogno di un ulteriore colpo con il manico metallico del coltello dritto in fronte per mettere fuorigioco il caposquadra al cento per cento.

Blazej si asciugò la fronte sudata con una manica. Parte del problema era stata risolta, ora però, quei due corpi dovevano sparire. La chiamata dalla torre di controllo non avrebbe ottenuto risposta, ergo, un’altra squadra sarebbe stata inviata alla loro ricerca.

Due ricognitori morti non avrebbero certo influito positivamente sul piano, ma una volta nascosti e resi introvabili non avrebbero recato danni eccessivi. 

Da solo non poteva combinare nulla, quindi Blazej pensò di raggiungere il gruppo e di ragionare assieme. Prima di uscire però, recuperò una valigetta, la svuotò dai fogli umidi e ci infilò ciò che aveva depredato ai due ricognitori ormai privi di vita.

Si catapultò fuori dal tribunale a una velocità pari a quella di un proiettile, attraversando il cortile tra sterpaglie ed erbacce che crescevano rigogliose e prepotenti quasi a testimoniare l’avvenuto predominio della natura sugli artefatti degli uomini.

Arrivò in fretta a delle scale che scendevano di un paio di metri in profondità. Si trattava di una vecchia cantina probabilmente, oppure uno di quegli strani posti dove la gente in passato era solita riunirsi per bere, per raccontarsi storie e fare chissà cos’altro. Comunque sia, quello era il punto d’incontro.

«Fermo lurido criminale! Alza le mani lentamente.»

Blazej obbedì. Quella voce forte gli suonava familiare.

«Adesso voltati e non p-p-provare a fare mosse azzardate.»

Blazej si voltò tranquillo perché ormai aveva riconosciuto quel modo di parlare, e disse:

«È la cordialità ciò che ti contraddistingue, Mazing.»

«Vedo che finalmente lo hai capito», rispose l’altro, «le precauzioni non sono mai troppe. Muoviti ora, gli altri ti stanno aspettando già da un bel po’.»

«Agli ordini!» Esclamò Blazej salutando la sentinella con un goffo gesto militaresco e un sorriso al quale Mazing rispose volentieri.

Aprì con entrambe le mani le pesanti porte dello scantinato che erano state rimesse a nuovo e rinforzate, anche se viste da fuori sembravano porte qualunque di un posto qualunque.

Le sei persone all’interno si voltarono tenendo gli occhi fissi su di lui e una voce femminile esclamò, con un esagerato sarcasmo, così evidente da suonare insopportabile:

«Sembra finalmente giunto il magnifico, e quanto mai atteso momento, in cui la fortuna ci regala l’incredibile privilegio di essere allietati dalla tua straordinaria presenza, signor Blazej Rewson», e continuò «ti prego umilmente di portare subito il sedere qui. Abbiamo un mondo da rovesciare! …»

Blazej si esibì in un timido saluto e prese posto intorno all’enorme tavolata imbastita di fogli e strumenti elettronici di cui ignorava lo scopo, e inclinando la testa, diede una rapida occhiata all’enorme mappa che dominava tra i tanti pezzi di carta. La ragazza cominciò a parlare:

«Signori, oggi è il giorno X, oggi mettiamo in atto un piano che…»

Non fece in tempo a finire la frase che Blazej con sguardo preoccupato chiese di poter parlare.

La ragazza spazientita chiese:

«E adesso in che altro modo intendi farci tardare?»

«Arrivare fino a qui non è stato certo una passeggiata.»

«Spiegati meglio. Non possiamo sprecare tempo giocando agli indovinelli.

Blazej timidamente prese parola:

«Mentre mi dirigevo qui, passando attraverso il l’antico tribunale, come avevamo stabilito, sono incappato nella ronda di una squadra di ricognitori, anche se per oggi non era previsto nessun tipo di controllo in zona.»

Aveva attirato la completa attenzione di tutto il gruppo. La ragazza domandò:

«Ti hanno visto? Sì, certo che ti hanno visto.» (aveva la fastidiosa mania di porre domande e di rispondersi da sola).

«Era inevitabile», ribatté Blazej in tono di sfida.

«Eppure, sei qui e hai una calma tale da cui deduco che tu abbia risolto la questione. È una supposizione corretta?»

«In parte. Ho bloccato le due guardie prima che mettessero mano alle armi o alla radio, ma mentre parliamo ci sono due cadaveri che non tarderanno a richiamare attenzione. Non ho avuto il tempo di sistemare completamente la faccenda e a essere sinceri, non sapevo proprio come muovermi.»

La ragazza aggrottò le sopracciglia, come faceva ogni volta che era impegnata a riflettere. Intervenne un ometto, che fino a quel momento aveva spostato lo sguardo da uno all’altra senza battere ciglio. Con una voce che esprimeva apertamente il suo stato di ansia, disse:

«Questo cambia tutto, il piano è saltato. Dobbiamo rimandare.»

Gli si poteva leggere la paura scritta a caratteri cubitali negli occhi, ma in fin dei conti, come biasimarlo. La ragazza lo interruppe bruscamente:

«Shh! Jakub, non lagnarci con lamentose opinioni che alimentano la tua figura da vigliacco, conosciamo già la tua idiosincrasia per il coraggio. Non rimanderemo. Oggi è il giorno giusto, abbiamo atteso per anni che si presentasse l’occasione perfetta, non posso permettere che tutto salti in aria.» Jakub si ritirò veloce in sé stesso, la testa bassa e le labbra strette.

La ragazza continuò:

«Agiremo così: Jakub, tu sostituisci Mazing alla postazione di vedetta. Baltazar e Prawn, voi due con l’aiuto di Mazing risolvete questa rogna dei corpi. Ci saranno delle tracce di sangue prevedo» disse fissando con sguardo torvo Blazej.

«Sì, ti ripeto che ho fatto il possibile ma…

«Allora trasportate quel che resta dei ricognitori fuori e chiudeteli nel ripostiglio, faremo in tempo ad agire prima che comincino a emanare il puzzo di morto. Coprite le macchie di sangue al meglio che potete. Potreste utilizzare un po’ dell’acido che è in quelle taniche», e indicò con l’indice sinistro una pila di contenitori ammassati nell’angolo della stanza, «insomma, date una bella sistemata!»

Con un cenno indicò agli uomini di muoversi, i quali, senza proferire mezza sillaba, si alzarono in fretta e abbandonarono la stanza.

Quando le porte si chiusero, la ragazza rivolta a Blazej disse:

 «Immagino che i ricognitori avessero una radio per le comunicazioni con sé, anzi, lo so. E forse qualche altro “divertente” attrezzo. Hai recuperato qualcosa signor Rewson, o il tuo è stato un fallimento completo?»

Evidentemente si aspettava di ricevere un “no” come risposta, perché si mostrò piuttosto sorpresa quando Blazej, pieno d’orgoglio, rovesciò sul tavolo il contenuto della valigetta che teneva tra le gambe: due A.G.L.4, pistole che caricavano proiettili speciali che entrando in contatto con la pelle rilasciavano un gas sintetico, e in pochi secondi mandavano in tilt il sistema nervoso (per l’appunto AGL era l‘acronimo di Arma a Gas Letale); la “classica” radio satellitare in dotazione alla divisione dei ricognitori, contrassegnata in modo evidente col marchio dell’Agos; un manganello elettrico e un anello d’oro.

«La radio mi dà l’impressione di essere danneggiata, manganello e AGL invece sapranno rendersi molto utili, e quel coso? Che diamine significa?», disse la ragazza indicando l’anello.

«Questo l’ho strappato a uno di loro», rispose Blazej fiero, «sicuramente l’avrà razziato a qualche povero indifeso, dovevo riprenderlo, sai, per ristabilire l’equilibrio della bilancia dei torti subiti.»

La ragazza sorrise scuotendo la testa:

«Blazej, questa tua ingenua visione del mondo, che definirei “romantica”, è assolutamente, incontrovertibilmente ridicola. Una perdita di tempo e di energia che rasenta la stupidità. Cos’è che hai detto? Ristabilire l’equilibrio della bilancia dei torti subiti?», e scoppiò in una risata, «vedi di metterti in testa un fatto assodato. Queste tue azioni da vendicatore giustiziere di Naproz hanno l’effetto di un pizzico di zanzara sull’Ordine Supremo. Il piano è la chiave del successo. È prendere tra le nostre braccia l’occhio del ciclone e catapultarlo sul Palazzo del “Primo Ophide”, la testa del serpente, è colpire dritto al cuore dell’Ordine con una scarica letale di saette radioattive, è usare le catene con cui hanno imprigionato tutta Kontyn per stringergli il collo fino a farli soffocare nel loro stesso potere!»

«Alla luce di questo, chi potranno mai aiutare le tue dolci fantasie eroiche?»

«Aiutano me!» urlò Blazej. Poi riprendendo la calma, ma ancora rosso in viso, disse:

«Ascoltami. Non tutti abbiamo, o meglio siamo privi come te, della sensibilità», la fissava dritto negli occhi come se volesse penetrarli per giungere a guardare e a parlare direttamente all’anima, «io ho bisogno di una spinta per affrontare l’oscuro baratro che ci separa dalla vittoria, mi serve una motivazione che mi dia il coraggio e la forza necessari per fare ciò che stiamo per fare…»

«Mi perseguita la folle necessità di sapere per chi lottiamo, di sapere che affrontiamo questo pericolo, rischiamo la morte e ce ne facciamo angeli, non per noi stessi, ma per un bene superiore, collettivo. E cioè per tutti coloro che soffrono ogni giorno, schiacciati e calpestati da fame e schiavitù, da leggi e paura. Devo avere la certezza che l’obiettivo non sia liberare Naproz o anche tutta Kontyn, ma la gente che, con molta larghezza e licenza di significato, ci “vive”.»

Le vene intorno alla gola gli pulsavano forte. Fece un paio di ampi respiri, riacquistò il normale colorito e concluse:

«Considerali pensieri da coniglio, da idiota, ingenuo, stupido, come vuoi, ma è così. E anche questo è un fatto assodato.»

Dopo qualche istante, la ragazza riprese a parlare quasi come se avesse ignorato in pieno lo sfogo di Blazej:

«Allora… Darò la radio all’ingegner Vazil che potrà rimetterla in funzione, almeno credo. Tu siediti e riposati intanto che io ripasso per la milionesima volta ogni microscopico tassello di cui è composto il piano. Non possiamo proseguire finché gli altri non fanno ritorno, qualcosa dovrò pur fare per ingannare l’attesa». Lo disse un po’ rivolta a se stessa e un po’ con la voce arricchita da una nota d’accusa rivolta a Blazej, sulla quale egli, apparentemente, sorvolò:

«D’accordo!»

«D’accordo!»

Chiusero così la discussione. La ragazza consegnò la radio nelle mani esperte di Vazil, che non mostrava preoccupazione riguardo all’ipotetico guasto, e poi si mise a pensare ad alta voce:

«Prendiamo questo sentiero… Poi si sale fino alla fognatura… A questo punto entra in gioco il tempo…»

E continuò così finché gli altri non tornarono dalla “pulizia”.  Intanto Blazej, sprofondato interamente in una poltrona di pelle, fissava l’anello d’oro senza mai staccargli gli occhi di dosso. Notò una piccola incisione, non facilmente leggibile, ma con un pizzico di sforzo in più riuscì a decifrarla. L’incisione riportava un nome: “Helena”. Blazej cominciò a viaggiare con la fantasia: chi era? E soprattutto, quale terribile destino le era stato cucito addosso?

Si spalancarono le porte, ora il gruppo era nuovamente unito…

«É tutto sistemato, possiamo andare avanti» disse Pawel leggermente affaticato.

«Bene!», esclamò soddisfatta la ragazza, «riuniamoci intorno al tavolo e ripassiamo le varie fasi del piano.»

Le sue parole non riscossero molta attenzione, poiché tutti stavano fissando l’anulare di Blazej che, alla pari di uno schermo accesso, emetteva una luce brillante. La ragazza cercò di riportare l’ordine:

«Ok signori, questa è l’ultima distrazione che vi concedo», aggiunse sbuffando, «quello è un “Anello Unico”, è raro perché è prodotto solo per chi gode di un certo prestigio», mentre lo diceva, guardò quasi con disprezzo Blazej, «Vazil, mi fai questo favore?»

L’ingegnere intervenne prontamente:

«Nella forma è come un comune anello, la differenza consiste nella possibilità di cambiare incisione, con un margine di tempo e con un’altra scritta preimpostati. In più, quando s’infila al dito, proietta un’immagine olografica dell’incisione. Questo qui è certamente guasto poiché emette solo una luce indistinta.»

«Ah, inoltre, al momento dell’acquisto l’anello è reso compatibile solo e soltanto con il DNA dell’acquirente. Ciò significa che solamente lui o lei può scegliere e poi cambiare tempo e testo. Significa che…»

«Significa che apparteneva a qualche fortunata signora dei piani alti, profumata, ben vestita e in carne», la ragazza aveva ripreso le redini della discussione, «apparteneva alla compagna (il termine moglie era inutilizzato da quasi trent’anni) del ricognitore passato a miglior vita. Ma non importa, è un oggetto inutile e noi non possiamo concederci il lusso di perdere altro tempo.»

Nella sala ora vigeva un religioso silenzio e tutti erano concentrati sulla ragazza e sulla mappa che vigorosamente indicava. Quindi cominciò a spiegare:

«Oggi non farò un discorso in stile “condottiero della libertà” e neppure un lungo e noioso elogio in favore della speranza e della vittoria, questo lo lascio fare ad altri.»

«L’obiettivo, come tutti sappiamo, è neutralizzare il Computer centrale di produzione. Per farlo non serve che vi ricordi che la “Mente”, il software difensivo, deve essere bloccata, anche solo temporaneamente, per riuscire a raggiungere il server centrale e farlo saltare in aria. La sala di controllo e alimentazione è la S-12», inclinò delicatamente la testa verso Vazil in segno di gratitudine, dopotutto, era lui la fonte dell’informazione, «dobbiamo raggiungerla e far esplodere il meccanismo di apertura a riconoscimento. La sala è chiusa ermeticamente e l’accesso è consentito solo a due o tre persone in tutta Kontyn, per questo l’esplosivo è l’unica chiave funzionante di cui disponiamo.»

«Adesso scendiamo nei dettagli», si fece visibilmente più seria, «ci divideremo in tre squadre d’azione. Io, il signor Blazej Rewson e il signor Pawel Praw destabilizzeremo la Mente, togliendo la corrente dall’intero “Palazzo Reale” manomettendo il generatore principale. La seconda squadra sarà composta da Mazing e Jakub», fissò Jakub per assicurarsi che la stesse ascoltando, «il vostro incarico è quello di aprirvi un varco per la sala di alimentazione e di trasformarla in cenere. Mazing conosce alla perfezione tutti i movimenti, perciò assecondalo e fai ciò che ti ordina.»

Jakub stava chiaramente tremando al pensiero di svolgere la sua parte e la ragazza lo intuì (anche il resto del gruppo l’avrebbe fatto se non fossero stati con lo sguardo incollato sulla mappa), ma sorvolò per non distogliere l’attenzione dal piano:

«Infine, il terzo gruppo sarà formato dall’ingegnere, da Baltazar e dalla “piccolina”.»

 A quel punto una giovane e minuta ragazza si fece avanti e disse:

«Sono pronta, mia signora!»

La voce della giovane ragazza, quasi una bambina alla vista, era acuta ma suonava sicura.

«Ne ero certa, piccola», e le fece l’occhiolino, «a voi due l’onere e l’onore della mossa finale, dello scacco matto al regno del terrore che da troppo tempo aleggia padrone incontrastato sulle terre e sui destini degli uomini di Kontyn. Il vostro successo è la “condicio sine qua non” per la libertà di tutti.»

«La vostra missione è quella di svuotare e trasformare in polvere il cervello del Computer centrale di produzione, e ancora una volta, la Mente è il nostro principale nemico. Renderla completamente inoperante è impossibile. Possiamo solo ricavare una finestra di cinque minuti, e in quel breve lasso di tempo voi due dovrete riuscire a introdurvi nella sala e porre fine a questo inferno sulla terra. È tutta una questione di tempistica. Prima entriamo, poi salta la corrente, quindi è possibile l’accesso alla stanza di alimentazione, eliminata quella, la via per il computer centrale è finalmente libera. È una specie di domino, ogni fase deve essere perfetta per permettere la riuscita della successiva, e come ho già detto, l’arco temporale per fare ciò è minimo. È tutto chiaro?»

 Era chiaramente una domanda retorica, eppure una mano si sollevò in aria:

 «Sì Pawel, esprimiti», il giovane emise due colpi di tosse tenendo il pugno premuto contro le labbra e con aria preoccupata, chiese:

«Ho un dubbio. Tutto questo come ci aiuterà? Voglio dire, con la Mente ricostruiranno il computer centrale di produzione nell’arco di due o al massimo tre settimane, e noi avremmo fatto tutta questa fatica e ci saremmo esposti ad altissimi rischi per ottenere in cambio un bel niente.»

A questo puntò Blazej prese la parola per rispondere alla questione sollevata dall’amico:

«Non è proprio così. Il computer centrale si basa su dei modelli innestati al suo interno, l’Agos li mitizza chiamandoli “Gemme del nutrimento”. Sono dati salvati su hard disk, ideati e realizzati prima della “Guerra Infedele”, erano la novità del secolo. Nati come sperimentazione a fini militari, poi trasformati in una radicale possibilità di miglioramento delle condizioni umane. Pensate, più di tutto il cibo immaginabile dalla fantasia di un uomo, prodotto senza lo sforzo di nessuno.»

«So questo perché ho avuto la fortuna di leggere qualche testo e resoconto storico», Blazej arrossì leggermente, «lo scopo della Mente al momento della sua creazione era la protezione del Computer centrale di produzione da attacchi terroristici, e la gestione e pianificazione delle risorse realizzate e del loro stoccaggio. Ora lo difende, ma per tutt’altro motivo. Una macchina salvatrice, l’angelo protettore di tutta l’umanità. Almeno in teoria. Ma il potere rende gli uomini ciechi e.…», si accorse di aver iniziato un discorso ideologico e pesante, quindi si fermò, deglutì e andò avanti, « se privassimo il Computer centrale dei dati delle Gemme non avrebbe più dati sufficienti e adeguati per il suo funzionamento. Da macchina del potere a pezzo di ferro senza alcuna utilità, capite?»

Tutti annuirono tranne Jakub, che con voce tremolante chiese:

«E queste Gemme mangiabili…»

«Del nutrimento!» tuonò la ragazza leader furiosa.

«Sì sì, del nutrimento… Possono senz’altro essere create di nuovo dalla Mente, no?»

Blazej scosse la testa e disse:

 «Qui ti sbagli Jakub. La Mente ha un incredibile potere, senz’ombra di dubbio. Ma “vive” circondata e inebriata da un’aura mistica che la dipinge come un’entità onnipotente, oltre le sue reali capacità, una leggenda che le è stata creata intorno per aumentare la soggezione negli uomini. Non è in grado di ricreare i database del cibo. Le Gemme sono state inventate molti anni addietro da un gruppo di scienziati morti durante la guerra e tutti i documenti concernenti quelle ricerche sono stati distrutti o smarriti. Questo ci porta dritto al cuore della questione. Se… Se noi…»

Tutto il gruppo adesso si stringeva al tavolo, più compatto, più sicuro, più unito.

«Se noi riuscissimo a distruggere le Gemme…»

Pawel lo anticipò in preda all’euforia, terminando la frase:

«Se ci riusciamo, diventiamo uomini liberi! Niente Gemme significa niente potere in mano all’Agos e al Primo Ophide. Non potranno più usare la fame come strumento di controllo. Saranno costretti a fuggire, e se combatteranno, a morire. È anche vero che possiedono un esercito ben armato e corrono molte voci su delle divisioni guidate da robot assassini…», si grattò con forza la folta barba che gli copriva il mento, con aria esacerbata.

Blazej lo rassicurò:

«Sono solo pettegolezzi. Non esiste niente di tutto ciò. Gli piomberà contro una popolazione non più schiavizzata dalla fame, un popolo che li supera in modo ragguardevole, una massa cieca guidata solo dall’instancabile sete di vendetta. E credi che i soldati dell’Agos resteranno fedeli all’Ordine Supremo? No, la loro fede è nel potere e una volta che questo svanirà cambieranno casacca. Sicuramente dovremmo fare in modo che ogni abitante di Naproz sappia di ciò che abbiamo realizzato. La comunicazione è fondamentale.»

A quel punto Jakub s’infilò nel discorso:

«Mi domando perché nessuno abbia mai provato ad assaltare il Palazzo.»

Pawel gli rispose mantenendo a stento la calma:

«Idiota! Secondo te perché? La Mente agisce in maniera perfetta nel difendere il Palazzo. Lo chiude all’interno di un perimetro schermato da uno scudo energetico, nemmeno tutta Kontyn riuscirebbe a oltrepassarlo. Senza contare la paura, la tua cara e intima amica Jakub», e sorrise beffardo, «la segretezza abbinata alle persone giuste, alle informazioni top secret sul funzionamento dei meccanismi difensivi e un piano preparato e studiato meticolosamente sono i requisiti minimi per tentare un attacco. Nessuno prima di noi ha mai tenuto in pugno questa chance. Siamo arrivati fino a qui, è ora di andare oltre.»

Jakub non dava l’impressione di essere del tutto convinto e disse deluso:

«Non mi spiego perché io non sono stato informato prima di tutto ciò.»

«Perché ognuno sa solo ciò che deve sapere», rispose Blazej.

La leader dei “ribelli” fissò Blazej e annuì alla sua affermazione. Poi, con entrambi i pugni, colpì forte il lungo tavolo:

«Si parte! Questa è la prima tappa», disse indicando una crocetta rossa disegnata sulla mappa che risaltava a confronto del grigiore di quest’ultima, «pocanzi ho promesso di non fare pesanti discorsi da giornali di propaganda e manterrò la parola, ma concedetemi questo…», e sorrise apertamente, «riprendiamoci con la forza la libertà che ci hanno negato. Una persona senza di essa è niente, e voi volete essere niente?», la sua voce si accese.

E tutti in coro:                                                                

«No! Illuminiamo la notte!»

«Non ho capito…»

E tutti si levarono in piedi:

«Bruciamo le tenebre!»

«Siete niente?»

«No! Siamo il faro nell’ora più buia della notte, che guida le anime perse come navi nella tempesta verso la salvezza e in questo tetro mondo, riporteremo la luce! La bellezza è così dolce…» La ragazza sorrideva soddisfatta…

Alimentata dalla carica adrenalinica, prese avvio la marcia. Zaini in spalla, certi di ciò che facevano. Mazing li attendeva fuori, assieme al gelido abbraccio delle tenebre che erano calate su tutto e la leggera brezza che rinfrescava Blazej un paio di ore prima, era evoluta in un vento audace che premeva contro il gruppo in movimento, quasi come se gli stesse consigliando di rinunciare e di tornare indietro. Avanzavano in un’imprecisa fila indiana. Mazing era in testa alla spedizione mentre Blazej occupava l’ultima posizione. Un ultimo sguardo indietro. Avevano fatto pochi passi ma, poiché procedevano in salita, tra la natura rigogliosa, il quartier generale non era più visibile. Blazej fissò l’anello d’oro che si era messo al dito e che proiettava l’ologramma, sfalsato e poco comprensibile, di una scritta:

“Helena sei il mio stesso respiro.”

Anche se apparteneva al più sudicio dei combattenti dell’Agos, quel piccolo oggetto dimostrava l’esistenza e la sopravvivenza dell’amore anche in quell’era dell’uomo in cui dominava il terrore e la paura, e quello era l’importante. Blazej lo ripose con cura all’interno della giacca e si accorse di essere distante di una ventina di metri dal resto del gruppo. Accelerò il passo per raggiungerlo ripetendosi ad alta voce, quasi canticchiando:

“Quando sto con leiii, nulla più m’importaaa,

Se tu non ci seiii, la mia vita sembra stortaaa…”

Mentre nuvole minacciose, più scure della notte stessa, compatte, sorvolavano loro teste.

“Quando sto con leiii…”

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