LA SINDROME DI OTELLO di Catia Capobianchi

genere: ROMANCE

«È finita!»

«Così, senza una parola?»

«Sì, così.»

«E poi?»

«Se n’è andato.»

Clara mi guardò sconcertata. Gli era impossibile credere che per l’ennesima volta, fossi stata mollata. Osservai la foto di Franco, mi disse di guardarla ogni volta che gli mancassi.

Beh… l’idea venne da me, gli chiesi una sua foto, e gliene diedi una anch’io, sperando che nei momenti che non eravamo insieme, la guardasse pensandomi. Uno scambio frivolo, lo so, pensai, però, che forse avrebbe rafforzato il nostro rapporto, unendoci nei momenti in cui eravamo distanti, o almeno così sperai. La sera al ritorno mi abbracciava teneramente, e immancabilmente finivamo, rotolavamo sul letto del piacere.

«Mi ha ridato la foto…»

«Margherita» disse Clara, con una punta d’ironia che quasi detestai «ti sono vicino nel tuo dolore, ma la tua foto è passata in tante di quelle mani! Ti rendi conto? Ogni volta che incontri un uomo, dici che è quello giusto, e gli rifili la tua foto! Non viviamo in una metropoli, la gente mormora, sai come sono gli uomini, si confidano le avventure…»

«Per me non erano avventure! Ci credevo!»

«E perché le tue storie durano sempre così poco? Te lo sei mai chiesta?»

«Non mi sei di aiuto! Sembro io il carnefice! Sono loro che mi hanno lasciato!»

«Si va bene» disse cambiando tono, notando che mi stavo alterando «allora prendi una pausa, hai il lavoro…»

«Lavoro, pausa, ma di cosa stai parlando? Io mi sento sola, ho bisogno di qualcuno vicino a me! Che senso ha… se no, vivere.»

«Si certo, ma di tutti gli uomini che hai incontrato, c’è né uno che veramente ti ha reso felice?»

«All’inizio sì.»

«E dopo?»

Sbuffai, sapevo cosa volesse approdare, e cercai di evitare di giungere nel difetto, che puntualmente era il coltello, che recideva i cardini.

Si avvicinò posandomi una mano sulla spalla:

«Tu lo sai dove sbagli, forse può anche essere che non sia proprio un errore, ma dovresti trattenere un po’, queste emozioni» esitò, cercando le parole, scartabellando fra i pensieri il modo più conciso, ma che non mi ferisse «sei troppo passionale, non puoi diventare gelosa di una persona che appena conosci. Per essere gelosi deve esserci un motivo, comprendo che è parte della tua indole ma, cerca di capire, un uomo così si spaventa. È ovvio che inizialmente possa far piacere, ma se la cosa diventa assillante, è interpretato come un pericolo, e gli uomini fuggono a ogni forma di pericolo, soprattutto emotivo».

«Ma io lo amo!» Urlai.

«Chi?»

«Franco!»

«Franco è l’ultimo?»

«Dai non dire così, mi fai sentire una poco di buono.»

«Scusa, non era nelle mie intenzioni…» sospirò «quanto è durata con Franco?»

«Due mesi, circa…»

«E con Claudio?»

«Stai facendo un censimento?»

«Rispondimi, con Claudio?»

«Non lo so! Tre, quattro mesi!»

«E con Giacomo?»

«Clara! Che significa, che importanza ha?» chiesi inasprita.

Sentii un prurito salire su per le gambe fino al petto, per fermarsi sul viso, e cominciai a grattarmi nervosamente, sembravo un’invasata, non riuscivo a fermarmi.

«Calmati, hai preso le gocce?»

«Sì.»

«Quante?»

«Le solite» dissi velocemente, cercando un modo per deviare il discorso.

«Margherita, l’ultima volta sono arrivata con l’ambulanza! Mi costringi a levartele!»

«Mi doleva la testa, ero agitata, così ho preso l’antidolorifico, e dopo un po’ l’ansiolitico!»

«Non puoi assumere l’antidolorifico, l’ansiolitico e poi berci sopra. Se ti vuoi suicidare, dimmelo!»

«Ho bevuto solo un aperitivo, attendendo che facesse effetto l’ansiolitico, non pensavo di poter star male. E poi mi aveva appena lasciato Claudio, ed ero giù, e tu non rispondevi! Se ci fossi, quando ho bisogno di te!»

«Non posso essere presente, ventiquattro ore su ventiquattro! Potevi lasciarmi un messaggio, ti avrei richiamato!»

«Avevo bisogno di te in quel momento!»

«Calmati, vado a prenderti un bicchiere.»

Nello stesso tempo suonò il cellulare, la vidi allontanarsi nella stanza accanto.

Non so quanto tempo passò, minuti? Mi sembrarono ore.

Volevo parlare, sfogare l’angoscia che mi attanagliava, capire perché non riuscissi ad avere, una relazione stabile.

Quando tornò, si scusò riferendomi di un problema con un cliente:

«Credo di essermi sbagliata, riguardo al tuo problema».

«Cioè, mi devo preoccupare?»

«Queste emozioni, sensazioni, che non riesci a trattenere, quando superano il livello di guardia, oltrepassano il traguardo della razionalità»

«Non afferro.»

«Inizialmente credevo che la tua fosse una forma di possessività, dovuta alla mancanza di tuo padre, perdonami se te lo rammento.»

«Niente» dissi tristemente.

«Poi con l’accumularsi delle tue sfortunate vicende, che si perpetuano proiettandosi tutte allo stesso modo, ho maturato l’idea, che tu soffra di gelosia patologica.»

«Questo credo di averlo capito…»

«Sì, ma vedi» posò sul tavolo il taccuino «quello che non riesco a mettere a fuoco, è che tipo di gelosia».

«Perché si possono definire più gelosie?»

«All’inizio pensai si trattasse di gelosia ossessiva, dove il dubbio sull’infedeltà del partner è lacerante, e non si riesce a zittire. Tu sei sempre alla ricerca di segnali che possano lenirlo, confermazioni per smentirlo. Ti ricordi quando trovasti fra le cose di Giacomo, uno slip da donna? Gli feci l’interrogatorio di terzo grado, fosti peggiore della Gestapo.»

«Ah, ah, ah! Fu poi la sorella, a dirmi di averle messe tra le sue cose per errore.»

«E quando assumesti un detective, per indagare sulle attività di Claudio? Eri pienamente convinta della sua infedeltà, solo perché la sera andava ad allenarsi in palestra. Si accorse di essere spiato, e all’inizio la prese a ridere, ma continuasti a farlo pedinare. Lui percepì, che in te che c’era qualcosa di più profondo, di una gelosia per altro infondata, me lo disse quella sera, a cena da Marco. Ti avvertì di allentare la presa, ma tu che feci? Il contrario! Forzasti il pedinamento, arricchendo le tasche del detective, cui unica mansione era di starsene in macchina, ad aspettare che Claudio finisse di allenarsi, per poi spostarsi fino al circolo.»

Scrollai la testa, cercando una giustificazione al mio comportamento.

A distanza di tempo, mi reputai una stupida con dei veri problemi, ma in quelle circostanze, fui convinta che i miei gesti fossero legittimi. Non volevo essere presa in giro, e derisa da amanti scaltre. Che idiota! Perché agivo in quel modo?

«Cominci a capire? Tutti i giorni lo sottoponevi a martellanti interrogativi, controllando minuziosamente il suo abbigliamento, e ficcanasando nel suo cellulare. Ricordi quando mi dissi di renderti conto, delle tue esagerazioni? E che non riuscivi a smettere di levarti dalla mente, certi pensieri assurdi? Lui ti pregò di smetterla di essere malfidata, che le tue erano fantasticherie, e tu, oltre a dirgliene di tutti i colori, gli tirasti una sedia» prese un attimo di pausa prima di continuare, come se volesse dar tempo alle sue parole, di penetrare nella mia mente per assimilarle «quel giorno Claudio venne da me pieno di lividi, e se non fosse stato che sei una donna, non l’avresti passata liscia, stanne certa! E non so come ho fatto, a convincerlo a non denunciarti!»

«Allora perché mi ha lasciato?»

«Cosa devo fare con te! Un’altra volta gli hai ferito il braccio, con un coltello da cucina! Gli hai lanciato una sedia! Non ho parole!»

Si alzò spazientita, dirigendosi verso la finestra, guardando distrattamente fuori.

«É stato un errore, non volevo…»

«Margherita…»

«Ho sbagliato. Non so cosa mi abbia preso, non riuscivo a controllarmi! Lui però ha ammesso di avermi tradito!»

«L’hai costretto!» urlò spazientita «l’hai accusato d’infedeltà, e nella speranza di porre fine a quella situazione insostenibile, ha ammesso un tradimento inesistente! Invece di placare la tua ira, dopo aver ottenuto ciò che volevi sentirti dire, hai intensificato la tua aggressività, per tentare di strappargli altre infedeltà! Ti sei bevuta il cervello?»

«Ti ho detto che mi dispiace!»

«Ma non capisci, che così facendo, sei tu l’artefice della fine delle tue relazioni! La tua gelosia è giunta oltre, questi atti violenti nei confronti dei tuoi partner, rischiano di portarti dritto dentro un abisso. Oltre a danneggiare gli altri, fai male a te stessa!»

«Ma è successo solo con Claudio!»

«No, ti sei dimenticata di Giacomo? E non oso chiedere, com’è finita con Franco. Devi smettere, devi fermarti!»

«Sono malata eh? Dai dimmelo, ammettilo! Sono malata!» ripetei agitata.

Il prurito si accentuò assieme al tremore. Mi sentì confusa, estranea a me sé stessa, come se fossi uscita dal film della mia vita. Mi alzai specchiandomi sul grande specchio, e vidi un mostro; una mantide religiosa, che afferrava gli uomini, e se li mangiava. Gridai dallo spavento, e mi tastai per sentire se fossi ancora io. Mi tirai i capelli, e sulle mani vidi spuntare vermi, che caddero sui miei piedi. Cercai di mandarli via, ma questi rimanevano appiccati, moltiplicandosi. Non sapevo cosa fare, ero terrorizzata, quando sentì uno strattone:

«Margherita!»

«Che cosa è successo?»

Mi osservò notevolmente preoccupata, mi trascinò sul divano sedendosi accanto, con un bicchiere colmo d’acqua. Ero sudata, scompigliata, come se avessi fatto a botte:

«Chi mi ha ridotto così?»

Clara m’invitò a bere, mi disse di aver messo un calmante. Non obiettai, né gli chiesi quale fosse, e bevvi tutto di un fiato. Poi alternando la sua attenzione, tra me e il taccuino, mi chiese cosa ricordassi.

«Su cosa?» Domandai perplessa, mentre osservavo il suo frettoloso scribacchiare «che cosa stai scrivendo?»

«Di te.»

«Cosa?»

«Appunti…» rispose con noncuranza che detestai. Non capivo perché certe volte, non era più la mia amica cui confidavo il mio cuore, ma un dottore che mi esaminava.

Ah, ah, ah! Dottor Jekyll e Mister Hyde… pensai … l’amica che diventa la psicologa strizzacervelli. Ma chi è Dottor Jekyll, e chi Mister Hyde?

«Se stai scrivendo di me, lo ritengo di mio interesse, e voglio essere informata! Non sei la mia migliore amica?»

«Sì, certo. Ma sono anche una psicologa. Pochi minuti fa hai avuto un attacco» disse dietro gli occhiali blu, e i capelli rossi, raccolti da una parte.

«Porca miseria! Sto impazzendo? Ho paura, aiutami! Parla chiaro, che cosa ho?»

Clara respirò trattenendo il tempo in un lungo silenzio, poi mi guardò attentamente, e disse:

«Come ti ho detto, ero convinta che soffrissi di gelosia ossessiva, che con il tempo si è accentuata, e mi sto orientando a riflettere in un’altra direzione. Analizzando il tuo malessere, mi sono indirizzata verso la Sindrome di Mairet, ma non ne sono certa, che è una condizione indicata anche come Iperestesia Gelosa. Nel tuo quadro clinico di confine tra normalità e patologia, le convinzioni che ti portano alla gelosia sono floride, e occupano tutta la tua vita, provocandoti un’esistenza sofferente. Così, della tua gelosia hai costruito uno strumento di vita, una compagna inseparabile, in ogni tua relazione. Quello che un po’ mi rassicurò nei tuoi discorsi antecedenti, fu che nonostante tutto, mantenessi un costante confronto con la realtà, ma poi quest’ossessione è dilagata irrompendo i margini, scivolando nell’incoerenza, e nella perdita di coscienza».

«Già è vero, ci sono dei momenti che non ricordo.»

«Ho visto, e questo mi spaventa. Infatti, le scusanti che usavi per giustificare la tua gelosia, pur facendo acqua da tutte le parti, potevano ancora collegarsi alla realtà, certo, un po’ annebbiata. A un certo punto hai smesso di confrontarti, dando per scontato, e di diritto la tua gelosia, cancellando ogni dubbio sulla veridicità delle tue accuse. Ho cominciato seriamente a preoccuparmi. L’ilarità con cui raccontavi le giornate che trascorrevi con Claudio, erano solo una parentesi che apriva il varco nel tuo mondo d’insicurezza, dove la gelosia regna in silenzio, aspettando il trono.»

«Mi piace quando ti esprimi così. Sai… avrei dovuto ascoltarti…»

«Sì.»

«Se non m’innamoravo dei miei clienti forse…»

«Saresti stata una bravissima psicologa!»

«Davvero?»

«Certo!»

«Il problema è che non ricordo più nulla.»

«È normale, se non eserciti. Ricordi cosa ti dissi? Continua a studiare, e non hai voluto ascoltare i miei consigli, ti sei accontentata del tuo nuovo lavoro, ed è cominciata la lunga maratona alla ricerca dell’amore. Penso che quando si voglia assennatamente una cosa, non arriva, anzi fugge. A te è fuggita assieme alla razionalità. Non offenderti, non è un’accusa né un rimprovero, però la cosa è degenerata, e non riesci più a controllarla!»

«La Sindrome di Otello! Gelosia Delirante o Delirio di gelosia» ricordai all’improvviso, nonostante il tempo trascorso.

«Ecco! Sì, esatto!»

Mi guardò stupita.

«Ah, ah, ah!»

Risi istericamente.

«Lo trovi divertente?»

«Pensando all’accaduto, ora lo trovo buffo, uomini che si fanno menare da una donna!»

«Si sono fatti menare, per non dire altro!»

«Sì, sì, e allora? Emetti la sentenza!»

«Margherita» mise via il blocco notes, afferrò la mia mano «da quanto tempo ci conosciamo?»

«Dalle superiori» risposi sorridendo con nostalgia.

«Rammenti quando facemmo il patto di sangue?»

«Ah, ah, ah! Certo che mi ricordo, che matte, vero?»

«Ci ho sempre creduto. Quel giorno giurammo che non ci saremmo mai separate, e che non avremmo permesso a nessuno, d’infrangere la nostra amicizia. Pensavo che tuttora fosse anche per te, la stessa cosa.»

«E lo è!»

«Allora ascoltami per una buona volta, sai quanto ti voglio bene. Dopo che mi hai detto che prendevi quei farmaci, ci sono rimasta male.»

«La tua collega» sbuffai.

«Perché non mi hai interpellato?» domandò quasi offesa.

«Mi vergognavo…»

«Di me? Perché?»

Dondolai la testa da una parte all’altra, non volli dirgli di come mi sentivo inferiore nei suoi confronti.

Clara si affermò come psicologa, aprì uno studio tutto suo, e i clienti aumentavano di giorno in giorno, ed ebbe anche dei riconoscimenti.

Mentre io? Non finii gli studi, e sapevo di avere qualcosa che non andava, ma non volli ammetterlo a me stessa, e gettandomi tra le braccia di uomini appena conosciuti, auspicavo in un vero amore, con la speranza di trovare la cura alla mia insofferenza.

Sapevo di star male, ma non riuscivo ad accettarlo. Io che volevo curare gli altri da forme patologiche, psichiche, io, ne soffrivo. Sapevo anche che sarei dovuta ricorrere a un aiuto, ma volli associare la mia malattia all’insicurezza, che dopo la morte di mio padre, s’intensificò.

Ricordo nei miei tirocini durante gli studi, una giovane ragazza mi raccontò di essere stata abusata dal padre. Inorridii e, prendendo subito le sue difensive, andai dal padre gridandogli parole oscene, lui mi denunciò, e la mia insicurezza aumentò.

Feci un passo falso, non era così che dovevo agire.

L’istinto mi condusse all’azione, senza dar tempo alla ragione, di fornire le giuste manovre per muovermi, nel modo più appropriato.

Dopo un po’ di tempo, seppi da voci di corridoio, che la ragazza in questione fuggì da casa, a seguito di una discussione con il padre, che finì drasticamente. Il padre fu denunciato dalla madre, e arrestato per molestia, e delitto d’incesto, rimase in galera per due anni, poi uscì per buona condotta. Fui basita quando venni a sapere, che anni di abuso, furono ripagati con due anni di galera. L’unica consolazione fu la perdita della patria potestà. 

Con il passare degli anni, la situazione non migliorò, e con il tempo notai il mio peggioramento.

Un giorno mi svegliai nel tardo pomeriggio sul divano, ero distrutta; scoprì di essermi tirata la maglia, tanto da strapparla da un lato.

Cercai di rammentare l’accaduto, forse ebbi un incubo, e senza volere mi riducevo in quel modo, pensai. Oppure, in stato confusionale, caddi in una sorte d’ipnosi, in cui non dominavo la mente, e ignara delle azioni, o visioni di cui rammentavo solo, che provavo a difendermi dai mostri, che assumevano varie sembianze; scarafaggi, vermi, o qualsiasi animale orripilante.

Non raccontai nulla a Clara, per non preoccuparla, e andai da una psichiatra di nostra conoscenza.

Dopo alcune sedute, mi spiegò che la mia patologia non era da sottovalutare, e disse che forse soffrivo di – psicosi bilaterale maniacale a cicli rapidi, ma che avrebbe dovuto approfondire.

Gli rammentai che gli episodi non erano frequenti, ma sporadici, e che i miei stati d’umore, erano un’altalena di emozioni, perché causati dalla sofferenza di mal d’amore.

Dopo altre sedute, ricordai un episodio, quando da piccola caddi in una buca, piena di scarafaggi e vermi, mi sembrò un pozzo senza fine, un ricordo che avevo sotterrato. Poi dopo la morte di mio padre, iniziò l’inarrestabile ricerca di un uomo, e la mia possessività ed estrema gelosia, poteva essere la risposta agli attacchi, che non riuscivo a gestire.

Dentro di me, fui sicura che solo l’amore, potesse essere l’antidoto al mio malessere. Finito il ciclo di sedute, venni a sapere con rammarico che Clara, scoprì dei miei incontri con la psichiatra, e degli psicofarmaci che assumevo.

«Oltre a una psicologa, sono la tua migliore amica… spero, vedrai insieme ce la faremo. Dovremmo iniziare tutto da capo, ripercorrere la tua infanzia, trovare quelle lacune che ti oscurano le idee, capire qual è l’input che fa scattare la scintilla.»

«Non mi va di ricordare…» risposi.

«È proprio qui che sbagli! Pensi che rifiutando il passato, riuscirai a costruire un futuro?»

«Non voglio ricordare!»

«Va bene fai come vuoi! Sappi però, che così aggraverai la tua situazione! Io posso aiutarti, dammi una possibilità. Non ti fidi di me?»

Abbassò lo sguardo in una smorfia di dolore.

Non riuscì a trattenere una lacrima, che scivolò sulle labbra, ne assaporai il gusto amaro. Ecco, quel momento era arrivato, e dovevo uscirne, come potevo fare? Bussarono alla porta, la segretaria l’avvisò, che era in ritardo per il prossimo appuntamento, e la sentì dire di rimandare.

«Sarà per la prossima volta» intervenni.

«Ma perché ti ostini a venire in studio? Sai benissimo che a casa mia avremmo più tempo! E sai che non ho nulla in contrario.»

Alzai le spalle con un fare rassegnato:

«Diciamo che qui mi sento più una a mio agio… oltre a essere malata sono pericolosa?»

«Potrebbe succedere di nuovo. Se comprendessi la fonte del tuo malessere, se solo ti aprissi, invece di parlarmi solo delle tue disavventure.»

«Non dovrei?»

«Certo non fraintendermi, ma non è l’unica strada per trovare te stessa.»

«Per essere me stessa, devo incontrare l’altra mia metà.»

«No, te stessa la devi cercare nel passato, per camminare nel presente» suggerì Clara.

La guardai nascondendo il dolore, e i suoi occhi si accesero di dubbi:

«Vorresti farmi intendere, che sei alla ricerca della chimera che assumerà le sembianze di un cavaliere errante, che t’isserà sul suo cavallo bianco, e con il suo amore ti curerà le ferite?»

«Perché no!» affermai sorridendo. «Tutto può essere»

Sospirò sconfortata girando attorno al divano, poi mi squadrò come voler leggere i miei pensieri, ma trovò un muro alto, dove lei non aveva il lasciapassare. Alla fine, si rassegnò, e si sedette sul divano:

«Per ora hai vinto. La tua mente è una miriade di pensieri, di cui non riesco a ghermire la trama, del romanzo che hai costruito».

Passarono due mesi dall’ultima volta che la vidi.

Non risposi alle sue telefonate, e non mi feci trovare quando venne a cercarmi a casa.

Un giorno, entrai senza preavviso nel suo studio, a dispetto della segretaria, che non voleva farmi entrare senza appuntamento, secondo me gli stavo antipatica.

Quando Clara mi vide, corse ad abbracciarmi, poi volgendosi al paziente, si scusò per il contrattempo, e che purtroppo dovevano terminare la seduta.

Il signore non fu d’accordo, e la minacciò che non sarebbe più venuto. Lei si scusò ancora, e promise che per il disagio, non gli avrebbe fatto pagare la seduta.

Fu una buona proposta, perché il signore mantenendo l’espressione seria, accettò, in fondo non mancava tanto alla conclusione.

Quando fummo sole, ci osservammo nel caotico silenzio che ci circondava. Mi sedetti sul lettino, Clara prese taccuino e penna, poi sorridendo ironicamente, disse:

«Mi dica.»

Presi fiato riavvolgendo gli ultimi avvenimenti accaduti, mi concentrai in una sorta di déjà vu, e cominciai a raccontare:

«Ho incontrato una persona».

«Sì…»

«Devo premettere che è un bellissimo ragazzo.»

«Non avevo alcun dubbio!»

«È dolce.»

«Sì…»

«Sa ascoltare, o perlomeno è interessato a quello che dico.»

«Ah!»

«È molto attento, e premuroso.»

«Poi?» incalzò impaziente.

«Mi ama.»

Non so se diede importanza a queste ultime parole, o forse fece finta di non capire.

«Da quanto tempo state insieme?»

«Da due mesi.»

«Il tempo, da cui non ti ho più visto?»

«Esattamente!»

«E dove vi siete incontrati?»

«Qui.»

«Qui?»

«Non dentro lo studio.»

«Ah! E dove più precisamente?»

Mi analizzò, cercando di denudare una benché minima espressione, che potesse far crollare la scorrevolezza del mio narrare, ma non ve ne trovò. Poggiò il gomito sulla gamba, mentre la mano reggeva il mento, e notai leggermente vacillare la sua professionalità nell’esitazione.

Poi mi ripeté la domanda:

«E dove precisamente?»

«Chi?» sghignazzai.

«Lui, il tenero amante.»

«All’entrata del portone. Diciamo che ci siamo scontrati, e lui mi ha chiesto in che piano fosse la psicologa.»

«Bene bene, e che gli hai risposto?»

«Ovvio, al quarto piano!»

«E lui?»

«Mi ha chiesto se potevo accompagnarlo, era la prima volta…» sistemai un ciuffo di capelli che mi copriva la vista «gli ho detto, va bene, perché no. La cosa mi sembrò un po’ comica. Prendemmo l’ascensore, e notai una perplessità sul suo volto, gli chiesi cosa lo turbasse, rispose di non essere sicuro di voler andare avanti. Lo rassicurai affermando la tua bravura, che ti conoscevo, ma, e.…»

«Prosegui!»

«Non è così semplice andare da uno psicologo, e aprire il proprio cuore con annessi. Anche se ci si troverà davanti a una figura professionale, che manterrà privato tutto quello che dici, nasce il dubbio se sarà all’altezza di comprenderti, se ti prenderà per pazzo, o magari è più pazzo di te, oppure ti guarderà con disprezzo. Le ipotesi si concatenano una dietro l’altra, e il timone dell’incertezza prende sopravvento. Sei davanti alla porta, dove c’è una targhetta immobile, sublime, con scritto Dott. etc. Stai per premere il pulsante che avvertirà la tua presenza, la mano si appesantisce, e senti di non potercela fare. A volte riesci ad andare fino in fondo, altre, torni indietro con il cuore gonfio, e la mente ancora più stanca.»

«È questo che è successo a lui?»

«Sì.»

«E anche a te?»

«Siamo tornati indietro» tergiversai «ci siamo infilati in un bar. Abbiamo preso un caffè, anche lui lo preferisce come piace a me, lungo, e tanta panna.»

«Questo non dice niente.»

«Mi ha invitato a cena.»

«Ci avrei giurato» rispose con tono, all’apparenza impassibile.

Fui sicura, che quello che le stavo raccontando, la incuriosì dannatamente, e che stesse cercando di mantenere la sua professionalità, ma che la lingua gli prudesse, non certo per ammettere, che c’è sempre un’eccezione che può cambiare la regola.

«A lui piace la cucina giapponese, ah, ah, ah! Come a me!»

«Anche questo non è rilevante.»

«Siamo andati al cinema, e abbiamo scelto un film di fantascienza, sai quel genere futuristico che tanto adoro» esitai un attimo prima di continuare. Percepii il suo interesse crescere, e toccavo la sua impazienza, che mi esortava ad andare avanti. Infine, saziai la sua bramosia, pronunciando le fatidiche parole. «Mancavano pochi minuti alla fine del film, quando lui adagiò il suo sguardo languido, ricco di speranza, sui miei occhi, dicendomi di sentire qualcosa di veramente nuovo, e sentiva che la sua vita, stava prendendo una svolta. Gli ho domandato se fosse un presagio positivo, e mi ha detto, che se anche non lo fosse stato, avrebbe corso il rischio».

«Non dirmi che ti ha detto…»

«Sì», risposi beata in un’immensa felicità «mi ha detto di essersi innamorato di me, dal primo momento che mi ha visto».

«Non è possibile!»

«Perché?»

«Non ci si può innamorare con uno sguardo, è da adolescenti! Dai! Ancora credi alle favole!»

«Il sogno può diventare realtà, perché no? E poi che c’è di male!»

«Dunque sei innamorata?»

«Sì.»

«Ne sei convinta? E sei sicura che anche lui lo sia?»

«Sì!»

«E ora che pensi di fare?»

«Di amarlo e di farmi amare, che domande!»

«A proposito… come si chiama?»

«Giusto, non te l’ho ancora detto!»

 Mi volsi ad ammirare il cielo, che sembrò disegnato a tratti da un pennello, spinto da una mano folle, che esplose in un arcobaleno di emozioni.

«Allora? Mi vuoi dire il suo nome?»

«Già, … si chiama Otello!»

LA SINDROME DI OTELLO di Catia Capobianchi

genere: ROMANCE

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