LA SOFFITTA di Stefano Giraldi Ceneda

Non sapeva se si sarebbe affacciata quella sensazione, dolce nella sua originalità, ma ingannevole; né per quanto si sarebbe conservata.
Tiziano ne leccò il miele, raccogliendolo dalla superficie delle labbra, mentre le dita intirizzite solcavano la maniglia.
Sulla soglia di pietra grezza, l’odore lo paralizzò.
Si era avventato sulle sue narici e si presentava disomogeneo, addizionato: combinava muffa fiorita, mobili tarlati, resine e polvere; e il sentore complessivo era l’essenza stantia di un luogo in decadenza stagnante.
Tiziano riuscì comunque a chiudere la porta alle sue spalle.
Non ci sarebbero stati rumori ostili, né in entrata né in uscita: era ciò che desiderava, che aveva sempre desiderato.
Dopo che i polmoni avevano ripreso a scambiare aria, Tiziano focalizzò uno scatolone dall’aspetto anonimo, deformato dall’umidità, che era incastrato sul fondo della soffitta.
Vi si avvicinò felpato e cauto, sfidando l’inclinazione di una delle falde del tetto, che aumentava progressivamente compromettendogli il passaggio.
Affrancò lo scatolone dall’assedio di sgabelli e sedie scheggiati e ne scostò i lembi.
Nella luce fioca e tremula da quaranta watt, le mani frugarono alla rinfusa per pochi secondi, palpando forme e consistenze delle cianfrusaglie. Poi, ogni movimento cieco di polpastrelli e unghie si fermò.
Le mani emersero dall’abisso di cartone con una locomotiva rossa, due vagoni celesti, ruote e assali verdi.
Un treno di legno.
Tiziano rimase accosciato sotto la falda, curvo e rattrappito; mentre il bulbo della lampadina a incandescenza, agitato dagli spifferi, tintinnava contro il telaio del lucernario.
Tastò l’assemblaggio dozzinale di quei miseri pezzi di pioppo slavati dall’usura; quindi portò il giocattolo al suo petto in un atto di possesso geloso: un’orgogliosa esclusività che gli faceva mormorare a denti stretti: «È il mio treno».
Incrociò le gambe e si appallottolò accanto allo scatolone. Dopo le narici, i polmoni e la cavità addominale, l’emotività ruppe gli argini e dilagò con tremiti e fiato sincopato.
E il cuore era una mitragliatrice spianata sullo sterno.
La soffitta era soffocata dal silenzio. Ma anche se non fosse stato così, non sarebbe cambiato niente.
L’elettricità tesa e tenace di Tiziano schiacciava ogni sollecitazione ambientale e fisica: anestetizzava dolori e avrebbe tacitato rumori.
Ragione e concretezza si erano appisolate nella culla di un istinto ancestrale, mentre la postura innaturale che contorceva quel corpo risultò lieve.
Tiziano pigiò lo scatolone contro la grata di una finestra a bocca di lupo. Gli occhi erano blindati nelle geometrie aeree del treno: le corse sfreccianti e fumose di carbone su binari affondati nei prati, per stazioni parate a festa, con pensiline lucide e facciate dall’intonaco cachi. La felicità galoppante del gioco che veicola un sogno di cui non si conoscono né la genesi né l’impatto che potrebbe avere con il muro del reale.
Quando, minuti a seguire, Tiziano sollevò le palpebre, le guance erano bagnate.
Gocce di gioia o di pianto? Sulle labbra le lacrime hanno tutte lo stesso sapore.
Le falangi continuavano ad artigliare le estremità del treno come se volessero marchiarlo, personalizzarlo. O iniziare a distruggerlo.
Dabbasso si levò intanto una voce.
Era ostinata, strozzata: doveva essere cresciuta di almeno un’ottava da quando aveva preso a percuotere l’aria.
Tiziano ricacciò locomotiva e vagoni nell’abisso e si condusse verso la soglia.
Spense la luce; poi, tutto il resto.
Infilò la ripida scala che lo avrebbe accompagnato con i suoi scricchiolii fino all’ingresso quadrato del piano nobile.
«Mamma, mamma, mamma!» gridò. Solo gli occhi erano spalancati. Anche la sua voce sarebbe stata ostinata e strozzata, al pari di quella che era sicuro di aver sentito.
E che sembrava insistere.
La voce di una donna in pena per lui e che per lui non avrebbe esitato a sacrificare la vita stessa.
«Mamma, mamma!» si esasperò. «Arrivo, sto scendendo!»
Ma nessuno rispose alla sua accorata rassicurazione.
«Mamma, mamma!»
Silenzio, ancora.
La mamma non c’era. Non c’era più.
Gli occhi si rimpicciolirono piano piano, diluendo la loro espressione allarmata e impaurita; precipitarono sui gradini consunti di ciliegio. Il viso aveva perso l’ingenua agitazione sulla pelle liscia, per assorbire il disincanto distillato dalla consapevolezza di quanto siano barbare le poche certezze della vita.
Quella vita che regala per poi rivendicare il dono.
Tiziano tamponò le lacrime e rallentò l’andatura.
«Scusami» disse, giunto in fondo all’ultima rampa. «Avevo la testa infilata in un baule.»
La voce, incrostata di catrame e rimpianti, si arrampicava in una giustificazione non richiesta.
Lara gli esaminò i pantaloni, che erano impolverati solo all’altezza dei glutei; salì poi con lo sguardo per studiare il viso che aveva davanti: stropicciato e dalla barba incolta, ma senza traccia di sporco; così come le mani, mosse da un tremore discontinuo.
Ogni obiezione era superflua.
La spinta propulsiva di abbracciarlo non sarebbe stata un atto d’amore, ma un’affermazione effimera della sua superiorità emotiva, buona solo a infliggere umiliazioni.
Cinque anni di matrimonio le erano bastati per capire il suo uomo: capacità e fragilità spalmate su un metro e settantasette.
«Non ho trovato niente» si difese Tiziano. «Probabilmente è tutto stipato in garage.»
«Certo, vedrai che è proprio così.»
«È un problema se continuiamo nei prossimi giorni a cercare?»
«No, non lo è, tesoro.»
Sotto lo sguardo della moglie, Tiziano esplorava con moto circolare il salotto spettrale: la tv spenta, le tende tirate in odio all’invadenza dei raggi solari. La rotazione delle pupille molli su quelle penombre fu lentissima: una stilettata per ognuno dei centottanta gradi dell’angolo piatto delle reminiscenze. Il silenzio lo stava colpendo più dell’abbandono, alimentando quell’assenza che si rifiutava di accettare.
«Intanto porto in macchina queste cose» disse Lara, captando il bisogno implicito del marito, estraneo a se stesso in quella porzione non casuale della stanza. Indicò due sporte colme di cartelline, fasci di bollette, raccomandate e ricevute.
«Ti aspetto là.»
Tiziano annuì, distante, distratto.
Disse: «Faccio un ultimo giro per vedere se c’è quello che mi serve nei cassetti della scrivania, al piano di sopra».
La bugia era commiserevole, e gli occhi castani di Lara si dissolsero sul tappeto a losanghe. Prima che accadesse l’irreparabile, si rifugiò dietro un sorriso di congedo e guadagnò rapida l’uscita. Era sicura che il marito non si sarebbe staccato dalla piastrella di gres su cui sostava.
Non si sarebbe staccato dallo schienale di quella poltrona.
Finalmente solo, guardò il vano della porta che immetteva nella cucina. Un sorriso triste gli ammorbidì le fattezze che lo stato di tensione aveva addensato. Quindi, in un crescendo impercettibile, si illuminò.
«Vieni, vieni» sussurrava. Il tono era segreto, flautato. Il tono di un bambino che, pur senza comprendere, percepisce di chi possa fidarsi. Era il caso di sussurrare, solo sussurrare, perché stava svolgendosi un patto a due che nessuno avrebbe dovuto scoprire.
Non ripeté l’invito.
Certe cose non necessitano di repliche: le troppe parole ne rubano la magia immanente.
Certe cose si avvalgono di una semantica che ripudia suoni e fiato.
Non servì che Tiziano soggiungesse: «Siediti», perché era una conseguenza fluida, spontanea.
Attese un istante e poi prese a massaggiare la poltrona: ne accarezzò lo schienale con un movimento plastico e voluttuoso, cesellato da una tenera abitudine. Plasmò la testa di riccioli bianchi in cui si imbrigliavano le dita; sentì l’acqua di Colonia sulla pelle stanca, solcata dagli anni, il sapone di Marsiglia misto al mughetto che effondeva dal seno. Le mani torturavano l’imbottitura di ovatta sintetica sotto la scorza di ciniglia; ma erano carne increspata e tendini sfibrati e muscoli fiacchi gravati da più di ottantacinque primavere: la presenza agognata di un corpo che si era smaterializzato per adagiarsi inesorabile nel ricordo.
Pianse, Tiziano, stavolta senza contenimento; mentre il cielo, oltre gli spiragli delle tende, si imbronciava tra i brontolii del vento, abbrutendo il pomeriggio.
Uscì dalla casa. La sua.
Perché la casa dove si è nati e cresciuti rimane l’unica: per l’intensità delle singole emozioni accudite e coltivate, scavalca tutte le altre case che sono seguite e quelle che seguiranno. L’addio di Tiziano ebbe la colloquiale leggerezza di un arrivederci, frettoloso e autoconservativo: il tepore mistificante di un’eternità raggiungibile.
Perché non è la speranza che ci permette di sopravvivere, ma la capacità di ignorare l’impossibilità di proteggere gli affetti più cari; il negare a se stessi che ogni bene dell’uomo è condannato al deterioramento per l’azione del tempo, al transito, quindi alla fine.
«Ciao mamma.»
Si asciugò le lacrime e si incamminò verso la moglie, che lo controllava apprensiva dall’abitacolo dell’auto. Nella pace irreale del salotto, i centrini all’uncinetto, i quadri naïf e il mobilio tutto erano assordati dalle cornici di peltro.
Imprigionata in una di queste, una fotografia dai colori saturi ritraeva una donna di mezza età, il sorriso fragoroso, instancabile, e un uomo poco più maturo, longilineo, dallo sguardo fiero. Ai loro piedi, un buffo frugoletto di cinque anni: salopette blu, calze bianche nei sandali di cuoio. Si gingillava con un treno di legno: lo stesso che aveva ricominciato a fischiare nel maestrale della memoria, sbuffando nuvole di vapore nel cielo limpido, sgombro di pericoli e di pioggia.
Il cielo di un’infanzia felice che si era srotolato di nuovo dallo scatolone deformato di una soffitta umida.
Quel treno aveva caricato sulla sua locomotiva un impiegato di quarantatré anni, per trasportarlo lungo un fugace viaggio nel passato.
Un viaggio senza miele sulle labbra: perché ogni dolcezza di ieri, prima o poi, muta in amarezza.

La soffitta è un racconto di Stefano Giraldi Ceneda

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