OTTO PASSI di Angela Tabbì
genere: HORROR
Diapazen, Lexotan, Risperdal, Seroquerl, Ziprexa, Tranquirit, Talofen, Valdorm, Stilnox, Valium, Losec, Citalopram, Alpranzolam parole sonanti, parole ammalianti…
Lo sapete cosa sono?
Sono psicofarmaci, le magiche medicine che tengono voi benpensanti, ipocriti e bugiardi al riparo da crisi esistenziali.
Voi che vivete al sicuro del vostro conto in banca, che annaffiate le cene precotte con il Montalcino d’annata, che avete la partita in diretta su Ski, che poggiate i vostri piedi scalzi sul vostro parquet di abete italiano e che per mettervi la coscienza a posto, avete comprato l’ultimo gioco per la Play di vostro figlio, così sarà rincoglionito ben bene domani a scuola.
Parlo a voi, che avete paura del “diverso”, di quello che ha scelto di soffrire, di quello che non porta una maschera, ma ha deciso di essere una persona a dispetto di tutto e di tutti. Il diverso paga sempre un prezzo; quello dell’additamento, della segregazione, dell’isolamento, dell’annullamento.
“Se non lo vediamo, non esiste”.
Il pazzo, come diceva Pirandello, è colui che apre una valvola e dà sfogo alla verità, quella che non si vuol sentire, quella che si vuole mettere a tacere. Il pazzo è colui che straccia il cielo di carta e fa scoprire quello che c’è dietro…e a volte dietro non c’è niente…e il niente fa paura.
Allora, parlo a voi, che pensate di essere al riparo, al sicuro nella vostra “normalità”; che al massimo prendete un Tavor per dormire…però questo è normale si tratta solo d’insonnia da stress provocato da troppo lavoro.
Vi racconterò una storia, anzi delle storie… le storie di coloro che sono in un ospedale psichiatrico per disagio mentale.
Che orrore, vero, la follia!
Quale tabù imbarazzante, perché lo sapete anche voi che siete responsabili.
La malattia mentale non è genetica, la scienza non vi procura un alibi, la malattia mentale è disagio, deriva da traumi, da mancanze, da violenze, agite o non agite ma commesse e perpetrate in un breve o lungo lasso di tempo.
Perché ne parlo io?
Perché sono qui, adesso con loro, perché sono uno di loro e tengo a chiarire una cosa: non sto prendendo farmaci, sono “pulito” quindi i miei non sono deliri ma denuncie di una realtà che non può essere nascosta o abbellita o depotenziata, perché è una realtà drammatica e soprattutto, vera.
Userò dei termini alfanumerici al posto dei nomi, non solo per salvaguardare la privacy di queste persone che già soffrono, ma perché come i numeri e le lettere queste storie hanno un principio, ma il più delle volte non hanno una fine.
E poi, come nel vecchio caro gioco della “battaglia navale”, quando sulla cartina dell’avversario si cercava di indovinare la parte della nave per colpirla, e allora si tirava fuori la lettera e il numero delle coordinate, sperando di colpire o addirittura affondare; allo stesso modo, qui si tratta di parti di sé che sono state colpite e il più delle volte affondate, nel crudele gioco della vita.
Banale questa espressione?
Che m’importa, e poi tutto sommato a voi lettori che vi importa di come si chiamano?
Sono storie.
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Sui medici, infermieri, personale addetto che ho conosciuto durante la mia permanenza in questo luogo, posso solo dire che pur avendo riscontrato una grande professionalità e umanità e spesso del buon senso ironico, costoro mancano a volte della bussola: intendo dire che il disagio mentale ancora non è del tutto conosciuto; si scandagliano le cause remote, si ipotizzano diagnosi, si prescrivono farmaci ma …La mente e l’animo umano rimangono un mistero.
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Cominciano con la prima di storia, quella di Z3, che chiede sempre le sigarette a tutti e quando nessuno gliene offre raccoglie i mozziconi che si consumano dai posaceneri e ne ricava qualche tirata.
A cinque anni fu violentato dalla zia materna, la cosa si protrasse nel tempo, fino a quando all’età di 24 anni Z3 diede una coltellata alla zia ferendola.
Da quell’episodio fu rinchiuso nel reparto del manicomio criminale di Santa Maria della Pietà.
Lì ha subito elettroshock, violenze e abusi da parte di ammalati ed infermieri. Non so se abbia subito un regolare processo. Dopo che venne chiuso il manicomio, fu trasferito da un ospedale all’altro e la zia ovviamente è rimasta impunita.
Adesso ha sessantacinque anni, ovviamente ne dimostra di più, ha un orecchio mozzo, evidentemente il risultato di qualche morso preso chissà da chi, circola nelle corsie e nelle sale chiedendo sempre le sigarette agli altri degenti, non articola bene le parole, il suo linguaggio è incomprensibile, ma so che è una persona colta, conosce bene l’inglese ed è molto credente.
Le terapie che ha “subito” lo hanno convinto che, se ha accoltellato la zia e perché lei non “gliela dava”.
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Adesso è residente in questa struttura da sette anni, la madre ha pattuito con il personale il numero di sigarette da fornirgli al giorno ed eventuale denaro.
Non l’ho mai vista la madre.
Lui ascolta radio Maria alle quattro di mattina facendo smadonnare il suo compagno di stanza.
Cammina curvo, ma ha una bella stazza, occhi chiari e un’espressione quasi sorpresa.
Non so quale sia la sua terapia farmacologia, credo sia pesante; gli psichiatri dicono che la sua situazione è irreversibile e che anche se dà fastidio con le sue continue richieste, più di così non si può contenere, anzi senza i farmaci sarebbe pericoloso. Va a dormire tardi, anche perché le infermiere gli tengono il letto sollevato nelle due parti affinché non possa sdraiarsi, altrimenti dormirebbe prima e resterebbe sveglio la notte.
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F4 il “menestrello” lo chiamo io, perché quando mi vede, attacca a cantare bei brani degli anni Sessanta.
Ha una bella faccia ridente, anche se in bocca i denti non ci sono.
Dice di essere stato un cantante di un gruppo famoso negli anni Settanta, di aver vinto delle medaglie e di aver partecipato a delle gare canore.
L’età è indefinita, sta qui perché è ossessionato da dolori alla bocca; dice di essersi sottoposto a una serie di indagini: lastre, tac, ma niente.
Non è risultato niente: tutto questo dipende dalla sua testa.
Ieri sera ha preso un Toradol per il dolore, ma non ha chiuso occhio e si è fumato trenta sigarette durante la notte.
Mi piace, mi mette allegria ed ha una bella voce.
Non credo che menta sul suo passato di cantante, la voce è intonata e il repertorio lo conosce bene.
Provo tenerezza per lui, perché mi sembra felice quando canta, allora penso perché debba trovarsi qui uno che ha la voglia di cantare quando vede “un sorriso di ragazza” come dice lui.
Cominciate ad avvertire uno strano disagio?
Forse sarebbe meglio interrompere la lettura, oppure versarsi un bicchierino; anche perché credo sia superfluo aggiungerlo, ma da queste parti l’alcool è bandito, in compenso il tabacco conferma la sua supremazia di dipendenza: coloro che hanno disagi mentali fumano tantissimo, ininterrottamente, anche perché, in questa struttura non c’è alcun divieto, si può fumare quasi ovunque, forse per evitare ulteriori privazioni.
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Passiamo ad altre tematiche, altrimenti rischiate la noia.
Molti disagi derivano dall’abuso di sostanze stupefacenti e alcool.
S1 è un giovane sui trentacinque, di bell’aspetto, vivace.
Nella sua stanza c’è un computer da cui scarica musica e stereo, che ovviamente mette sparato alle sette di mattina dopo la sveglia degli infermieri.
Di lui mi hanno detto che spacciava droga pesante.
È stato in carcere e in comunità. Ha una figlia adolescente che ogni tanto sente al cellulare.
Non so da quanto sia qui e per quanto deve starci, ha manie di grandezza, qualche volta bestemmia ma chiede sempre scusa.
L’altra sera ha organizzato una pizza e ha fatto tutto lui: ha prenotato, raccolto i soldi, preparato la sala.
Erano sì e no una decina.
Mentre addentava la sua pizza fredda davanti a due ragazze, ha fatto un’espressione dura e le due sono scappate in stanza piangendo.
Ad alcuni incute paura o disagio, perché quando è rabbioso, non saluta è scostante, freddo.
A me sta simpatico.
L’idea che abbia spacciato non mi piace, ma non sono qui per giudicare, e in ogni caso, credo che stia pagando caro il suo prezzo.
Adesso è fatto di psicofarmaci, anche se quando ci riuniamo in gruppo, i suoi interventi sono lucidi.
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S1 ha una storia con L2, la border line, si definisce lei: personaggio interessante, aggressiva e sospettosa e soprattutto gelosa di S1.
Mi ha investito il primo giorno con la sua storia: trentenne, marito in carcere per droga. Quando glielo presentarono, sulla spiaggia di Fiumicino, pesava ottanta chili, lei sapeva dei suoi trascorsi di tossico, ma cedette alla sua corte (che tipo di corte fa un tossico?) e se lo sposò, pensando ingenuamente che le cose con lei a fianco sarebbero cambiate.
Tutt’altro, le cose peggiorarono: le rubava i soldi, li sottraeva alla madre, la tradiva, la picchiava, fino a quando per spaccio non è entrato in carcere.
Pare che il giudice stavolta gli dia la possibilità di una comunità di recupero, ma è l’ultima, se ci sarà, un prossimo processo è galera.
Lei quando parla è scattosa, nervosa, agita le belle mani con le unghie ricostruite su cui c’è uno strano smalto con la porporina rossa.
Assume 168 gocce di Talofen, ma lei sostiene che non le fanno niente, ha fobie, paura del marito, non sa come affrontare la situazione fuori da qui.
Sarà psicotica?
Non lo so ma m’inquieta. Ti guarda di sbieco; sicuramente anche lei ha assunto droghe. Ha questa tresca con S1, ma è segreta: qui non è permesso avere relazioni tra pazienti, ma accade lo stesso, anche perché la mancanza di tenerezza è la cosa più difficile da accettare.
Anche il sesso è un problema, anche se qui il bromuro e altri farmaci inibiscono la pulsione sessuale, ma l’istinto prevale e le seghe si sprecano.
I più fortunati si trovano una compagna di ventura ed eludendo la sorveglianza riescono a ritagliarsi qualche momento di intimità.
L’altra sera, K4 è uscito in permesso e prima di rientrare si è fatto beccare mentre scopava con la sua donna dentro una cabina telefonica. Ce lo ha raccontato dopo cena e mentre lo faceva era divertito, non ho ben capito se però è stato interrotto ma credo di sì.
Non esiste l’inibizione qui, i freni sono sciolti.
Q7 l’altra sera voleva vedere i piedi di una degente per avere un elemento in più per tirarsi una sega, prima però le ha chiesto il permesso
«Fa un po’ come ti pare» gli ha risposto lei, «ma almeno non dirmelo che lo hai fatto». Voleva pure che la ragazza assistesse all’evento.
Ovviamente, lei gli ha risposto che non gradiva.
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Cambiamo persona, quella che mi sta più a cuore, perché mi piace, è B71.
È una donna bella dal viso esotico, assomiglia alla regina d’Africa, Cleopatra; porta un caschetto nero e ha degli occhi grandi, verdi che trucca con l’eyeliner e questo ne mette in evidenza il taglio simile a quello di un gatto.
Ha una corporatura normale, si muove con agilità nella stanza.
Ha un modo affabile e accogliente nel porsi: quando mi ha visto la prima volta, è stata subito dolce e aperta.
La stanza parla di lei: l’ha abbellita con sue suppellettili, l’ha arredata con un gusto per il colore.
I suoi asciugamani sono arancioni e li sistema per asciugarli come se fossero quadri, si ingegna a sfruttare lo spazio il meglio possibile.
Ama la musica, in particolare Pino Daniele e adora gli incensi, che invece sono mal tollerati dagli psichiatri.
Ha tre fratelli maschi, lei è la più piccola, i due più grandi l’hanno molestata quando lei aveva sei anni, e anche il cugino quando la lasciavano a casa della nonna, provava a molestarla.
Queste molestie le procurarono problemi a livello di salute: perse i capelli, dimagriva, ovviamente andava male a scuola.
Non ebbe più fiducia negli uomini, ma neanche nelle donne, poiché la madre non l’aveva protetta.
Il padre alcolista, il fratello cocainomane che entrava e usciva da Rebibbia a Regina Coeli, e tuttora che ha cinquant’anni continua a fare uso di alcool e cocaina.
B71 all’età di diciassette anni conosce un ragazzo che si bucava, ma lei non lo sapeva. Purtroppo, è lui che la inizia alla droga, le chiede pure i soldi per le proprie dosi. Le chiede di provare il sabato prima di andare in discoteca, ma poi la frequenza aumenta fino a che lei si fa quattro grammi al giorno.
Spende tutto quello che aveva da parte (dieci milioni alla posta).
Arrivata a questo punto, tanto che spaccia pure per procurarsi la dose decide: o va al Cim per disintossicarsi, o va alla stazione termini e si fa un’overdose; aveva vent’anni.
Si reca al Sert e le danno il metadone 80cc al giorno a scalare.
Al risultato di 1cc, B71 entra in astinenza da metadone, che comunque è una droga sintetica e l’astinenza da esso è peggiore perché ti si attacca alle ossa.
Da lì prese una decisione importante, forse la più importante della sua vita.
Degli amici di Modena che conoscevano il suo problema, le offrono di allontanarsi da Roma e di ospitarla nella propria casa per aiutarla nella disintossicazione.
B71 passata l’astinenza dopo quindici giorni, va a Modena, trova lavoro in un fast food e ne esce pulita e aiutata.
Purtroppo, deve tornare a Roma perché il padre si è ammalato di cancro, e lo spettro dell’eroina è lì di nuovo a minacciarla.
Torna a Roma per sostituire il padre nell’attività di famiglia; un fratello è fuori uso perché si buca, gli altri due sono sposati, rimane solo lei per portare avanti il banco a Ponte Milvio.
Decide di accollarsi la pratica, come dice lei, si alza alle cinque di mattina per andare al lavoro.
Intanto la droga non la affascina più, ma incappa in storie d’amore che proprio d’amore non sanno. Conosce Paolo, ragazzo di buona famiglia. Con lui inizia una relazione che va avanti fino a quando lei non scopre di essere incinta e lui le chiede di abortire.
Lei lo fa suo malgrado, torna a casa da lui e lo trova a letto con un’altra.
B71 tenta il suicidio, vuole gettarsi da un ponte, ma viene fermata da un passante che la convince a tornare a casa dai suoi.
Paolo le chiede perdono, ma lei non accetta, forse più l’aborto è stato il trauma che non il tradimento.
Passano gli anni, suo fratello, il più amato le confida di essere stato molestato dai fratelli più grandi, proprio come lei.
Tra i due si crea un legame fortissimo, si sosteranno, manterranno il segreto, si aiuteranno anche quando lui, inizierà a bucarsi e a cadere in depressione.
B71 teme per il fratello, è preoccupata e fa bene.
Lui si separa dalla moglie e dai due figli, la situazione precipita e la depressione è sempre più forte finché un mattino B71 lo trova morto a casa sua.
Si sospetta il suicidio ma forse è stato un infarto: così stroncata la vita a quaranta anni.
B71 cade in un baratro: ogni volta che chiude gli occhi, rivede il fratello riverso sul letto, la faccia serrata in un’espressione di dolore e disgusto.
Non c’è più notte per lei, né sonno né requie. Se prova a dormire ha degli orribili incubi. Tenta di nuovo il suicidio, stavolta taglio alle vene, ma non riesce e viene ricoverata proprio qui.
Si fa sette mesi, la imbottiscono di psicofarmaci, ingrassa di venti chili, incontra un altro amore: P54.
L’amore dura lo spazio del ricovero, all’uscita ognuno per la sua strada.
Poi, sulla sua, B71 incontra un uomo buono, al quale racconta la sua storia. Lui si commuove e le chiede di sposarlo.
Lei accetta.
Basta parlare di lei ora sta bene e sta per uscire proprio come me in meno di quattro settimane!
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Un’altra donna interessante è F14, bella donna un po’ fané ma affascinante.
Ha un passato da tossica e alcolista, ha avuto tanti uomini, anche importanti che l’hanno mollata dopo un po’ per noia o stanchezza.
L’altro giorno l’hanno chiamata per intervenire su una ragazza che aveva un pelo incarnito all’altezza del pube.
Lei ha esordito con un ago sterilizzato in mano:
«Ma che devo bucare?»
E un’altra le ha risposto:
«Se non ne sai te di buchi chi altri lo deve sapere!»
Abbiamo riso tutti a questa battuta, anche io quando l’ho saputa, perché qui si sa tutto di tutti; forse il più misterioso sono io che non prendo farmaci e sono normale, ma mi hanno chiesto comunque di che mi facevo, ho risposto di niente che il mio cervello da solo ha prodotto allucinazioni…ma non mi hanno creduto.
La notte è lunga, alle dieci ognuno in camera propria non sono previste socializzazioni ma qualcuno un po’ d’amore se lo prende di nascosto.
Chi ha il televisore in camera lo guarda, altri leggono, altri parlano, altri fumano, altri pensano ma nessuno dorme.
Gli infermieri fanno il giro ogni tanto controllano che tutto sia a posto, passano la terapia e inducono a dormire.
Io guardo la luna di notte: apro la finestra e metto il naso fuori e respiro l’aria fredda e scura per sentirmi vivo anche se pazzo.
Ma non lo so ancora se lo sono. Forse no; io mi sento bene, quieto e sereno anche qui dentro.
La notte sogno, immagino lei, il suo corpo. Sogno di toccarla di fare l’amore con lei di succhiarle le labbra, la lingua. La sogno perché mi ha lasciato. Ecco perché la sogno: ma è solo un magro risarcimento. Forse è per questo che il mio cervello si è ribellato ad un certo punto e il sogno si è confuso con la realtà facendomi immaginare cose irreali, spaventose o esaltanti.
Ho avuto allucinazioni, non capivo più chi fossi, cosa facessi. Ero solo terrorizzato o eccitato.
Episodio di psicosi, così l’hanno diagnosticata la mia situazione. All’inizio al Cim di zona mi hanno riempito di farmaci, poi hanno deciso di ricoverarmi in questa struttura per studiare la mia strana condizione; adesso non sto assumendo farmaci, mi sottopongo alle visite dei medici, ai loro colloqui ai test e nel frattempo interagisco con questa umanità diversa.
Qui dentro pensano che sia un giornalista o uno scrittore, che sta scrivendo un reportage su una clinica psichiatrica.
In un certo senso lo sto facendo, anche perché qui il tempo non passa mai.
*****
Ah! Ecco!
C70 mi chiede se facciamo due chiacchiere.
Accetto volentieri.
Lui è un ragazzo giovane, di lui so che s’è fatto di morfina, un bastardo l’ha iniziato a questo percorso che poi si è rivelato un tunnel senza fine.
Parla biascicando, ma è lucido, ha paura a tornare a casa, qui si sente protetto, ma alla fine bisogna uscire fuori e prendere le misure con la realtà.
Anch’io dovrò uscire prima di Natale mi mandano a casa.
Che cosa farò? Tornerò al lavoro? Sarà una cosa difficilissima sospettano che abbia avuto un tracollo nervoso.
E la mia famiglia?
Per mia madre sono un malato che avrà sempre bisogno di cure e mio padre quando viene qua a trovarmi mi porta le sigarette e non dice niente.
Stiamo per un’ora a passeggiare in giardino e poi alla fine della visita ci congediamo come se nulla fosse successo.
Ecco qual è il dramma: la negazione o l’annullamento.
Per gli altri, per i familiari siamo una macchia, una vergogna, un peso.
Gli altri lo sanno che ci sono delle responsabilità che li riguardano, ma è più facile e comodo pensare che il pazzo sia pazzo perché è debole, fragile.
Aveva un destino segnato.
Non è così invece, si diventa pazzi perché qualcosa ci ha feriti, umiliati nel profondo.
È come una falla che si apre all’interno e se ti ci sporgi sopra, senti la paura, il terrore della solitudine, dell’abbandono.
Chi soffre di disagio mentale ha bisogno di calore, di abbracci, di pensare che potrà farcela ad uscire dal baratro, che non è un perdente. Che può lavorare, che si può innamorare riamato, che può assaporare la vita e non averne più paura.
Vi sentite in colpa? Indifferenti? Provate pietà?
Chiedetelo a voi stessi quanto siete collusi con la pazzia, quanto la vostra indifferenza o il vostro giudizio abbiano causato tristezza e disperazione. Quanto il vostro perbenismo sia stato offensivo e maldestro. Quanto la vostra miopia sia stata dannosa.
Chiedetevi perché il disagio mentale è sempre più diffuso, perché madri disperate uccidono i propri figli appena nati perché affette da depressione.
Perché disoccupati si tolgono la vita, perché ragazzi si buttano in un buco e gettano nel cesso la propria vita?
Perché padri disperati con figli handicappati decidono la sorte della prole? …
Chiedetevelo e se avete delle risposte, ditele, urlatele spezzatele come pane su una mensa…
Ma le sapete già le risposte, sono negli occhi dei relitti umani, sono nelle loro mani screpolate e bianche, nei loro denti ammalati, nei loro sorrisi sgangherati.
Fate un atto di umiltà e inchinatevi di fronte al disagio, fate mea culpa, preparate un maglione caldo di lana e una minestra per accogliere ciò che pensate sia lontano e diverso da voi: può essere un familiare, un amico, un collega, un vicino di casa.
Non sprangate la porta, non chiudete le finestre.
Lasciate aperto uno spiraglio, un dubbio, un conforto.
Non abbiate paura.
Potrebbe colpire anche voi, nessuno è immune dalla pazzia.
Neanche io.
OTTO PASSI di Angela Tabbì
genere: HORROR