L’OPERA DEI PUPI di Franco Lo Presti

Patrimonio Immateriale dell’UNESCO

Il teatro delle marionette, noto come Opera dei Pupi, nasce in Sicilia all’inizio dell’Ottocento e gode di grande successo tra la classe operaia isolana. 

I burattinai raccontavano storie basate sulla letteratura cavalleresca medievale e altre fonti, come poesie italiane del Rinascimento, vite di santi e racconti di famigerati banditi. 

I dialoghi in queste esibizioni sono stati in gran parte improvvisati dai burattinai. 

Le due principali scuole di burattini siciliane di Palermo e Catania si sono distinte principalmente per le dimensioni e la forma dei burattini, le tecniche operative e la varietà dei coloratissimi fondali scenici.

Questi teatri erano spesso aziende a conduzione familiare; l’intaglio, la pittura e la costruzione dei burattini, rinomati per le loro intense espressioni, sono stati eseguiti da artigiani con metodi tradizionali. 

I burattinai si sforzavano costantemente di superarsi a vicenda con i loro spettacoli, ed esercitavano una grande influenza sul loro pubblico. 

In passato, queste esibizioni si svolgevano in diverse serate e offrivano opportunità di incontri sociali.

Gli sconvolgimenti economici e sociali provocati dallo straordinario boom economico degli anni Cinquanta ebbero un effetto notevole sulla tradizione, minacciandone le stesse fondamenta. 

A quel tempo, forme simili di teatro scomparvero in altre parti d’Italia, alcune per riemergere una ventina d’anni dopo. 

L’Opera dei Pupi è l’unico esempio di una tradizione ininterrotta di questo genere di teatro. 

A causa delle attuali difficoltà economiche, i burattinai non possono più vivere della loro arte, spingendoli a dedicarsi a professioni più redditizie. Il turismo ha contribuito a ridurre la qualità degli spettacoli, che in precedenza erano rivolti solo a un pubblico locale.

“Paladini di Francia” e “Chanson de Roland”

Nei tardi pomeriggi estivi, quando la calura diventava più sopportabile, ma si continuava a cercare ancora un po’ di refrigerio all’ombra degli alberi secolari della “Villa Bellini” (il grande parco pubblico catanese), era facile vedere diverse persone sedute attorno ad un cantastorie che leggeva le avventure, a puntate, dei “Paladini di Francia”.

Erano, in genere, persone anziane che si portavano le sedie da casa e le lasciavano poi dentro lo sgabuzzino per gentile concessione del custode della villa, per riprenderle ogni volta che servivano.

Il cantastorie leggeva enfaticamente le sue storie da un libro ormai consumato dall’uso, quasi del tutto squadernato, le cui pagine erano raccolte in una copertina nera e sfogliate religiosamente dal solerte cantastorie.

Uno degli episodi più attesi e seguiti era il duello tra Orlando e Rinaldo, due fantomatici cugini paladini che non perdevano occasione per sfidarsi a singolar tenzone.

La lite più seria tra i due avvenne per conquistare il cuore della bella Angelica, per amor della quale, secondo quanto riferisce l’Ariosto, Orlando impazzisce.

Scrive, al proposito, il poeta siciliano Nino Martoglio:

“Viditi quantu po’ ‘n pilu di fimmina!

Dui palatini, ca su’du’ pileri,

per causanza di la bella Angelica

su’ addivintati du’ nimici fèri”.

La gente seguiva interessata tali letture.

I racconti erano belli ed intriganti. Ancor più avvincente, però, era assistere alla loro rappresentazione nelle sale dei vari teatri dell’Opera dei Pupi,allora molto di moda.

Si trattava di sale improvvisate e non tanto grandi, costituite da un piccolo palcoscenico, in cui si muovevano i protagonisti, e da alcune file di panche o sedie riservate agli spettatori.

I protagonisti erano i famosi “Pupi”, pupazzi di legno rivestiti di un’armatura medioevale, costituita da: corazza, elmo, scudo e spada.

Pupazzi di legno, abbiamo detto.

Certo! Ma pupazzi che, sul palcoscenico, diventavano “uomini veri, di carne, di sangue, di muscoli e di cuore”, come ebbe a dire Emanuele Macrì, un grande “puparo” di Acireale che riuscì ad esportare i suoi spettacoli dell’Opera dei Pupi anche all’estero.

Ho avuto occasione di assistere da giovane a questi spettacoli per opera di un mio amico, che aveva tanto insistito a coinvolgermi per farmi comprendere la grande partecipazione della gente in tali rappresentazioni.

Rimasi, effettivamente, favorevolmente impressionato dallo spettacolo offerto del “puparo”, Don Angelo. Soprattutto, però, da quello offerto dagli spettatori.

Costoro partecipavano intensamente allo svolgimento della narrazione, intervenendo loro stessi ed alternando l’allegria alla commozione.

Così, di fronte alle esagerazioni di don Angelo che nella foga del racconto, affermava:

«…allora, Orlando, con un colpo di durlindana, uccise mille saraceni!», il pubblico interveniva, gridando:

«Cala, don Angelo!», invitandolo, in tal modo, a ridimensionare il numero dei saraceni uccisi.

Don Angelo, per accontentare gli spettatori, pazientemente ripeteva:

«…e allora, Orlando, con un colpo di durlindana, uccise cento saraceni!»

Neanche questa volta gli ascoltatori erano contenti e, sghignazzando, urlavano:

«Cala, don Angelo!»

E don Angelo a ripetere:

«…allora, Orlando, con un colpo di durlindana, uccise cinque saraceni.»

Gli spettatori protestavano per l’ennesima volta.

A questo punto, don Angelo perdeva la pazienza e strillava:

«…e allora, figli di put…, venite voi a raccontare la storia!»

Seguiva una gran risata del pubblico, finalmente contento di aver fatto arrabbiare don Angelo.

Ma, a tali momenti d’allegria e di chiassosa ilarità, ne subentravano altri d’intensa commozione che si verificavano, soprattutto, quando Orlando moriva nella battaglia di Roncisvalle.

Gli spettatori, a questo punto, ascoltavano, in religioso silenzio e con le lacrime agli occhi, la narrazione accorata del puparo, anche lui commosso per le sorti del suo eroe prediletto…

La battaglia di Roncisvalle fa riferimento a un poemetto scritto intorno al 1100, presumibilmente da un certo Turoldo, intitolato: “Chanson de Roland” il cui punto di partenza è dato da un fatto storico: la sconfitta subita dall’esercito di Carlo Magno, imperatore dei Franchi, nel 778 presso la gola di Roncisvalle nei Pirenei durante la guerra fra Cristiani e Saraceni.

La battaglia è in pieno svolgimento e Carlo Magno, imperatore cristiano, da sette anni, ormai, combatte contro la Spagna, occupata dai Saraceni.

Aveva già sottomesso alcune località della Spagna ed era impegnato nella conquista di Saragozza, finché il re di questa città: Marsilio, seguace della religione di Maometto, stanco dell’interminabile assedio, chiede di trattare la resa.

Carlo accetta la richiesta e manda Gano di Maganza, un suo paladino, per i negoziati.

Questi conclude gli accordi e, poi, riferisce a Carlo che Marsilio è disposto a sottomettersi, a convertirsi al cristianesimo e ad offrire inoltre immense ricchezze, purché ponga fine all’estenuante assedio di Saragozza.

Carlo Magno, soddisfatto dell’accordo, abbandona l’assedio e intraprende la marcia di ritorno verso la Francia, ma vuole, per precauzione, lasciare un manipolo di uomini come retroguardia per coprire la ritirata. 

Gano lo convince ad affidare il comando della retroguardia al conte Orlando e ad altri pochi paladini, fra cui c’è anche il prode Olivieri.

Gano, però, ha un piano ben preciso nella mente.

Egli nutre una rancorosa invidia verso Orlando. Perciò si mette d’accordo con Marsilio per ordire un’imboscata nei confronti della retroguardia comandata da Orlando.

Così, questi viene attaccato da un numero esorbitante di Saraceni. 

Ha inizio una sanguinosa battaglia contro le soverchianti forze nemiche.

Olivieri consiglia Orlando di suonare Olifante, il suo corno fatato, il cui suono viene sentito ad enorme distanza, per chiamare Carlo.

L’eroico paladino, invece, si rifiuta, perché richiamare rinforzi sarebbe per lui causa di eterno disonore.

Solo quando viene ferito e si accorge che i suoi uomini stanno per essere sopraffatti, si decide a suonare l’Olifante.

Sentendosi, quindi, prossimo alla fine, cerca di spezzare la sua spada Durlindana per non farla cadere in mano nemica, ma la spada non si spezza.

Allora, Orlando pone Durlindana sotto il suo corpo, impugna l’Olifante e dona il suo guanto a Dio. Gli angeli scendono su di lui per portarlo nel regno dei cieli. Carlo sente il suono dell’Olifante e ritorna.

Sconfigge i nemici e li insegue fino all’Ebro grazie all’intervento divino che prolunga la durata del giorno per consentire la vittoria definitiva. 

Poi provvede a dare degna sepoltura alle salme di Orlando e degli altri paladini e punisce in modo infamante il traditore Gano di Maganza …

Sono questi i passaggi principali della narrazione di don Angelo, il puparo che suscita intensa commozione fra il pubblico insieme al quale piange la scomparsa del suo eroe prediletto.

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La figura di Orlando occuperà gran parte della letteratura italiana del Quattro e del Cinquecento ad opera dei poeti Pulci (Morgante),Boiardo (Orlando innamorato) e Ariosto (Orlando furioso).

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Giusto Lodico è l’autore della “Storia dei Paladini di Francia”.

È un lungo romanzo cavalleresco che, tra il 1858 e il 1860, ha riunito insieme i vari episodi del  “Ciclo carolingio” dando loro una successione cronologica.

Nel 1895 e 1902 l’opera fu ristampata, con episodi aggiuntivi, ad opera dell’editore palermitano Giuseppe Leggio.

Questo libro è la fonte primaria dell’ “Opera dei Pupi”.

L’OPERA DEI PUPI è un racconto di Franco Lo Presti

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