QUADRO AGRESTE di Giuseppe Caragliano

Il volto di Gesù sul capezzale in quel letto d’ospedale dalle pareti di un grigio temporale, abbandonata dal suo pozzo e dalle sue erbe in campagna, la nonna non serbava rancore. Maciste quando prendeva dalla conca i carboni ardenti, adesso solo triste.

Christe eléison, si aspettava che si addormentasse; prima glicine in campagna adesso ruggine al capezzale, e dentro il mio cuore il freddo gelido del maestrale.

Seduto accanto al letto della nonna in ospedale, sul capo chino le mie lacrime, le mie guance bagnate dalle lacrime, i miei vestiti bagnati dalle lacrime, tutta la stanza annegata nelle lacrime…

Un momento… che succede? L’acqua viene giù dal tetto? Cosa c’è lassù? Un pozzo!? Sono pazzo? In mezzo al tetto c’era il pozzo della nonna!

In un guizzo io e nonna siamo dentro, tra le gocce via la giacca, via le trecce, e di noi non c’è più traccia! In un impeto da Sturm und drang, capelli al vento nel cielo blu di Chagall, una maitresse la luna palla all’aria, e poi sfrecciammo in mezzo alle luminarie di Sant’ Antonìno.

Quand’ero bambino, al santo era dedicato un pellegrinaggio, atteso da noi alunni in ostaggio della promozione o della bocciatura, addirittura di notte si intraprendeva l’altura.

Al 15 giugno, si portava un giglio, e se non ti addormentavi sul giaciglio del sentiero, per la grazia che chiedevi accendevi un cero.

Io e nonna assecondammo le correnti ascensionali, e dovetti rovesciare dell’acqua gassata, credo, perché l’aria tutta frizzava in quella notte che abbracciava la gente alla finestra… la mia maestra! E guarda! La mamma con la veste modesta mescolata tra la gente!

E in piazza le luci della Belle Époque, e così planammo nella terrazza del caffè di notte di Van Gogh, dove gironzolavano in frac le lucciole, ladruncole di buio nel folto giardino.

La nonna, che profumava di gelsomino, divenne d’un tratto logorroica e mi rivelò di aver visto nella pupilla di un veggente la storia di un viandante che colse il senso della morte.

E poi mi narrò di quel saggio che esplorò l’espressione di quell’ebreo convertito dal raggio, e dentro vi trovò un buco nero, e all’orizzonte degli eventi… un bimbo davanti alle luci dell’albero di Natale: ecco cos’era l’espressione di San Paolo! Ascoltavo come un babbeo imbambolato, persino le storie di un neonato: cosa vedono i suoi occhi la prima volta? Questo mi chiese la nonna.

Poi… mostrando di saperla lunga, mi riferì che il quarto dei re magi le disse che la notte di Natale si perse, si era messo in ascolto del più antico segnale del mondo, arrivando fino alla radiazione cosmica di fondo, e lì trovo anche il più antico segnale depositato nella sua memoria: il suo stesso volto, negli occhi della madre.

La nonna sembrava impazzita, parlava parlava parlava, come se sentisse la necessità di trasferirmi presto tutto il suo sapere, ed ecco che attaccò con un’altra storia: lui! Ebbe occasione di parlare proprio con lui! (Non osavo chiedere chi fosse questo “lui”, anche per evitare di alimentare quelle storie che non finivano più). Ebbene… cos’è il tempo? Mi chiese…

Il tempo è un movimento; dal caldo del grembo materno al freddo della lapide. Se Dio è la stasi, l’eterno, l’uomo è tempo in movimento. Chi è fatto di vita muove.

La nonna pareva Piero Angela… stavolta ero incuriosito davvero.

Proseguì: la stasi una sconfitta, il tempo vittoria dell’uomo su Dio. L’eterno… del tempo il balbettio!

E poi invasata la nonna mi chiamò in causa:

“Sai chi mi ha detto queste cose? Ti riferirò, per filo e per segno, le sue testuali parole:

Sono morto a 33 anni, questo è il mio trentaquattresimo anno, sono nelle pieghe del tempo, nelle pieghe del tempo lo sbaglio, non c’è indietro, non c’è avanti. Padre! Resto uomo, non risorgermi, bramo stare con gl’inermi, nella morte, son testimone, trovo la mia acclamazione. Il movimento è un passaggio, la sua morte non un oltraggio, solo la testimonianza di un solfeggio”.

Al mio sguardo incredulo, la nonna tirò fuori dalla tasca qualcosa, ma non feci in tempo a vedere cosa fosse perché giunse una svolta: una gran massa di gente si mosse improvvisamente trascinandoci con sé, la cicala accompagnava i passi in frotta fino a quella grotta, dove il santo aveva la sua chiesa.

Arrivammo nell’ora della brina e della rugiada, tutti in fila sulla scalinata, eravamo un serpentone in cammino, budino ballerino verso l’abside.

Giunti al cospetto del santo, la nonna con abilità mi sollevò, sembrava Maciste, seria ma non triste, sotto al baldacchino chiese a Sant’Antonìno di darmi una mano per la promozione. Seguiva l’accensione di un cero…

E nel mio pensiero ho montato una scala candita per addolcire la sua dipartita:

nel suo letto le lenzuola si fecero gonfie pieghe di un drappeggio, e la nonna si alzò da terra, fatta tutta d’un tratteggio: frutta e foglie, il corpo adorno in un quadro di Arcimboldo.

La nonna era la sua stessa campagna: collo e petto d’una pigna, guancia tonda di una pesca, in testa innesta mille ortaggi, assaggi d’uva nei capelli i denti fatti di piselli…

…e nonna Maciste nel celeste

è un perfetto quadro agreste…

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