SBRICIOLARE di Rosario Mattia Moniaci

genere: THRILLER

Le ombre si allungano.

Scompaiono.

Appaiono più brevi per allungarsi di nuovo.

Macchie buie si impadroniscono del mio cono percettivo. Olio viola spalmato sui rilievi tinti di verde nerastro delle facce sudaticce appese ai colli sinusoidali di corpi dondolanti.

Colori freddi abbagliati da fasci brillanti di rosa acceso, neon grigio e poi oro e poi vermiglio.

Tutto da capo.

Una periodicità alternata da fasci intermittenti. Una frequenza guidata dallo scalpiccio della musica. Le vibrazioni sonore cullate dai bassi morbidi che guidano i movimenti di tutti i danzanti esseri presenti. Un drappello di burattini con le braccia penzoloni che oscillano al ritmo dei beat immerse in un mistico fluido annebbiato.

Sempre tutto da capo.

Le ombre si allungano.

Svaniscono.

Si accendono più brevi per allungarsi di nuovo.

Percussioni ripetitive che distillano i pensieri dei presenti, i quattro quarti che regolano le pulsazioni cardiache. Ognuno è concentrato su sé stesso e ogni altro occhieggia un punto particolare, qualcuno si guarda intorno con in volto l’estasi più ingiustificata e qualcun altro si struscia al sesso opposto con disinvoltura.

Il buio è così intimo.

La luce così sfacciata.

Le contrazioni cloniche dei muscoli orbicolari provocate dall’incredulità di un contorno sporco che scompare e ricompare. Accendo una sigaretta e un soffio mi scalda la punta del naso e una patina amara si deposita sulla mia lingua. Sputo fuori la prima boccata, sembro un dragone cinese, espiro il fumo distorcendo il collo per creare un semicerchio di fumo immaginario sopra la folla.

Il tintinnio del ghiaccio nei bicchieri semipieni e il vociare di coppie vicine che si promettono una notte focosa. Suoni ripetitivi e singolari, melodie indecifrabili, una lingua su cui danza una fluttuante base calda. Le espressioni traslucide e albedo di tutti i manichini che stanno ballando intorno a me. La loro carne è lucida e ricalca le vene pulsanti. Il fascio di luce li immobilizza quando li investe e non appena vengono rigurgitati dal buio ricominciano a danzare. Perché il buio è rassicurante finché non ritorna il riflettore.

Intanto, quell’essere armonioso mi passa davanti, come se fluttuasse nell’aria, e assorbe le ambagi di colori provenienti dai riflettori sparati sopra la console, tutti tranne il nero.

Non riesco a credere che sia lei.

Il bagliore accecante sul sudore che punge gli occhi. Buio verdastro. Neon rosa. Il ritmo lo detta la console in alto.

Buio violaceo e il mio sguardo collima due pupille nere e vacue illuminate dalla fiammella che morde tra i denti gialli.

Neon blu che disorienta le anime danzanti.

Buio chiaro e focalizzo un collo che diffonde il profumo di donna che defibrilla il mio sangue.

Fascio di luce impietoso e perdo quel corpo sensuale.

Mi si stampa in faccia il suo trucco appena messo in bagno, mette in risalto gli effetti di quello che ha assunto incollati sul viso, occhiaie che circondano occhioni azzurri carichi di ombretto e guance scavate che indicano le rughe al posto delle fossette che sovrastano le labbra sdegnose, come se avesse il bisogno incontenibile di dissipare la disapprovazione nei miei confronti.

Per fortuna ritorna il buio, così rincontro lo sguardo perso di quel tizio che mi mostra il suo sorriso paglioso inebetito e compiaciuto.

Ci accenniamo con il capo un saluto di intesa. Sì, siamo fatti della stessa roba, stiamo ballando la stessa deep-tech e siamo fratelli per un attimo.

La traccia cambia mentre guardo il dj che mi infonde ritmo e potenza, come se sapesse cosa mi serve per consumare quella botta di energia che sto accumulando. I suoni emettono martellate imponenti come un fabbro che modella una spada. Il charleston digitale attacca per echeggiare la parola “nova” che invade tutta la sala. Poi, un grido melodico incomprensibile si diffonde a raggiera insieme allo sciabordio tormentoso di piatti e synth, la colonna sonora di un presagio che si sta per imbattere sulla razza umana.

Potrebbero essere gli ultimi momenti della nostra storia, un asteroide potrebbe impattare proprio questo locale, una guerra potrebbe deturpare le nostre esistenze, un futuro incerto potrebbe disintegrare tutte le nostre sicurezze. E noi siamo qui, fatti e sudici, una generazione di disinteressati e condannati, affamati di musica e di protagonismo.

Ma, adesso, tutto l’effetto mi sta abbandonando. Il mio umore inizia a vacillare tra euforia e depressione. Intrappolato nel velluto nero di una stanza colma di persone che per me rappresentano il nulla.

Il mio bicchiere è vuoto, l’ho scolato più velocemente di quanto avessi previsto. Il pavimento appiccicoso di tutto l’alcool dei presenti caduto a terra fino a questo momento intende frenare la mia partecipazione al rituale che mi unisce a questo ammasso di sagome umane.

Ballare.

Non posso restare lucido in questa atmosfera di calore, in mezzo al lezzo nauseante di questa risma di madida carne luccicante. Osservo i profili logori che mi circondano: sembrano conoscersi così bene tra loro, mescolano il fetore della loro bromidrosi, creano un cerchio naturale di intimità entro il quale non riesco a inserirmi e, anche se ognuno di loro è perso in sé stesso, sa bene di non essere da solo.

Devo sbrigarmi.

Tasto le mie tasche mentre percorro lo squallido corridoio di gente che si scosta al mio passaggio che porta ai bagni pubblici.

Devo averne ancora.

Come al solito, c’è una fila interminabile per andare al bagno. Getto la sigaretta a terra e la memoria muscolare mi induce a calpestarla per spegnerla, non posso aspettare così tanto.

A sinistra vedo uno scorcio di spazio al bancone del bar.

Il ritmo squarcia l’oscurità con improvvisi vortici lampeggianti pervinca. I beat del fabbro continuano ad assillarmi imprimendo nella mia testa l’ansia della scelta.

Mi metto in fila o vado al bancone? Senza esitare, allungo una mano per proseguire a tentoni verso lo sgabello, l’aria condizionata mi lambisce il volto rendendomi più conscio del sudore che mi inzuppa il torace.

Fluttuo in questa nausea claustrofobica sdrucita finché appare una vaga figura in camicia bianca, un barman sparuto coi capelli lunghi e i connotati pallidi. Esibisce una corona di perline di sudore. Ordino un gin-tonic.

Lo osservo con aria minacciosa mentre lo prepara, gli allungo dieci euro. Se utilizzi gin scadente ti deturpo la faccia.

Una bionda si sporge su di me per prendere il suo drink pronto, sfiora la mia spalla con il suo seno e un brivido di elettricità mi lacera lo stomaco. Sui ventidue anni e come accessorio un sorriso impersonale che sommato alla sua grande abilità nel truccarsi compensa la sua scarsa bellezza.

La sua sguaiata sensualità mi distrae, facendomi perdere l’attenzione sul cocktail. Dopo avermi piantato gli occhi addosso si allontana a passi armoniosi e intanto io seguo il suo sedere ondeggiante avvolto dalla gonna elasticizzata mentre scompare tra le fessure buie della folla intermittente.

Il drink è pronto. Accendo un’altra sigaretta e lo agguanto con insolenza per farmi un sorso. Un flusso gelido mi rinvigorisce le viscere e il bicchiere freddo mi punge il palmo.

Un paio di posti più a sinistra, un’ombra urta involontariamente un tizio a dissetare la sua arsura. Il suono dissonante del bicchiere che si infrange a terra nel buio, ultrasuoni distinti si lasciano captare tracciando la mappa dei frammenti di vetro che sbocciano sul solaio melmoso di capelli, mozziconi, grumi di sputo ed umide cannucce di plastica.

Approfitto della comodità della mia posizione e della confusione.

Estraggo la pellicola dalla mia tasca e la srotolo con la sigaretta fumante ammorsata tra gli incisivi, un’astenopia perpetua condizionata: il bianco degli occhi è ingiallito e coartato dai rampicanti rossi che germogliano dalle ghiandole lacrimali inaridite dal fumo.

Concentrato, prono, verso l’ultima caramella di sorriso.

Il modo migliore per sfruttarla sarebbe stendere una bella e sinuosa striscia ma la situazione non me lo permette. Sbriciolo i cristalli appiccicosi nel mio drink con le dita opponibili, stando attento a non sprecarne nemmeno una mollica. L’acquolina invade la mia bocca mentre pregusto il mio prossimo sorso.

Traffico di zombie, fastidiosi distillatori di sudore edulcorato intenti a consumare per tornare in pista, non ci sono altri obiettivi in queste situazioni: ogni attimo di vita consiste in gozzovigliare emozioni, in una successione di tanti adesso, la moderazione e la ricerca di significati tende a zero.

Devi sfruttare i minuti per ordinare la tua benzina alcolica, altrimenti non hai energie per sostenere quel ritmo, per ingoiare sudore-sesso-sensazioni.

Se perdi il momento allora perdi il tuo turno, allora perdi il tuo cocktail, allora perdi la musica e la paranoia inizia a impossessarsi di te. Perdi il ritmo, estinguendo il motivo per cui ti trovi lì in mezzo.

Inizio a sentirmi meglio mentre tracanno la mia miscela alcolica e nel giro di qualche secondo la calca che mi si affretta intorno non è altro che uno sciame di insetti per come me ne sento estraniato.

Il barista capellone si accorge del mio bicchiere vuoto e si avvicina in attesa di un segnale da parte mia. Con il gesto altero del mento cenno di versarmi un altro drink, mollando un’altra banconota.

Devo sbrigarmi.

Fisso il barista, mi chiedo chi potesse conoscere per alleviare i miei bisogni, lui ricambia con un’occhiata sospettosa. Faccio mente locale, identifico un nome che avrei sicuramente trovato in quel posto in quel momento. Vado per menzionarlo:

«Dove si trova?»

«Non ne ho idea.»

La musica filtra le mie parole dirette verso il suo canale uditivo raggiungendo a stento la membrana timpanica, ma non riesce a velare il suo pallore una volta che legge i fonemi prodotti dalle mie labbra per comporre quel nome. Insisto.

«Senti, non farmi perdere tempo, che mi dici? È qui vero?»

«Che ti dico?»

«Indicami dove si trova».

«Questo non è un ufficio, preparo da bere e mi faccio pagare».

Assaggio il disprezzo della sua intonazione. Inizio a covare un senso di nervosismo mentre sbocco il fumo alle mie spalle spingendolo in direzione della pista da ballo. In quell’istante, il grumo di fumo rende nitido un viso che sbuca da dentro le tenebrose fessure dei corpi danzanti, seguito poi dal resto del corpo, chiaro come le costellazioni di stelle infinite che sovrastano il locale senza copertura, riflette il gelido blu e argento celestiale e diluisce i suoi occhi cilestrini.

È ancora lei.

Resto a bocca aperta.

È colpa di tutto quello che ho bevuto e ingoiato se è così reale, lo so.

Scalza, il suo caschetto corvino e un sorriso dolce di compassione che distende la fossetta in mezzo al mento. Non è invecchiata di un solo giorno. Il suo collo nudo e le clavicole sporgenti, le sue forme snelle ondeggiano seguendo le linee delle onde sonore disegnate dalle casse acustiche e mi guarda, come ha sempre fatto, silente, mi chiede di raggiungerla per ballare insieme a lei e io, come ho sempre fatto, sono seduto in prossimità del bancone a sorseggiare il mio gin-tonic e a chiedermi come è possibile che sia così bella.

Gli angeli sono fantasmi.

Lo sbigottimento mi lascia a bocca asciutta e con la cornea disidratata.

Allora, sbatto le palpebre e lei non c’è più, uno schiaffo in faccia: risvegliarsi da un incantesimo mi inietta l’amara consapevolezza di quella che era solo la mia immaginazione.

Una resa paralizza le mie dita che liberano il mozzicone consumato, il nervosismo inizia a germogliare in rabbia sdrucita da un intruglio di frustrazione e rassegnazione.

Non è giusto che non sia più con me.

L’impasto di rancore e collera e sangue inocula nel mio cervello: una pressione che esplode ferocemente in uno scatto, ed eccomi sporgere dal bancone mentre stringo tra le dita il colletto della fetida camicia bianca del capellone.

«Ti cavo gli occhi stupido coglione! Dimmi dov’è o ti taglio la gola!»

Il respiro coartato tenta di digerire le parole che strabordano dalla mia bocca insieme alla saliva in eccesso prodotta dalle sue ghiandole a causa della paralisi faringea che il suo corpo utilizza come sfogo dello spavento, una scialorrea che rimanda a un cane che vede una bistecca ben cotta sul marciapiede dopo una settimana di digiuno.

«Mi dispiace amico».

Il terrore identifica la sua espressione cosparsa di schizzi della mia saliva, smorza la vibrazione delle sue corde vocali che riescono ad emettere una manciata di parole avvolte da una voce untuosa.

Il dito tremante mi orienta verso il privé.

Per raggiungerlo devo attraversare la folla che mi spintona galvanizzata dalla giostra di suoni scanditi e ritmici e aritmetici-progressivi e io procedo risoluto schizzando con il sudore che cola sulla mia schiena e la vena pulsante sulla tempia destra.

Proseguendo, intravedo quella presenza diafana che mi spia.

Ora è più vicina, mi mostra la sua pelle bianca sofferente soffusa di efelidi dorati, si inumidisce le labbra arrendevoli con le sue stesse lacrime confluenti con il sudore gocciolante dalle guance. La bocca ancora sporca del vomito che l’ha soffocata. Gli occhi spalancati e le pupille dilatate sull’iride, si lecca una lacrima mentre mi guarda tristemente.

Cerco di comunicare con lei.

Perché mi guardi così? Perché hai scelto proprio oggi per ricomparire? Dopo tutti questi anni. Perché non mi rispondi?

Si limita a osservarmi.

Invaso da una feroce nausea allo stomaco e dal turbine di pensieri e di ricordi, tasto la pistola nascosta sotto la mia schiena torturandomi con il ricordo di quella notte lontana, di quell’uomo corpulento con i capelli striati di grigio e la carnagione olivastra che ha spezzato l’anima di un angelo.

L’anima del mio angelo.

Morta.

Soffocata.

L’ultimo ricordo che ho di lei è l’odore del vomito di esagerazione incontrollata e di sempre più forti emozioni che gli aveva venduto quel tizio.

Me lo ritrovo davanti, quell’essere iniquo adesso sulla china del rammollimento, imbolsito, canuto, che rovescia su di me pensieri e sensazioni con una portata troppo rapida da contenere.

Assaporo lo stupore dei presenti seduti intorno a lui con lo sguardo interrogativo rivolto verso di me.

Estraggo la pistola e gliela punto rapidamente contro la testa. Fisso la sua midriasi, proietta la pellicola del film della sua vita che si riproduce nella sua testa. Intorno a noi il vuoto.

Il martello smette di battere e il silenzio scandisce la sua patetica salmodia di imprecazione.

Due spari e due sussulti, brillano nell’oscurità.

Il cranio esplode.

Invisibili brandelli sanguinosi di neurocranio e viscero cranio si cospargono viscidamente intorno ai presenti.

Il silenzio è un fragore assordante.

Riesco a udire il vomito provocato dal disgusto di qualche presente che si ritrova gli abiti agghindati impregnati di sangue e tessuto necrotico.

In alto, un cielo profondo e stelle pallide mentre mi volto vanamente dove l’avevo lasciata per cercarla.

L’aria sempre più scura e rosa e fredda, filtra frastagliate sfumature violacee che si insinuano tra le ombre tremolanti dei presenti, colora la mia anima che si sbriciola con lo stesso scroscio dei diamanti rovesciati sulla seta e, così, mi abbandono ad una profonda meditazione impastata all’inquietante consapevolezza della mia eterna solitudine.

SBRICIOLARE di Rosario Mattia Moniaci

genere: THRILLER

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