UN AMORE SENZA BARRIERE di Silvia Lisena

genere: ROMANCE

Se dunque al mondo tutti i grandi amori
sono stati in eterno contrastati,
vuol dire che è decreto del destino;
e questa prova, cui siam sottoposti
anche noi due ci sia di ammonimento
che ci dobbiamo armare di pazienza,
pensando ch’è retaggio dell’amore
d’esser sempre impedito,
come lo sono i sogni, i desideri,
i pensieri, le lacrime, i sospiri
che fan corteggio all’amore conteso.

William Shakespeare

Sogno di una notte di mezza estate

Atto I, Scena I

Tra due persone accade che talvolta,

molto raramente, nasca un mondo.

Questo mondo è poi la loro patria,

era comunque l’unica patria che noi eravamo disposti a riconoscere.

Un minuscolo microcosmo,

in cui ci si può sempre salvare dal mondo che crolla.

Martin Heidegger aHannah Arendt

PREMESSA

Questo libro è nato per caso.

Un assolato pomeriggio di quattro anni fa, avevo terminato il pranzo in modo abbastanza irrequieto: mia madre aveva nuovamente ripreso quel fatidico discorso che volevo evitare.

«Perché non vuoi andare all’oratorio?»

Erano finite le scuole e si erano, quindi, aperti tutti i vari centri estivi, e io mi accingevo a trascorrere la mia ultima estate da minorenne facendo l’animatrice all’oratorio, per trovare un rimedio alla noia che mi avrebbe assalito se fossi rimasta a casa per l’intera giornata.

L’oratorio disponeva di un programma vario che comprendeva un paio di giochi di squadra alla mattina e un’attività al pomeriggio, diversa per ogni giorno della settimana: inoltre, c’era anche il mio gruppo di amiche.

E allora, perché non ero soddisfatta?

Mi trovavo benissimo con le mie amiche, ma ultimamente tendevano ad assumere un atteggiamento che mi lasciava alquanto perplessa.

Si sa, a diciassette anni si è ancora in quell’età che solleva in gran parte dalle preoccupazioni della vita, o almeno le si rimandano all’anno successivo, quando si passa dall’essere adolescenti all’essere adulti: comunque sia, una delle cose che comporta quest’età è il prorompente desiderio di conquistare i ragazzi. E, di certo, le mie amiche non ne erano esenti.

Allora iniziava a diffondersi quella serie di comportamenti frivoli, come sedersi sulle gambe di un ragazzo o offrirsi “senza alcuna malizia” di spalmargli la crema solare su tutto il corpo. In cambio, ricevevano uno sguardo sornione di puro compiacimento, seguito spesso da qualche apprezzamento o battutina.

Io ero estranea a tutti quegli atteggiamenti.

Ero estranea a quel mondo.

Non ne ho mai capito con chiarezza le cause: col senno di poi, ammetto che il motivo principale dipendesse dalla mia estrema timidezza e conseguente incapacità di comunicare con il mondo maschile, che mi limitavo ad osservare come un aereo osserva il territorio su cui sorvola, senza però mai osare entrarci in contatto.

Un altro fattore non trascurabile è, senza dubbio, la mia disabilità.

Essere diciassettenni è un’età un po’ canaglia in questo senso: tutti guardano l’apparenza. È inutile negarlo. Guardano ragazze e ragazzi che si muovono in un certo modo, che si vestono in un certo modo, che parlano in un certo modo e di determinati argomenti. Figurarsi se passasse loro per la mente di concedere una misera, esigua possibilità ad una ragazza seduta su una sedia a rotelle ma che dentro di sé ha una miniera di risorse, pronte ad offrirle al ragazzo che mostrasse interesse per lei. Assolutamente no. Non rientra nei canoni, non rientra in quella normalità che continuano ostinatamente a perseguire.

Io, dal mio canto, non mi ero neanche sforzata di fare qualcosa che potesse cercare di convincerli che, in fondo, ero alla pari delle altre e che avevo diritto al lusso di quegli sguardi e di quegli apprezzamenti: tuttavia, non sono sicura che, se lo avessi fatto, ci sarebbero stati grandi cambiamenti. La mente degli adolescenti, molto spesso, è cieca e sbatte sempre sullo stesso palo invece di cercare una via alternativa.

Mi accontentavo, quindi, di fare da spettatrice a quel mondo sconosciuto, con la consapevolezza e l’amara rassegnazione che mai sarei riuscita ad entrarvi.

Ben presto, l’amarezza si trasformò in rodio e il rodio in astio.

Notavo il repentino cambiamento di atteggiamento che le mie amiche avevano quando incontravano un gruppo di ragazzi, anche se questi non suscitavano in loro un particolare interesse. Erano come attrici che passavano da un personaggio all’altro, cambiando espressione, cambiando maschera: solo che non riuscivo a capire il senso di questo spettacolo.

Anzi, non riuscivo a capire perché l’Amore, ossia il fine di tutto, necessitasse di maschere.

L’Amore, nella mia mente ingenua, nasceva spontaneamente, naturalmente, senza dover ricorrere a comportamenti che magari non erano neanche nell’abituale carattere di una persona. Perché si doveva cambiare? Per cosa? Per chi?

Perché i ragazzi guardavano soltanto l’aspetto esteriore di qualcuno? Nell’Amore non conta solo quello, vero? Perché non si guardava all’animo di qualcuno? Nell’Amore quello conta, vero?

Perché ci si affannava, ogni volta, ad entrare in quella dimensione di non-normalità, che però era considerata tale?

«Perché non vuoi andare all’oratorio?»

I miei genitori non riuscivano a capire, anche perché io mi ostinavo a rinchiudermi nella mia introversione, lasciando che il tormento che mi assaliva tutte le volte che ero costretta ad assistere a quella squallida, patetica recita mi lacerasse silenziosamente.

Tuttavia, ero consapevole che si trattava di una guerra che avrei dovuto combattere da sola.

Fu così che, il 6 agosto dello stesso anno, tradussi quella guerra in un testo.

Uno sfogo. Fittizio, ovviamente: immaginai di essere stata costretta da mia madre ad andare alla festa di una fantomatica compagna di classe che non sopportavo e che incarnava proprio quel terribile vizio, l’Apparenza.

Poi terminò la giornata e, per molti giorni, quel breve testo rimase lì.

Un giorno, per caso, lo ripresi, abbozzai l’idea di eliminarlo perché la valenza di quelle frasi era soltanto temporanea, ma una domanda mi folgorò: perché non farne una storia?

Fu così che quel piccolo testo rinacque. O meglio, nacque definitivamente.

Io mi chiamai Serena: ero una ragazza di diciott’anni, alla soglia del mondo della maturità ma non ancora pronta a varcarla. E, ovviamente, in carrozzina.

Di cosa avrebbe parlato la mia storia? Ripensai al mio sfogo e al motivo che vi era dietro: l’Amore. La mia storia avrebbe parlato d’amore.

Molti libri parlano d’amore, nelle più svariate forme, ma la mia storia sarebbe stata diversa. Che senso ha, infatti, scrivere una storia uguale alle altre?

La mia storia avrebbe parlato dell’Amore, dell’Amore come lo intendevo io. Di un Amore puro, spontaneo, depurato dall’apparenza, condito invece con l’essenza.

Arrivò anche la figura maschile, Cameron, e mi ricordai di una certa disabilità di cui avevo letto: la disprassia, un disturbo che riguarda la coordinazione. Non è una disabilità evidente quanto la carrozzina, ma che comunque c’era.

Era questo il punto, era questo ciò che volevo trovare: qualcosa che non si vedeva, ma che era presente.

Non è una storia d’amore fra due persone con disabilità, è una storia di due persone fatte di luci e di ombre.

C’è un po’ di ombra in ciascuno di noi e, se si considera la disabilità come una sorta di limite, allora ognuno è disabile a modo suo, perché ognuno ha dei limiti: fisici, psicologici, perfino di pensiero. La distinzione, quindi, risulta essere soltanto puramente nominativa e si può affermare che forse è normale che tutti abbiano dei limiti, delle disabilità.

Così la disabilità diventa normalità.

E non bisogna vergognarsi di questi limiti. Anzi, li si deve considerare come una marca di individualità. Qualcosa che rende ciascuna persona unica, incomparabile rispetto agli altri. Qualcosa che la rende diversa. Qualcosa che la rende speciale. E la specialità costituisce la bellezza di un individuo.

Così la diversità diventa bellezza.

Dopo un anno di completo oblio, dovuto ad effimere circostanze che però mi impegnarono la mente, il 16 gennaio dello scorso anno terminai quello che, con mia somma gioia, era diventato un vero e proprio romanzo.

Il mio primo romanzo.

Quando mi chiedono di spiegarne l’oggetto, confesso di trovarmi un po’ in difficoltà. Rispondere «parla d’amore» o «parla della disabilità» o ancora «parla del rapporto fra la disabilità e la società» sarebbe abbastanza riduttivo.

Penso che, in primis, sia la storia di una ragazza e di come sia diventata, o meglio, di come stia diventando una donna.

Il suo percorso è come un puzzle: ci sono nuove amicizie, nuovi incontri, nuovi luoghi. Ci sono persone che si rivelano essere diverse da ciò che sembrano, ci sono pregiudizi, ci sono lacrime, dolori, tristezze.

E in tutto questo groviglio di tasselli rientra anche l’Amore.

Ho sempre sostenuto che l’amore non sia univoco, non è donare qualcosa all’altro o farsi donare qualcosa dall’altro, ma che invece sia una condivisione di pensieri, di emozioni, di esperienze. L’Amore è un invito: «vuoi condividere con me, da oggi, ogni giorno della mia vita? ». Fino a quando? Fino a quando dura.

L’Amore non ha scadenze o prenotazioni: è ogni attimo, ogni istante che si vive. L’Amore nasce quando ci si mostra nella nudità della propria anima cosicché l’altro possa vederla integralmente, scoperta, pura. L’Amore non è amare oltre la disabilità, ma è amare con la disabilità, in quanto essa stessa è parte di quella nudità. L’Amore è riconoscere in quella disabilità non un difetto, non un limite, non un ostacolo, ma una diversità. Una diversità che rende quell’individuo unico. E l’unicità origina l’Amore.

L’Amore è quando si decide di condividere insieme un tratto di vita, breve o lungo che sia, insegnando qualcosa all’altro e contemporaneamente facendosi insegnare qualcosa dall’altro. L’Amore è essere consapevoli che non è mai perfetto e contemporaneamente sperare e illudersi che lo sia: tutti gli ostacoli che disturbano il suo cammino non lo danneggiano, anzi, lo spronano ad andare avanti e, paradossalmente, lo rendono più forte. Lo rendono unico.

Sono maturata da quel 6 agosto 2009: sono diventata più razionale e, pur non abbandonando il mio lato sognatore, mi sto confrontando con la realtà.

Quando, tempo fa, ho riletto il romanzo per fare alcune revisioni, ho sorriso rileggendo i pensieri di una diciassettenne combattiva, esclusa dal mondo che la circonda, credente nell’essenza vera dell’Amore e desiderosa di costruirsi una sorta di universo parallelo.

Adesso ho capito che non bisogna estraniarsi dal mondo per cercare di costruirne un altro migliore, ma bisogna trovare il proprio spazio nel mondo in cui si vive. È un processo difficile, che spesso richiede molto tempo, però è l’unica chiave che può portare alla felicità. Crearsi un’armonia col mondo. È un percorso di crescita interiore.

È un percorso che ho iniziato ad affrontare io, partendo da quelle convinzioni che ha Serena e che, pur essendo sbagliate, ingenue, perfino immature magari, contrassegnano tuttavia un periodo della sua vita. Penso sia giusto che questo percorso di maturità lo affronti anche lei, cosa che ho intenzione di farle fare negli episodi successivi.

Per ora, però, invito i lettori a compiere quel processo che Coleridge chiama “sospensione dell’incredulità”: si abbandoni, per un po’, la razionalità e ci si faccia catturare da questa storia con l’auspicio che le parole e le emozioni di Serena possano diventare, almeno in parte, anche vostre.

Silvia Lisena

11 aprile 2014

L’estate è la stagione più breve e più intensa dell’anno,

quella delle grandi avventure o dei grandi amori,

della libertà e degli eccessi,

quella dei cambiamenti e delle rivoluzioni.

Ognuno di noi vive almeno un’estate indimenticabile,

un’estate che gli cambia la vita.

Antonio Curnetta

1

Sono ormai quindici minuti che continuo a far finta di voler suonare il campanello e poi ritrarre subito il dito. Accidenti, ma perché sono voluta venire a questa stupida festa?! Ma chi me l’ha fatto fare?

Risposta: mia madre, con il suo tono falsamente comprensivo: «Almeno passi un po’ di tempo con le tue amichette! ». Amichette: stare sei ore con una classe di bambini dell’asilo nido le ha fatto perdere la testa.

E così, con quest’epica frase di mia madre e Sara che ogni giorno mi elencava imperterrita tutti i buoni motivi per cui secondo lei sarei dovuta venire a questa noiosissima festa, adesso sono qui impietrita davanti a un banale pulsante di ottone beige con sopra le parole “J. McKenzie, B. Bariotti” in calligrafia ottima, sottolineando la raffinatezza dei proprietari.

Ebbene sì, loro sono i genitori della mia carissima compagna di scuola nonché festeggiata Amber McKenzie. James, suo padre, è un inglese doc: infatti lei è nata a Oxford, sembra che abbia delle origini nobili, ma ovviamente queste sono le classiche voci sparse nella scuola e uscite dalla bocca di chissà chi. Brigitta Bariotti, sua madre, è invece italiana, nata a Modena e primaria dell’ospedale San Carlo di Milano.

Questa è la presentazione che ha fatto Amber di sé il primo giorno di scuola: per il resto è la tipica ragazza per cui indossare brillanti di Damiani, borse della Guess e vestiti di Armani è una routine, per cui è assolutamente normale andare dal parrucchiere tre volte alla settimana, per cui è impensabile anche solo l’idea che esistano scarpe diverse dallo stiletto 12. No, non sto affatto esagerando.

Penso che capiti una volta su cinque di avere come compagna una ragazza così, e che una persona su cinque è la sfortunata che ha come compagna una ragazza così. Ecco, questa è quell’unica volta e io sono quell’unica sfortunata.

Inoltre, Amber è la calamita dei party: non ce n’è uno in tutta Milano a cui lei non sia stata invitata. Il motivo principale è che porta gente… o meglio, porta la gente. Pare, infatti, che un amico di famiglia lavori in un ufficio casting del settore moda; quindi, lei entra frequentemente a contatto con modelle e modelli di tutte le nazionalità possibili e immaginabili – e, talvolta, con questi ultimi si tratta anche di un contatto davvero intimo.

In classe, Amber parlava di cose che per noi, gente comune, erano lontane anni luce: la maggior parte delle ragazze la guardava con ammirazione e la maggior parte dei ragazzi… beh, la guardava e basta. Incarnava quello che si pensa essere il prototipo di donna nella società contemporanea: bella, ricca e con i giusti agganci. La rappresentazione concreta di quel misterioso, oscuro concetto chiamato apparenza. A mio parere, invece, l’apparenza è assimilabile ad un grosso palloncino che vola in alto, in alto… tutti lo guardano ma non riescono a prenderlo… e lui continua a salire, sempre più su, cercando di raggiungere un’ipotetica cima. Ma se un giorno capitasse di tenerne in mano uno e di volerlo stringere a sé come per paura che possa sfuggire, bisogna stare attenti: se si stringe troppo, questo scoppia. E poi rimane solo l’aria. E poi l’animo si rende consapevole dell’amara verità: dentro il palloncino non c’era niente.

Ritorno alla realtà presente e guardo l’orologio nella speranza che mi resti ancora qualche minuto per pensare a che atteggiamento dovrò avere per non fare gaffes o dare un’impressione sbagliata di me: 7.45, la festa è iniziata da più di mezz’ora ormai, non posso più aspettare. Tremante e completamente malvolentieri premo il dito su quel crudele campanello, sospirando nel pensare a che spettacolo troverò: gente che balla e beve, ragazzi che si appartano con ragazze in angoli bui… ah, e ovviamente la festeggiata tutta intenta a farsi notare.

La porta d’ottone si apre, io rivolgo le mie ultime preghiere e abbasso la testa per vedere un’Amber con i capelli castani tutti spettinati, un quintale di matita nera sugli occhi e un orrendo rossetto viola stile strega di Halloween che mi grida: «Serena, eccoti! Pensavamo ti avesse rapita qualcuno, ih!». A questa specie di battuta io non batto ciglio, non trovandola assolutamente divertente. «Dai, vieni! »

«Ciao Amber… buon compleanno» sussurro, consegnandole il mio minuscolo pacchetto.

«Oh, grazie… anzi, tenkiu! » gracchia, storpiando quella che dovrebbe essere  una delle sue lingue madri e stampandomi un bacio violaceo sulla guancia. Poi afferra di scatto la mia carrozzina e così mi ritrovo dentro al suo salotto, che pare più un’enorme sala da ballo. Ci sono tavolini marmorei sparsi ovunque, una grossa sfera multicolore che mi acceca non appena entro e un cubo rosso che è il triplo di me in altezza e venti Amber messe insieme in lunghezza.

Distolgo lo sguardo da cotanta lussuria soltanto quando lo strillo della festeggiata mi spacca il timpano dell’orecchio destro: «Serena, non ci crederai mai: tra un po’ vengono i Finley a suonare qui! Ti rendi conto?!». La notizia mi coglie totalmente indifferente, dal momento che non possiedo né un loro poster, né un loro album e a malapena ho ascoltato una loro canzone su MTV. Ma per non sembrare sgarbata rispondo: «Davvero? Wow, non me li voglio perdere!» mentendo spudoratamente.

«Ciao amore! ». All’improvviso sento la voce di Diego e la mia bocca si allarga in un sorriso mentre mi volto verso di lui.

In teoria Diego è il mio fidanzato, in pratica… non so. Perché è da ormai tre mesi che stiamo insieme, ma io sento di non provare la stessa emozione di un tempo. Potrebbe sembrare una cosa che succede a tutte le coppie, ma ogni volta che ci vediamo il sospetto che sia il ragazzo sbagliato cresce sempre più nella mia testa. Purtroppo, il mondo è contro di me: infatti Sara mi continua a dire che è una fortuna che ci siamo conosciuti, che siamo perfetti insieme e che me lo devo tenere stretto… per non parlare di mia madre. Se Diego avesse la sua età, credo proprio che se lo sposerebbe: ha una vera adorazione per lui. Ogni santo giorno mi ripete che è felice che l’abbia scelto e che spera di essere presente quando mi dovrà accompagnare all’altare, ovviamente dopo avermi elencato tutti i suoi pregi e come mi potrà aiutare in futuro.

Però, d’altra parte, non me la sento ancora di lasciare Diego: dopo tre mesi di fidanzamento comunque sono consapevole che ci sia qualcosa di abbastanza stabile tra di noi, oltre al fatto che sentire la sua voce dolce e lasciare che i suoi baci mi penetrino nel corpo mi fa sentire sempre al settimo cielo. Tuttavia, persiste ostinata la presenza di questo peso che mi rimbalza su e giù per lo stomaco, causa per cui non ho mai baciato Diego: essendo infatti il mio primo bacio, voglio che sia speciale, dato al momento giusto e alla persona giusta, cosa di cui a volte dubito che lui sia. Ah, ultima cosa ma di vitale importanza: il mio ragazzo è il cugino di nientemeno che Amber McKenzie, figlio della sorella della madre. Può ci entrare qualcosa con il fatto che da esattamente tre mesi Amber mi rivolge spesso la parola, mi fa dei complimenti, insomma, si è accorta della mia esistenza?

Mi dirigo verso Diego che mi bacia amorevolmente i capelli.

«Hey!», che è il mio tipico saluto quando non so cos’altro dire.

«Sei arrivata in ritardo,» osserva. «mi sei mancata». Io sorrido timidamente ma vorrei sbattere la testa contro il muro.

«Ci dirigiamo verso la pista?»

«Oh, no: non vorrai mica farmi ballare?!» gli chiedo spaventatissima. Già mi immagino lui, con la sua eleganza da ballerino, che fa volteggiare la mia carrozzina… e all’improvviso io che vado addosso a un gruppo di invitati: figuraccia totale!

«No, sciocchina!» mi rassicura Diego ridendo. «Te l’ho detto così raggiungiamo Amber, ché le devo dire che mia madre ha chiamato per farle gli auguri»

Mi spinge dolcemente verso l’estremità della sala dove è situato il cubo fosforescente su cui adesso Amber balla leggiadra come una farfalla. Ma quando siamo a tre metri da lei, la voce di Sara mi fa voltare: «Ciao S2!». Siccome i nostri nomi iniziano con la stessa lettera ci chiamiamo S2.

«Sara!» esclamo, sollevata di dovermi allontanare da Amber e da Diego. «Come va?»

«Tutto okay» mi risponde di rimando mentre mi avvicino a lei.

«E allora siamo qui,» sospiro, allargando le braccia «alla fantomatica festa di Amber McKenzie!». Sara ride. «A proposito, ti rendi conto che questa è l’ultima occasione in cui stiamo insieme?»

«Eh già… che tristezza! Sono stati cinque anni di liceo stupendi!»

«Eccome! Soprattutto perché ho incontrato delle amiche fantastiche!»

“Una amica”, dovrei dire. Infatti, io ho fatto amicizia solo con Sara: con gli altri scambiavo solamente un timido ciao. Questo è perché io mi chiudo a riccio quando si parla di familiarizzare con gli altri. Forse è per paura di essere giudicata subito e male, è una cosa che mi viene spontanea. Quindi mi ritrovo sempre così, con un’unica amica su cui contare e a cui confidare tutto: se mancasse lei, sprofonderei nel vuoto più assoluto.

«Allora, dove vai in vacanza?» mi chiede Sara.

«Domani vado a Rimini»

«Oh, Rimini!» esclama sospirando.

«Già, un po’ strano, eh? che si esca dalla strada Milano-Bari, Bari-Milano!»

«No, intendevo dire: “che bella città è Rimini”! Io non ci sono mai andata… ma dicono che c’è un mare stupendo e che ci sono moltissimi vip!» aggiunge strizzandomi l’occhio.

Sbuffo: la cosa non mi fa entusiasmare particolarmente. «Se sono vip come calciatori e veline, a me non interessano. Ma comunque farei la figura della deficiente in carrozzella se andassi da loro a chiedere un autografo»

«Dai, non fare così!» mi rimprovera la mia amica. «Non capisco perché hai sempre un’idea negativa di te stessa!»

«Boh, non saprei…»

«In fondo,» continua imperterrita «tu sei brava a scuola…»

«Come se bastasse solo questo!» replico con una smorfia.

«… hai un bel ragazzo…». Qui Sara si ferma lasciandosi sfuggire un singhiozzo, ed io intuisco il problema.

«Oh no, stai ancora pensando a lui? Se cerchi sul dizionario alla voce “stronzo” c’è la sua foto! E non solo per quell’aggettivo…»

«Lo so!» replica, con gli occhi che le luccicano. «È solo che non riesco a togliermelo dalla testa: tutte quelle frasi dolci, tutti quei modi carini, tutti quei “ti amo” e quei baci… per poi scoprire che era… che era un cafone!»

«Immagino come tu ti possa sentire, Sara, ma non puoi continuare a rovinarti la vita per Luca,» le dico «ci saranno ragazzi migliori in questo mondo!»

«Sì,» risponde Sara tirando su col naso «il tuo ragazzo, per esempio».

Ahi, ha toccato un tasto dolente: non riesco a reprimere un’espressione triste.

«È così dolce, gentile, generoso… e poi è bello, troppo bello! Naturalmente non voglio rubartelo, eh? Voi siete una coppia così perfetta!» continua a parlare animatamente, incurante dei miei sospiri. Quando alzò per l’ennesima volta gli occhi al cielo, Sara mi chiede: «C’è qualcosa che non va?» e a quel punto sono costretta a confessare: «È che… è da un po’ che ci penso: e se Diego non fosse la scelta giusta? Quando sto con lui non mi sento abbastanza… soddisfatta come dovrebbe essere una vera ragazza…»

«Ma è una cosa normale, Sere!» mi rassicura lei.

«No che non lo è!» la interrompo. «Quando sto con lui sono felice, questo è vero, ma dentro me sento una voce che mi dice che il ragazzo della mia vita lo devo ancora trovare… capisci che intendo?»

«Sì,» risponde Sara, leggermente spazientita «ma io ti dico che non sei l’unica a pensarlo! Poi rifletti: Diego è un ragazzo premuroso, romantico, tenero… insomma, non sarebbe bello scaricarlo, no?»

«Io non voglio scaricarlo…» cerco di spiegare, ma la mia amica continua ininterrottamente: «Non capisco come fa ad essere il migliore amico di Luca: è praticamente l’opposto!»

«Già…» annuisco, mentre le speranze che Sara mi comprendesse svaniscono nell’aria.

All’improvviso udiamo un grido che mi fa alzare la testa e fa voltare la mia amica: «Aaah! I Finley sono arrivatiiii!!!».

Benché non m’importi granché di loro, mi suscita una strana sensazione vederli di persona e non più dietro allo schermo televisivo o sui giornali. Quindi, anticipati da fans urlanti munite di carta e penna, varcano la soglia della lussuosa casa di Amber: Pedro, il cantante, con i riccioli castani che gli ricadono armoniosamente sulle spalle, Ka, il chitarrista, le cui guance sono lievemente arrossate, poi Ste e Dani, gli altri due componenti della band: tutti e quattro sfoggiano un sorriso a trentadue denti, fermandosi a fare autografi alle ragazzine che sembra siano entrate in un totale stato di trance.

Io resto lì al tavolo, seguendo con lo sguardo il loro percorso dalla porta al luogo dov’era situato prima il cubo: di fronte a me è rimasta Sara che, da buona amica, non mi ha abbandonato pur adorando alla follia i Finley.

«Buongiorno a tutti!» saluta Pedro, a cui segue un misto di fragorosi applausi, urla e fischi. «Prima di tutto vorrei ringraziare la festeggiata, la nostra amica Amb!». Amb: che confidenza, come se si conoscessero da una vita!

«Allora, come vogliamo iniziare questo concerto? Direi con una bella… “Diventerai una star”!». Applausi e urla a non finire.

I Finley iniziano a suonare l’unica canzone che ho ascoltato su MTV e che conosco abbastanza. Quasi quasi mi vien voglia di unirmi a tutte le ragazzine e a Sara, che alla fine non ha resistito alla tentazione, ma qualcosa mi frena: Amber irrompe dal nulla sul palco e si mette a ballare sfoggiando la nuova minigonna di jeans e strusciandosi al fianco di Pedro come un gatto, tanto che per la rabbia mi viene da andarmene via subito.

«Serena!». Un tenero sussurro mi fa voltare e mi trovo davanti Diego. «Ehm, amore, potresti venire un attimo sul balcone?». “Certo! Mille volte grazie per avermi levato da questo spettacolo obbrobrioso!” gli vorrei dire, mentre invece mi limito a sorridere e a seguirlo.

Il balcone di Amber è immenso, con fiori variopinti che fanno capolino dagli angoli: noto che stasera il cielo è meravigliosamente stellato e colorato di un dolce blu…

«Ti dispiace se ti ho allontanato per un attimo dal concerto?» mi chiede con la sua candida voce vellutata e quell’adorabile cadenza che sembra farlo provenire da un altro secolo.

«No, anzi!» rispondo guardandolo negli occhi: sono neri come il carbone e ora risplendono nell’immensità di questa notte. Sono questi i momenti in cui mi viene voglia di abbracciarlo e di essere felice di avere un ragazzo, ma qualcosa mi blocca. Un impulso istintivo e irrefrenabile, una vocina interiore che mi dice che Diego non è ciò che sto cercando. Poi, con un tono più maligno, mi avvisa che mi farà soffrire e che quindi dovrei stare alla larga da lui: ma scarto subito quest’ultima ipotesi, perché non ho dubbi che Diego mi voglia troppo bene per ferirmi.

«Senti… tra un po’ si va in vacanza…». Lo guardo aspettando il seguito. «tu dove andrai?».

Sospiro, perché capisco benissimo che non era questo ciò che voleva dire veramente, ma ripeto annoiata: «A Rimini»

«Ah… bello!» commenta forzatamente, ma io vedo che è imbarazzato. «Beh… ovunque tu andrai, sappi che mi mancherai moltissimo e che io ti penserò in qualunque momento».

Io rimango spiazzata perché non mi aspettavo proprio parole così… romantiche. Cerco di balbettare qualcosa che si possa equiparare: «Sì, mi mancherai molto anche tu, Diego»

Mi accarezza i capelli e io vorrei sprofondare sottoterra: ma come fa a non accorgersi che non c’è un sentimento reciproco da parte mia? O almeno non del tutto…

«Beh, forse ti ho fatto perdere fin troppo tempo…» dice Diego dopo un po’.

«No, no, restiamo qui!» lo scongiuro: la visione di Amber che fa la diva davanti ai Finley mi dà la nausea.

Lui mi lancia uno sguardo interrogativo, poi acconsente: «Okay».

Segue un silenzio molto imbarazzante. Odio questi momenti. Gli ho chiesto io di rimanere, quindi dovrei introdurre per prima il discorso: “coraggio, Serena, anche una sciocchezza qualunque va bene…”.

«E anche quest’anno è andato…». Frase identica a ciò che mi ha detto Sara mezz’ora fa.

«Già…» annuisce Diego, guardando il vuoto. «Progetti per il futuro?»

Io inizio ad arrossire: «Pensavo di andare alla San Donato: dicono che è un’università ottima per chi, come me, è interessato alla medicina»

«Uhm… Io invece andrò al Torricelli!» esclama raggiante.

Sorrido: lo sport, in particolare il calcio, è sempre stata la sua passione e inoltre è molto bravo a giocare. Finalmente può coronare il suo sogno!

«Non ti troverai un po’ a disagio lì?» mi chiede, accennando all’università. «Insomma, tutti hanno un anno in più di te…»

«Grazie dell’incoraggiamento, Diego!»

Lui ridacchia. «Sono solo realista! »

«E poi non è colpa mia se sono una primina! » rispondo con il tono leggermente offeso. Ci guardiamo un attimo e scoppiamo a ridere, sempre più forte. Adoro questi momenti, in cui Diego si comporta da amico e non da fidanzato, e vorrei che durassero all’infinito.

Quando finalmente le risa incontrollabili terminano, alzo la testa e incrocio il suo sguardo: mi perdo nel mare dei suoi occhi scuri, sono così belli che sembrano finti…

D’improvviso tutto intorno a me diventa opaco… c’è solo il volto di Diego nella mia mente… sento le mie labbra avvicinarsi alle sue, il suo respiro caldo che mi attanaglia i sensi… ma ad un tratto qualcosa mi blocca: è sempre la vocina maligna che mi fa mordere il labbro inferiore e guardare da un’altra parte come se Diego avesse le spine.

Oddio, perché non abbiamo continuato a sbellicarci dalle risate come due normali amici invece che dover affrontare questa situazione imbarazzante e dolorosa?

«Ehm… credo che dovremmo ritornare di là » balbetto imbarazzatissima.

Lui annuisce ed io lo guardo per un istante: ha l’aria da cane bastonato, poverino, mi fa tanta tristezza! Sono questi i momenti in cui vorrei che la terra mi risucchiasse o che ci fosse una macchina del tempo che mi portasse via.

Io e Diego ritorniamo nel salotto di Amber dove tutti ballano felici: lui si allontana prontamente da me e io cerco di assorbire, almeno in parte, l’euforia dei presenti in modo da dimenticare l’accaduto.

«Ehi S2!» mi chiama all’improvviso Sara. «Vieni a scatenarti? »

Io scuoto la testa.

«Okay, ti faccio spazio! »

«Ma Sara, ti ho detto di no!» urlo, cercando di sovrastare la musica.

La mia amica mi si avvicina. «Uffa, perché no?»

«Non ho voglia» borbotto spazientita.

«E dai, è l’ultima occasione in cui possiamo fare le pazze!» mi incita Sara.

«Appunto: lo abbiamo fatto per tutti questi anni… ora è meglio che ci fermiamo un po’! »

«Sai, Sere, hai un anno in meno di me ma ne dimostri venti di più!» ribatte lei offesa.

«Senti, ho già la luna storta, non ti ci mettere pure…». Mi blocco di colpo: se accennassi, anche involontariamente, qualcosa sul “quasi-bacio” tra me e Diego, lei mi farebbe subito il terzo grado. Quindi c’è un’unica soluzione.

«E va bene,» dico sbuffando. «un ballo te lo posso pure concedere. Ma che sia uno!»

Vedo gli occhi di Sara illuminarsi, poi la bocca si apre in un grandissimo sorriso a trentadue denti, come una bambina che ha appena ricevuto le sue caramelle.

In un attimo mi ritrovo al centro della sala a ballare: muovo le braccia alla rinfusa, con i capelli che mi si parano davanti agli occhi, cercando di seguire il ritmo di una canzone che neanche conosco bene.

E all’improvviso guardo me e Sara, due diciottenni che urlano e si scatenano come due ragazzine, e mi tornano in mente tutti i momenti passati insieme: quando eravamo solo noi due, senza nessun ragazzo che avrebbe potuto interferire, senza temere che un giorno tutto sarebbe potuto finire e questi ricordi svanire nel vento.

Un grido mi risveglia dai miei pensieri: «La torta! ». Mi dirigo verso un’enorme tavola lussuosa con una tovaglia dorata e un’enorme torta decorata con piccoli fiori di zucchero colorati su cui, al centro, troneggia la scritta “Auguri Principessa!”. Alquanto prevedibile per i McKenzie.

Al capo del tavolo c’è Amber con gli occhi lucidi, sua madre che non è da meno, Diego, di cui cerco di evitare lo sguardo e James che, invece, sta cercando la posizione più comoda per scattare la foto.

«Esprimi un desiderio, Amb! » esclama qualcuno.

Un desiderio… che cosa avrei potuto chiedere se fossi stata io la festeggiata? Avrei semplicemente chiesto un mondo che abbia occhi per guardare e non soltanto per vedere, orecchie per ascoltare e non soltanto per sentire. Un mondo dove esista qualcuno con cui io mi possa sentire finalmente me stessa, libera da questa gabbia di cristallo nella quale sono costretta a vivere ogni giorno. Ma forse è soltanto un’utopia, forse mi dovrei rassegnare e, in qualche modo, cercare di salire su questa giostra che gira in continuazione e che non si fermerà mai. Non per me.

«Sere, ci sono i miei: devo andare» mi avvisa Sara facendomi ritornare con i piedi per terra.

«Ah okay,» annuisco voltandomi verso di lei.

«Buone vacanze, allora!» mi augura, chinandosi per schioccarmi un bacio sulla guancia.

La seguo lasciandomi alle spalle la festa e l’elegante reggia di Amber, finché non intravedo la Toyota grigia di suo padre.

«Promettimi che ci sentiremo qualche volta» balbetto, incapace di nascondere la tristezza che traspare sul mio viso.

«Promesso! » esclama Sara regalandomi un sorriso a trentadue denti. Un altro leggero bacio sulla guancia e poi si allontana… ed io mi sento già sola.

Guardo il cielo: è rimasto blu come quando ero sulla terrazza con Diego. E lui? Non lo voglio vedere… mi avrà perdonato, questo è sicuro, ma preferisco evitare altre smancerie, ho causato abbastanza guai per oggi.

Una mano si posa sulla mia spalla facendomi sussultare. «Hey, Serena! Come è andata la festa?» mi chiede mio padre raggiante.

«Bene» mento io.

«Uhm… da quello che vedo qui,» e indica la sontuosa villa McKenzie. «devono aver fatto le cose in grande!»

«Eh già,» annuisco inespressiva: non ho proprio voglia di parlare.

«Beh, penso che sia ora di andare. Hai salutato tutti?»

«Sì» mento nuovamente.

Mio padre mi aiuta a mettermi in macchina; durante il tragitto mi sforzo di non pensare alla festa, a Diego o a Sara; perciò, mi scervello nel trovare una risposta al perché i colori del semaforo siano rosso, giallo e verde.

In breve, giungiamo a casa e, appena entrata, mia madre non fa in tempo a sillabare un saluto che io dico: «Ciao mamma, la festa è andata bene, ora sono stanca e vado a letto». L’ultima cosa che desidero è fare un resoconto della serata nei minimi dettagli.

In cinque minuti sento già il soffice cuscino sfiorare le mie guance e mi abbandono ai pensieri più profondi: quel quasi-bacio tra me e Diego… si deve dimenticare, tutto qua. Spero che durante quest’estate flirti con qualche ragazza, non mi dispiacerebbe… lo so che, essendo la sua fidanzata, non dovrei pensare queste cose, ma mi accorgo che lo sto ingannando. Non per crudeltà, però, per codardia… codardia di dire le cose in faccia alla gente.

La situazione che sto vivendo è paragonabile a un grande arbusto dove Diego è il tronco e Sara e i miei genitori sono i rami: se si taglia il tronco cadono anche i rami, perché dipendono da esso. Analogamente, penso che se lasciassi Diego la mia migliore amica mi terrebbe il broncio per un mese e, inoltre, dovrei sopportare le varie lamentele di mia madre che cercherebbe in ogni modo di farmi venire i sensi di colpa. No, no, meglio evitare!

Mi sforzo di pensare ad altro e subito le vacanze prendono il sopravvento. Rimini, a detta di Sara, è una bella città: vedrò cose nuove, respirerò un’aria nuova e gusterò sapori nuovi. Questi due mesi, inoltre, mi serviranno per riflettere sulle decisioni da prendere su una vita che da tempo non riesco più a controllare.

«Sì, va bene, poi ci penserò» mormoro tra uno sbadiglio e l’altro: ormai sono proprio stremata. Lentamente chiudo gli occhi, mentre i contorni della mia camera iniziano a sfocarsi.

CONTINUA

UN AMORE SENZA BARRIERE è un romanzo di Silvia Lisena

genere: ROMANCE

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