CAMERE di Livio Flambea

Foto di Stefan Keller da Pixabay 

Appena aperta la porta, si rese subito conto che era stato più fortunato del solito: la stanza era grande e luminosa, con due ampie finestre sul giardino ed una comoda poltrona di fronte al letto accostato alla parete.

Era situata in un appartamento al primo piano di una vecchia palazzina signorile in una zona residenziale molto elegante.

Pensò che con quella sistemazione il soggiorno nella città straniera gli sarebbe pesato di meno.

Non era infatti la prima volta, né doveva essere l’ultima, che per lavoro era costretto a varcare la frontiera e trattenersi in quella città per qualche mese.

Si trovava lontano da casa abbastanza per sentirne tutto il disagio, ma non troppo da essere ripagato dall’esotismo dei luoghi.

Non che soffrisse per una particolare forma di nostalgia, quanto per la pigrizia di doversi ambientare in quella diversa realtà ogni volta per così poco tempo.

Tale pigrizia in passato era stata amplificata dalla sua non felice sistemazione presso gli edifici della Berghause: enormi palazzi costituiti da singole camere con acqua corrente e sevizi comuni, che potevano essere prese in fitto a poco prezzo e con poco anticipo di tempo.

In quei locali, benché densamente popolati da infermieri, studenti, parenti dei malati del vicino ospedale, lavoratori stagionali di vario tipo e varie razze, regnava un silenzio innaturale, quasi religioso.

Spesso si era sentito un estraneo negli androni e nei corridoi deserti, quasi un ospite indesiderato, lui che era abituato al frastuono della sua città di mare.

Aveva compiuto ogni gesto quotidiano nella scrupolosa osservanza di quell’atmosfera morta, con l’inconscio terrore che qualcuno, prima o poi, avrebbe scoperto il disordine rumoroso che per natura portava dentro di sé.

Così, quel piccolo appartamento di quattro stanze più cucina e bagno lo aveva riportato ad una dimensione più familiare, più umana, anche se in quella casa regnava lo stesso identico silenzio che nella Berghause.

Posate le valigie, iniziò a prendere confidenza con il luogo: saggiò la morbidezza del letto, provò la poltrona, verificò la capienza dell’armadio a muro.

Passò quindi ad ispezionare la cucina, aprendo scrupolosamente tutti i cassetti per censire con esattezza il corredo di pentole e stoviglie a disposizione degli inquilini.

Infine, esplorò la stanza da bagno che giudicò piccola e funzionale, compiacendosi della presenza di una vasca, anche se di ridotte dimensioni.

Considerava infatti il bagno domenicale come uno dei pochi riti autentici per santificare le feste, visto che da molto tempo ormai aveva perso la strada per la Chiesa.

Proveniva, infatti, da una famiglia di certo cattolica, ma non praticante, insofferente comunque per ogni tipo di intermediazione con Dio, con il quale preferiva avere un rapporto diretto o, piuttosto, nessun rapporto. 

I suoi genitori lo avevano condotto scrupolosamente a Messa, insieme alla sorella, ogni domenica finché erano stati bambini, più per dovere cristiano che per convinzione.

Non appena entrambi i figli divennero abbastanza grandi da potersi recare in Chiesa da soli, i genitori smisero di accompagnarceli e pian piano iniziarono loro stessi a disertare le Messe domenicali con il risultato che, in poco tempo, tutta la famiglia sembrò dimenticare che le chiese sono dei luoghi di culto e non solo monumenti per turisti.

Uscito dal bagno, cercò di capire quali delle altre tre camere fossero occupate da eventuali altri inquilini.

Durante le precedenti perlustrazioni aveva visto dei rasoi disposti disordinatamente nell’armadietto del bagno e concluse che doveva esserci almeno un altro uomo che occupava una delle tre stanze.

Inoltre, sulla cassetta della posta che corrispondeva all’appartamento al primo piano, v’era un’etichetta con su scritto “Dr. CONRAD”, che lui mise subito in relazione con i rasoi concludendo, con un’operazione di giustizia sommaria, che il Dr. Conrad doveva essere persona assai superba e scortese, visto che aveva occupato con i suoi rasoi tutto l’armadietto del bagno e per di più aveva scritto il proprio nome su quella cassetta come ne se fosse l’unico legittimo proprietario.

In realtà, non gli perdonava il fatto di essere arrivato prima di lui in quell’appartamento che sentiva adesso meno familiare.

Decise, comunque, che una tale condotta andava immediatamente contrastata e, senza neanche disfare i bagagli, mise a soqquadro uno dei suoi borsoni alla ricerca del necessario per poter confezionare un’etichetta con il proprio nome.

Portava, infatti, in tutti i suoi viaggi sempre del sovrabbondante materiale di cancelleria: scotches mono e biadesivi, temperamatite di varie dimensioni, penne, pennarelli, matite, penne vetro-grafiche, gomme per grafite e per inchiostro, forbici, un taglia carte, puntine, graffette, un righello, un goniometro, del bianchetto e perfino un piccolo compasso, oltre ovviamente ad un blocco di fogli bianchi.

Non che avesse una particolare mania per il materiale di cancelleria, quanto piuttosto succedeva che ad ogni nuova partenza gli sembrava di non poter fare a meno di nulla e che tutto gli sarebbe stato assolutamente indispensabile.

Così i suoi viaggi andavano assumendo nel tempo sempre più la connotazione di veri e propri traslochi, poiché si aggiungeva al vecchio corredo di utensili qualche oggetto che l’anno prima era risultato per qualche verso necessario.

L’unico genere di oggetti che per forza di cose diminuiva costantemente in numero erano i capi di vestiario, alle volte in quantità così limitata da costringerlo a riconsiderare puliti degli indumenti già pronti per la lavanderia.

La realizzazione della targhetta si dimostrò più complessa del previsto: dovette riscrivere il suo nome per ben tre volte prime di ottenere il risultato voluto.

La prima volta l’aveva scritto esageratamente grande, tanto che quello di Conrad appariva quasi una nota a piè di pagina e la seconda non era riuscito a mantenere l’allineamento delle lettere.

La terza, infine, si decise ad agire scientificamente sfruttando al massimo il suo parco strumenti: misurò con la riga l’altezza massima e minima delle lettere della parola Conrad, ne fece la media, tracciò due linee parallele a quella distanza e ci scrisse in mezzo il suo nome stando bene attento a non andare al di là dello spazio segnato.

Si complimentò con sé stesso per il risultato ed affisse trionfante la targhetta autografa a quella che adesso diventava anche la sua cassetta della posta.

A conclusione dell’operazione, che assumeva sempre più le connotazioni della deposizione di una lapide in memoria della difesa dei diritti civili, guardò anche all’interno della cassetta per vedere se vi fosse qualche lettera per lui.

Cosa peraltro impossibile, poiché era in città da meno di due ore.

La sua aria soddisfatta si mutò ben presto nell’ansia del ritardo quando si rese conto che era quasi l’ora del suo appuntamento con l’uomo che, per i prossimi mesi, sarebbe stato il suo capo.

Chiuse la porta in fretta ed uscì senza aver disfatto i bagagli e senza aver richiuso la sua cassetta della posta.

Quando rientrò era ormai molto tardi.

I colleghi che ad ogni viaggio trovava sempre un po’ invecchiati, ma ufficialmente più maturi, lo invitarono, dopo l’orario di lavoro, a bere un bicchiere, che in breve tempo divenne una bottiglia, che si moltiplicò per il numero dei presenti affinché tutti avessero offerto da bere, almeno una volta in onore del suo ritorno.

Né lui poteva essere meno generoso, insomma, alla fine faticò a tornare a casa per traiettorie rettilinee e quando aprì la porta dell’appartamento tutto taceva.

Si infilò direttamente in bagno, senza passare dalla sua camera, e si avventò sul water con la voluttà del bisogno impellente, trovando sollievo solo in quello scroscio tumultuoso e liberatorio che, fino a quel momento, era riuscito con tenacia sovrumana a ritardare.

E mentre con gli occhi socchiusi assaporava la soddisfazione di quella piccola grande liberazione, si rese conto che due occhi sgranati lo fissavano dallo scaffale.

Quegli occhi, sicuramente femminili, stampati su di una di quelle confezioni di articoli sanitari che le donne usano nei giorni in cui sono particolarmente imperscrutabili, denunciavano inequivocabilmente una presenza femminile nell’appartamento.

Appena ebbe finito di prendersi cura delle sue amate appendici, si rese conto che nuovi oggetti erano adesso comparsi nell’armadietto del bagno e tutti dovevano appartenere ad una donna, forse una nuova inquilina arrivata nel pomeriggio dopo di lui.

Notò che i rasoi erano adesso ordinati su di un unico scaffale, segno che la lezione della targhetta era servita.

Gli venne allora in mente che se c’era una nuova inquilina doveva esserci un nuovo nome sulla cassetta postale. Corse fuori, ma il tentativo fu vano.

Ne approfittò comunque per rimirare con soddisfazione la sua opera grafica e poi ritornò nella stanza da bagno per terminare le contenute operazioni igieniche che effettuava malvolentieri prima di andare a letto.

Ma, ritornando sui suoi passi, si accorse che in bagno aleggiava una soave fragranza di ciclamino, effetto dell’utilizzo di una di quelle boccette colorate che adesso facevano bella mostra di sé sugli scaffali.

Pensò di seguire quel profumo nel corridoio alla ricerca di una traccia della nuova inquilina e passò, facendo il minor rumore possibile, vicino alle porte chiuse annusando a piene narici alla ricerca di un qualche indizio olfattivo.

Il risultato fu un pericoloso senso di vertigine dovuto all’eccessiva iperventilazione e all’elevato tasso alcolico del suo sangue.

Decise che quel giorno era stato abbastanza lungo e che sarebbe andato subito a letto, evitando così anche di lavarsi.

I giorni seguenti trascorsero in fretta.

La fase organizzativa del suo lavoro era in fondo la più creativa: consisteva  nel raccogliere i dati sperimentali ed il materiale bibliografico da esaminare accatastandolo in ordine di importanza, nel riprendere confidenza con quel computer ed il suo software  complicato,  cancellare  i vecchi file e predisporre le directory che avrebbero accolto i nuovi.

Bisognava poi pianificare il lavoro futuro, suddividere la propria giornata fra le diverse occupazioni, discutere con tutti i colleghi che lavoravano o avevano già lavorato su quel sistema ed infine raccogliere le prime idee che sarebbero poi state sviluppate fino all’elaborazione del modello.

La ragione di quel suo nuovo soggiorno all’estero era proprio l’elaborazione di un modello che spiegasse i nuovi dati sperimentali.

Sì, in fondo il suo lavoro si riduceva proprio a quello: una linea e dei punti che avessero voglia di stare vicini.

Una linea: il modello frutto di ipotesi astratte, ed i punti: i dati sperimentali, essenziali nella loro concretezza. Punti, linee e nient’altro.

Ultimamente gli capitava spesso di pensare al suo lavoro in termini così riduttivi e poco generosi.

Si chiedeva se in fondo la Natura non avesse il diritto di non essere studiata, analizzata, classificata, una specie di privacy da rispettare. 

Gli piaceva immaginarla difendersi dai suoi persecutori generando fenomeni o effetti strani: inconsuete distribuzioni di dati che, anche se caparbiamente riprodotte, non avevano significato alcuno, ma spingevano schiere di ricercatori a costruire complesse architetture logiche di relazioni causa-effetto tali da elucidare passo passo un fenomeno inesistente.

Ed era proprio uno di questi strani andamenti di punti che a lui toccava adesso ricondurre a linea, ad algoritmo matematico, punti che, se visti da una particolare prospettiva, avrebbero anche potuto svelare i più reconditi segreti della vita.

Si era anche soffermato a considerare l’ipotesi di un cambiamento radicale di professione, lasciare la ricerca pura, a volte quasi astratta, compiuta presso istituzioni pubbliche con l’ausilio di iterate borse di studio o finanziamenti sempre a rischio di non essere conseguiti, per dedicarsi ad una ricerca più finalizzata a problemi pratici, magari presso un ente privato, o anche un lavoro tecnico e più routinario presso un industria, che accompagnasse la certezza dello stipendio alla ripetitività delle prestazioni.

Era da una settimana che portava con sé nella borsa il fax della multinazionale del “Bianco che più bianco non si può…”  senza decidere se rispondere a quell’invito per un colloquio lavorativo.

Ma c’era ancora tempo per decidere, ed aveva abituato se stesso a non prendere decisioni qualora non fosse strettamente necessario.

Inoltre, la sua attuale condizione di precarietà economica un po’ lo seduceva, perché implicava una condizione lavorativa non definita.

Spesso aveva affermato, effettuando i rituali scongiuri, che sarebbe morto svolgendo una professione diversa da quella attuale: sarebbe potuto diventare uno scrittore o magari un musicista.

Era convinto che con un po’ di applicazione, e con abbastanza tempo, sarebbe stato capace di fare in maniera decorosa ciò che un qualsiasi altro uomo era in grado di fare, anche se sapeva di essere assolutamente negato per le arti figurative e per il canto.

Ma considerava queste due discipline come una sfortunata eccezione rispetto alla vasta gamma di possibilità che la vita gli offriva.

La sua precarietà era in fondo la molla per una continua ricerca personale, il cui unico fine era solo quello di saziare una curiosità’ ingorda ed infantile che lo spingeva irrimediabilmente verso il nuovo, con la sola conseguenza di acquisire giorno per giorno una maggiore consapevolezza della propria ignoranza.

Era stato comunque sempre confortato da un’intima, ma non inconscia, fiducia nelle proprie possibilità ed un innato senso della sfida che lo portava ad imbarcarsi in faticose avventure intellettuali in cui, spesso, il risultato conseguito non lo ripagava dello sforzo sostenuto.

Ma quel naturale senso di fiducia andava indebolendosi.

Non che ve ne fosse un motivo oggettivo: un palese insuccesso od un grave errore commesso inavvertitamente, quanto invece prendeva piede in lui uno strano sentimento di inutilità per ciò che stava facendo, accompagnato da un forte desiderio di creazione.

Aveva sempre più voglia di realizzare un qualcosa che fosse tangibile, non gliene importava l’utilità o il campo d’applicazione, quanto il requisito di un’inequivocabile visibilità.

Qualcosa che gli potesse stare davanti e che lui potesse additare a tutti come una sua opera.

Un mattone, su cui costruire nuove opere o da cui partire per nuove imprese, sfruttandolo come un gradino per darsi uno slancio verso l’alto.

Pensò a tutto questo durante il primo fine settimana nella città straniera, trascorso nell’appartamento in completa solitudine.

Gli altri due inquilini, il dott. Conrad e la signora dal profumo di ciclamino, avevano infatti abbandonato le stanze forse per ritornare al paese di residenza.

Probabilmente anche loro erano costretti a lasciare la propria città per lavoro, ma di certo non dovevano fare tanta strada come lui.

Nei giorni precedenti non aveva avuto ancora modo di incontrarli, un po’ per gli orari e le abitudini completamente diversi un po’ perché aveva volutamente evitato tale circostanza. Temeva di imbattersi in Conrad, a cui non aveva ancora perdonato la presunta arroganza. Era invece intrigato da quella figura femminile dal profumo di fiori, che aveva visitato i suoi sogni la notte stessa in cui se ne era palesata la presenza.

Nel controluce del vano della porta, una figura aveva attraversato la sua stanza, fino a giungere al fianco del suo letto ed aveva, con le labbra, sfiorato la bocca di lui addormentato, accennando un bacio.

Questo era l’unico ricordo che conservava del sogno, ma gli era bastato per iniziare a fantasticare su di una possibile relazione con la bella vicina.

Non che avesse un qualche elemento per poterla considerare una bella donna, ma neanche per pensare il contrario, ed allora, dovendo immaginarla, tanto valeva affidarsi ai ricordi femminili più piacevoli, anche se quelli personali erano, in realtà, molto limitati.

Non era stato, infatti, molto fortunato fino ad allora con le donne, anche se riscuoteva sempre un certo successo.

Aveva sempre incontrato la donna giusta al momento sbagliato o la donna sbagliata al momento giusto, con il risultato di aver trascorso gran parte della sua vita da solo piuttosto che con una compagna accanto.

Poi, con il passare degli anni, i suoi gusti in fatto di donne si erano raffinati, così almeno gli piaceva pensare, per spiegare il lungo digiuno sessuale che lo accompagnava da circa un anno, o piuttosto era diventato più intollerante nei riguardi delle piccole diversità quotidiane che differenziano gli esseri umani.

Di certo non faceva della ricerca di una nuova compagna l’obiettivo fondamentale della sua esistenza, ma era in questo periodo particolarmente sensibile al fascino femminile.

Questo era in fondo il motivo per il suo interessamento alla bella vicina.

Durante il fine settimana ebbe modo di perlustrare minuziosamente la cucina.

Scoprì negli scaffali al di sopra del piano cottura alcuni utensili e delle provviste che dovevano appartenere agli altri due inquilini.

Quasi involontariamente si spinse a cercare di assegnarne la proprietà all’uno o all’altro, ma non gli fu facile, visto che la ridistribuzione sugli scaffali sembrava fatta più per genere che per distinguere una diversa appartenenza.

Una tazza da prima colazione particolarmente variopinta era in linea con l’idea di donna che stava lentamente prendendo forma nella sua testa, e comunque poco poteva aver a che fare con il dott. Conrad.

Su quello stesso scaffale notò un pacco di biscotti da latte della sua marca preferita: biscotti scozzesi ad alto contenuto di burro.

Fu contento di aver scoperto quella comune predilezione fra lui e l’altra inquilina e decise di interpretarla come un segno positivo e propiziatorio per una loro rapida conoscenza. Mentre collocava su di uno scaffale vuoto le sue provviste si accorse che nella sua scatola di biscotti ve n’era rimasto soltanto uno a cui decise di interrompere quell’esistenza solitaria in un sol boccone.

La sua colazione dell’indomani era così fatalmente compromessa, vista la giornata festiva. Fu per un attimo sul punto di prendere qualche biscotto dall’altra scatola, non un furto, ma solo un prestito fino alla spesa dell’indomani.

Si fermò solo per la paura di essere scambiato per un vile ladro di dolciumi.

Mentre più tardi stava nel letto per prendere sonno, si sentirono due persone entrare nella casa contemporaneamente, ma era troppo stanco per farci caso e si addormentò. L’indomani, mentre preparava l’abituale caffè che dava ufficialmente inizio alla nuova giornata vide che la scatola di biscotti non era più vuota, ma che qualcuno ve ne aveva riposti circa una mezza dozzina.

Chissà poi perché non aveva buttato via quella scatola vuota, se non per far notare anche alla giovane donna quella piccola golosità che li accomunava.

All’inizio stentò a credere a ciò che aveva visto ed aspettò di aver bevuto tutto il suo caffè prima di pensare una qualsiasi cosa.

Quell’inaspettata gentilezza così spontanea gli pareva incredibile solo a fantasticarla.

Così si comportò da perfetto uomo di scienza mettendo in dubbio la veridicità della nuova scoperta.

Cercò di ricordare se effettivamente la scatola fosse rimasta vuota, ma risalì persino al momento preciso in cui l’ultimo biscotto era stato sacrificato al suo vorace appetito.

Prese in considerazione che fosse stato proprio Conrad l’autore di quell’omaggio dolciario.  Ma gli sembrò una possibilità troppo remota: era di certo uomo troppo austero per concedersi certe frivolezze gastronomiche o per abbandonarsi a tali slanci di generosità. Comunque, un fatto era certo, qualcuno gli aveva usato una gentilezza che andava degnamente ricambiata, fosse anche Conrad.

Uscì di casa con in mente ciò che gli era accaduto e ci mancò poco che non venisse travolto da un tram.

Quando rientrò a casa tardi dal lavoro, portò con sé un sacchettino di cioccolatini che sistemò con cura in prossimità della scatola di biscotti danesi della sua vicina.

I giorni seguenti furono particolarmente duri.

Il suo capo lo aveva chiamato per informarsi sull’andamento del lavoro e non era rimasto per niente contento dei suoi risultati.

Gli aveva chiesto con fare ironico se non fosse più capace di dare una spiegazione plausibile ai fenomeni osservati, e lui di rimando, non cogliendo la voluta provocazione della domanda, aveva risposto che forse certi esperimenti andavano fatti con maggiore rigore, che un effetto non va solo osservato, ma anche comprovato con una serie di verifiche sperimentali, che non si poteva costruire una teoria sul nulla.

C’erano stati attimi di tensione, anche perché le sue parole mettevano in cattiva luce il lavoro di molti colleghi.

Il suo capo gli consigliò di prendersi un venerdì di ferie ed andare fuori città per il fine settimana e tornare il lunedì più motivato.

Andò via dall’ufficio e tornò alla sua scrivania, spense il computer ed uscì sotto una pioggia sottile, quasi inesistente, che però sembrava preannunciare un temporale più forte. Camminò per un po’ senza una meta, imboccando le strade meccanicamente, seguendo più il filo dei suoi ragionamenti che un preciso tragitto attraverso le vie del centro. 

Era ossessionato da quelle linee e quei punti che non volevano stare insieme.

Ripercorreva mentalmente tutti gli assunti del suo modello per scoprire una qualche incongruenza sfuggita inavvertitamente alle analisi precedenti, e sforzandosi di immaginare possibili modificazioni alla teoria che rendessero il problema matematico più facilmente trattabile.

In realtà c’era una via per rendere tutto più agevole, ma al costo di una drastica semplificazione che portava ad una conclusione inaccettabile.

Nulla che fosse drammatico, inoltre non era facile far emergere quell’incongruenza, ma lui ne era consapevole e ciò bastava a fargli scartare quella possibilità.

Per tutto il fine settimana lavorò fino a tardi e non seguì il consiglio del suo capo.

Gli piaceva lavorare di domenica quando tutto era deserto e nessuno si aggirava per i laboratori e gli uffici.

Anche quella domenica restò da solo nella casa e non vi fu nessuna possibilità di interagire con la vicina.

Dopo l’omaggio dei cioccolati non era successo più nulla.

Ma il lunedì mattina, svegliatosi un po’ più tardi del solito, trovò nel mobile della cucina un piattino con una fetta di crostata di mele posto sul suo ripiano.

Era un dolce fatto in casa, di sicuro nel fine settimana, quando c’è più tempo da dedicare a sé stessi e alla famiglia.

Gli ritornò alla mente la figura della nonna paterna, il suo viso teso mentre lavorava la pasta, la piccola vena turgida sulla sua fronte.

Si senti improvvisamente a casa. Una strana sensazione che non provava più da tempo, da quando aveva lasciato l’abitazione dei suoi genitori per andare a vivere da solo.

Quando adesso, di domenica, andava a pranzo dai suoi non era più la stessa cosa, si sentiva un po’ estraneo.

Non che gli mancasse l’affetto dei suoi cari o che in qualche modo gli facessero pesare quella sua decisione, ma piuttosto era lui che si rimproverava quell’abbandono, quasi un tradimento dell’amore ricevuto.

Annusò la crostata, e con un dito assaporò la ricopertura di mele.

Esitò prima di morderla, forse per non distruggere il flusso di ricordi spontaneamente evocati.

Quel lunedì andò al lavoro più motivato.  

Sapeva che il suo capo lo stimava ed era anche cosciente che la pressione esercitata su   di lui era dovuta all’avvicinarsi di quell’importante congresso a cui tutto il gruppo doveva partecipare.

I dati sui cui lavorava dovevano essere presentati in quell’occasione ed una teoria che spiegasse i fenomeni osservati doveva accompagnare la descrizione degli esperimenti effettuati.

Quel giorno era sempre più vicino e lui si era impegnato, in uno slancio di superomismo, a terminare il lavoro per quella data, anche se in cuor suo sapeva che un lavoro ben fatto richiedeva molto più tempo, e forse anche una nuova serie di esperimenti.

Ma quel lunedì tutto gli sembrava possibile.

E quindi riprese a considerare la sua teoria, ad aggiungere qualche nuova ipotesi, ad inserire nuovi parametri, a variare i vecchi, nella speranza di riuscire a domare quelle linee ribelli.

Lavorò fino a tarda sera e quando rientrò a casa passò dalla cucina quasi come se si aspettasse di trovare qualcosa lì per lui.

Non trovò nulla, ma lasciò, in un piccolo vaso da fiori vicino alla scatola di biscotti scozzesi, un mazzo di violette comprato nel pomeriggio.

La sera dopo, al rientro, trovò a sua volta un piccolo coniglio di cioccolata, e per tutto il resto della settimana fu un alternarsi di piccoli regali: una vecchia cartolina della città, delle monete di cioccolata, un pulcino di peluche, una piccola pianta grassa.

Non aveva avuto tempo per soffermarsi a pensare alla stranezza di quel rapporto a distanza, consumato in quello scambio di piccoli doni, spesso infantili, fra due adulti, che non sapevano nulla l’uno dell’altra.

Avrebbe voluto conoscere la sua amica, ma temeva di deluderla e di restare deluso. L’imminenza del congresso gli aveva fornito un ottimo alibi per rimandare l’incontro.

Il lunedì seguente era l’ultimo giorno che il capo gli aveva dato per elaborare la sua teoria. Lavorò tutto il week end, ma con scarsi risultati.

Era ormai domenica sera, e si decise ad operare quella semplificazione che fino allora non aveva voluto applicare.

Come per uno strano scherzo del destino le linee adesso si adagiavano sui punti, quasi cercandoli. I parametri usati avevano tutti valori ragionevoli ed anche le previsioni possibili erano in linea con quanto sperimentalmente osservato.

Eppure, lui sapeva che adesso il suo modello aveva un’incongruenza di fondo, che quella perfetta aderenza della teoria alla realtà si basava su una contraddizione. 

Ma in fondo, non si basa si su di una contraddizione tutta la ricerca scientifica?

Non è forse un’illusione di realtà la descrizione che ci fornisce la scienza, così com’è viziata dall’attributo dell’autoreferenzialità?

Un’indefinita serie di relazioni causa ed effetto che si rimandano all’infinito, come in un gioco di specchi che si fronteggiano, dove cause ed effetti si confondono, cosicché l’oggetto dell’indagine diventa l’effetto e la ricerca la sua causa, e non più il viceversa.

Fu in quel preciso istante che decise che l’indomani avrebbe conosciuto la sua vicina di stanza.

Si svegliò di soprassalto al suono della sveglia come se fosse già in ritardo per quello che doveva fare.

Sentì che dal bagno provenivano rumori e voci.

Indossò il suo accappatoio sul pigiama ed uscì aprendo rumorosamente la porta della sua camera irrompendo nel corridoio.

Non sapeva bene come comportarsi.

Rimase lì fermò, come paralizzato dall’indecisione quando dal bagno gli corse incontro una bimbetta di circa dieci anni che appena lo vide si fermò di fronte a lui, anche lei visibilmente imbarazzata.

Ma si sa che i bambini sono in fondo più coraggiosi degli adulti, e così fu lei a rompere il silenzio e a parlare per prima.

Di ciò che la bimba disse lui capì solo l’iniziale formula di saluto, molto formale in quella lingua straniera, e che la sua giovane interlocutrice gli aveva posto una qualche domanda. Le sorrise impacciato e le spiegò scandendo le parole che lui veniva da un altro paese e non capiva la sua lingua.

Ma subito dopo comparve la madre una donna sui quarant’anni che dopo essersi scusata per il comportamento della figlia tradusse le parole della bambina.

La piccola voleva sapere se l’altro bambino stava ancora dormendo.

Lui, rimase sulle prime un po’ sorpreso, quindi spiegò alla donna che non c’era nessun bambino nella sua stanza e che lui viveva da solo.

La donna sorrise e gli raccontò che sua figlia aveva in quelle settimane portato dei piccoli regali per quello che credeva un altro bambino.

Poi parlò alla figlia che sul momento non capì e continuò a fissare l’uomo che aveva davanti con severità e diffidenza.

Poi si rassegnò alle parole della madre e scappò via a nascondersi in bagno.

Alla donna non resto che scusarsi per il comportamento della figlia, lui fece altrettanto spiegando che forse era stato proprio lui a causare quel piccolo fraintendimento ricambiando i regali della bambina.

«Permetta che mi presenti» disse lui. «Sono Livio Flambea».

«Felice di conoscerla» rispose lei. «Sono la Dottoressa Helen Conrad».

©Dottor Flambea. Dottor Flambea».

La segretaria dovette più volte pronunciare quel nome aumentando l’intensità della voce per ottenere l’attenzione dell’interlocutore, perso nel labirinto dei ricordi.

«Tocca a lei, l’ingegnere Lamberti la sta aspettando per il colloquio».

Il dottor Flambea si strinse il nodo della cravatta, leggermente slacciata, prese un grosso respiro, e alzatosi di slancio dalla poltrona si diresse con passi decisi, ma senza fretta, verso l’ufficio dei suoi esaminatori, fino a scomparire del tutto.

CAMERE è un racconto di Livio Flambea

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