DIPENDE di Fiorella Naldi
genere: FORMAZIONE
Io Miratti non lo conoscevo.
Neppure lui conosceva me.
Nessuna ragione per volergli bene, nemmeno male.
Eppure, il male a volte lo si vuole, nel mio caso non a prescindere.
Poi, e poi ve lo spiegherò tra molte righe, a lui, Miratti, vengo a sapere che pochi gli volevano bene.
Ecco, la sua bionda figlia sì. Ma si sa, le figlie amano il padre a prescindere.
Mio figlio mi ama? Sì, mi ama, ha bisogno di me. Io di lui, a prescindere da cosa è mio figlio. Da come è mio figlio.
Ma, per capirci qualcosa, sarà meglio andare per gradi.
Era una giornata caldissima, il sette luglio. Una calura insopportabile scoppiata all’improvviso nei giorni precedenti, dopo un giugno a dir poco tempestoso.
Fulmini, tuoni, lampi, temporali. Grandine che imbiancava le strade nel giro di un’ora, e sette otto gradi calavano sulla città e nelle ossa. Chi ci sperava nell’estate. Eppure, l’estate scoppia, improvvisa, bruciante.
Quattro ossa, ecco cos’è mio figlio, che a guardarlo, e tutti me lo guardano, fa impressione.
È nato così, è nato morto, nessuno ci scommetteva che sarebbe vissuto. Ci hanno impapocchiato, me e mia moglie. Il nome di un male raro, sconosciuto. Forse gli abbiamo fatto pena al medico che ci ha spiegato tutto, tant’è che alla fine si è impapocchiato anche lui.
Che colpa avevamo? Nessuna!
Ci siamo presi quel figlio, così come si prende qualcosa che ti piomba dal cielo, un pezzo di asteroide, un residuo spaziale. Che dire, niente.
– Quanto può vivere – abbiamo domandato.
– Non è dato sapere – ha risposto.
Non abbiamo capito, io e mia moglie, che cosa fosse quel qualcosa che avevamo messo al mondo.
Fatto così, come si fanno i figli, che tutti lo sanno come nascono i bambini. Con amore, nel nostro caso. Con desiderio.
– Quanto può vivere? – abbiamo chiesto un’ultima volta.
– Dipende – ha risposto il medico mentre ci stringeva la mano.
Dipende è durato parecchio, Dipende dura ancora oggi.
Non domandiamoci come, perché. E chi lo sa.
Quattro ossa, che a vederlo mi si rompe il cuore, se mai me ne fosse rimasto un pezzo.
Ma sulle quattro ossa c’è una testa, e quella funziona, eccome!
Dunque?
Dunque, conduco, conduciamo, una vita come quella delle altre persone del mondo.
Lavoro, casa, alti, bassi. Vacanze, qualche buon momento, come tutti. E qualche brutto momento, come tutti.
Quel mattino, il sette luglio il mio ragazzo mi dice:
– E se andassimo al mare questo pomeriggio? Papà, ti va? –
Sì – gli ho risposto – vada per il mare.
Lavoro a turni, ho qualche pomeriggio libero, mia moglie lavora il mattino.
Insieme, un pomeriggio al mare. Tale e quale a tutte le famiglie con figli che vogliono per la prima volta, magari, dopo il lungo inverno, il piovosissimo giugno, vedere il mare.
Assaggiarlo, già quando ci arrivi, annusarlo lungo la strada, e non ti importa che l’afa, il gran caldo rendano l’aria incandescente, l’acqua colore del latte, l’umidità sospesa che confonde in una specie di nebbia, il sole.
Così io, mia moglie, e mio figlio, contenti, esagero volentieri e dico emozionati, arriviamo al mare.
Vele al largo, pescherecci nel porto, palloni, giocattoli appesi nei primi negozi che incontri arrivando.
È il mare: colori, odori. Altro che non saprei spiegare, perché ognuno di noi ha il suo primo mare dell’anno.
Un altro anno era passato. Per me, mia moglie, ancora, di nuovo, con Dipende.
Abbiamo una comoda automobile, proprio per Dipende. Non sto a raccontare perché e per come, che quelli che ti asfissiano con le loro tristi storie non li sopporto.
Ahi! Guai a chiedere a qualcuno – Come va? – Un vaso di Pandora, e neanche una meraviglia.
A noi, non ce lo chiede nessuno, per fortuna. Siamo degli ottimisti, per intenderci quelli che sono sempre sicuri di trovarlo un buon parcheggio.
Trovarlo, vicino al mare, alla spiaggia è importante. Fondamentale nel nostro caso.
Dipende resiste fuori quel che può, qualche ora, non un minuto va sprecato. Trovare un posto per la macchina è determinante. Non sono chiacchiere.
Ottimisti, l’ho detto. E il posto lo troviamo. Senza perder tempo. Sarebbe rimasto un tempo pulito per noi, sulla spiaggia, sotto l’ombrellone. Un lettino, e Dipende che ci sta disteso sopra, grande, perché ora è grande, e rannicchiato, quei quattro ossetti, come un bimbo piccolo.
Ma gli basta. Perché è tutto relativo, nella vita ognuno ha la sua misura.
Dipende ha la misura del suo sguardo, dei suoi occhi fissi all’orizzonte. Sa essere, per così poco, felice. Io e mia moglie con lui.
Una stradina che corre parallela al lungomare. Quattro palazzine su un lato, quattro sull’altro. Case di pescatori, bruttine, poche macchine. Forse per via dell’ora, tre del pomeriggio, del caldo trentatré gradi, dell’umidità novantadue per cento.
Trovo lo stallo giallo, tiro un sospiro di sollievo. Chi è felice diceva un ottimista, il ciel lo aiuta. È vero, sottoscrivo. Del resto, lo stallo giallo è un diritto di cui volentieri farei a meno ma…
Tre del pomeriggio, afa soffocante, e una certa smania che ti prende non sai neanche tu perché di fare in fretta, far scendere dall’auto il mio ragazzo. Esserci sulla spiaggia, sul mare.
Mia moglie corre a prender posto allo stabilimento. Ombrellone, lettini, informazioni sul percorso da effettuare con chi non sta sulle proprie gambe. È così che facciamo di solito, lei in avanscoperta, sbriga l’infinito aspetto burocratico della nostra vita. E io, in fretta, scarico o carico su un infernale attrezzo Dipende, l’unico con cui riuscire a percorrere percorsi minimi senza prenderlo in braccio.
E in braccio lo prendo infatti, per caricarcelo sopra.
Non che pesi chissà che, affatto, purtroppo. È che non si piega, non può collaborare in alcun modo per scendere dall’auto. Lo maneggio come si maneggia il cristallo, è tutt’ossa, le sue gambe, le sue braccia paiono lo stelo lungo di un bicchiere. Lo guardi, lo reggi, temi di romperlo.
La stradina, l’ho detto vero, alle tre di pomeriggio di un giorno così caldo è deserta.
Uno che parcheggia è un evento, per certa gente che di gente ne vede poca, forse, o con poca tratta. E allora da un terrazzo sento lo sguardo che ci osserva durante tutta la difficoltosa operazione.
È una vecchia in vestaglietta. Certe vecchie indossano la vestaglietta di cotone a motivetti a fiori come una divisa. Sono tutte uguali, un po’ goffe, un po’ assenti, a volte pettegole.
La donna ci osserva, non distoglie lo sguardo. Ci sentiamo osservati, ma ormai Dipende, mia moglie, io, ci abbiamo fatto il callo. È inevitabile. Gli occhi son fatti per guardare. Sentire, quel che si vede, non ha a che fare con la vista.
Insomma, la signora, crocchia di capelli bianchi stretta stretta, su una faccia lunga lunga e inespressiva, braccia conserte appoggiate alla ringhiera, se ne sta lì muta.
Non dice niente, alzo gli occhi, per quel che posso, con in braccio Dipende, saluto. Lei risponde:
– Mmm – a mezzo tra un grugnito e un buongiorno.
Non capisco se le facciamo pena o che.
Non importa. Non m’importa.
Davanti c’è un mare da assaggiare per noi, ancora anche quest’anno, per la prima volta, in questa giornata calda di luglio. La vogliamo la nostra giornata.
Finalmente, non senza arrivarci da sfinito, adagio il mio ragazzo sull’attrezzo infernale e vado alla volta della spiaggia, tranquillo.
Parcheggio perfetto, su uno stallo giallo, con il segnale che odio ma con cui, per vivere meglio, ho imparato a convivere.
Ecco, ripercorro mentalmente le mosse: parcheggio a filo, neanche un centimetro in fuori. Sul parabrezza, il nostro ahimè personale distintivo. Tutto regolare.
– Mare a noi! – stringo la spalla, mi piacerebbe ci fosse, a mio figlio.
– A noi, Papà – mi risponde appoggiandomi la testa sulla mano, che anche quella, da sola, non si regge.
Ma il mare è nostro, e ce le godiamo le nostre tre ore.
Il tempo corre veloce, Dipende se ne sta accartocciato sul lettino, nella posizione fetale, la più naturale per lui, io prendo il sole, mia moglie è distesa sulla riva. Intorno sguazzano bambini felici: secchielli, palette, si guardano i piedi piccoli e rosa nell’acqua, finisce che per guardarli meglio e da vicino ci finiscono dentro.
Li pestano una, cento volte, per divertirsi all’inconfondibile rumore, cif, ciaf, instancabili, le loro manine aperte, poi i pugni chiusi sulla sabbia bagnata, e colano rivoli che diventeranno guglie, ricami, castelli.
Lo stupore, la meraviglia, la gioia nei loro corpi perfetti che sanno, possono già fare tutto. Già.
Queste sono ore d’oro, si alza un po’ di brezza, è ora di andare.
Percorso all’incontrario, spiaggia, strada, auto.
Auto grande, nera. Il sole ci ha stancato, la gioia ci ha stancato. Quando si torna sembra di essere sempre più carichi che all’andata, gli asciugamani, la borsa frigo, Dipende beve poco e spesso…
Fortuna che l’auto grande, nera, è lì girato l’angolo, ad aspettarci.
– Cinque minuti e ci siamo – dico a mio figlio.
– Per noi i cinque minuti non esistono – dice mia moglie.
Ma io dovrò pur reggere la compagnia, chi è felice…
Girato l’angolo, carichi comunque come in una transumanza, non c’è la nostra auto ad aspettarci.
C’è un carro attrezzi che sta levando l’ancora, la nostra auto sopra. Due vigili urbani stanno stilando un verbale.
– Ma come? – Domando loro.
– Non sa leggere? – risposta.
– Perché? –
– Mi segua – fa cenno uno dei due. Insieme risaliamo la stradina di trenta metri. Alza un braccio, c’è un cartello. Non lo avevo visto. Non lo avevo letto.
Posto disabili riservato numeroquattordiciventottorilasciatodal comune di…
– Riservato: sa cosa vuole dire? L’Italiano è per tutti – precisa.
– Sì, è per tutti – gli rispondo.
Pagherò, ma voglio capire perché.
E qui entra in ballo Miratti. È a lui che il posto è riservato.
È un tizio in maglia a righe e calzoncini, cammina avanti e indietro lungo la via. Appena offesa la gamba sinistra, esito di un ictus. Guida regolarmente e raramente l’auto che lascia parcheggiata in uno stallo libero all’inizio della via. Si muove per lo più a piedi, essendo la località piccola e più agevole da girare in questo modo. O in bicicletta, possedendone e usandone una a tre ruote.
L’auto ha il parabrezza protetto all’interno da un lenzuolo azzurro, sbiadito, il tesserino della disabilità ben visibile.
Il parabrezza, tutta l’auto, sono ricoperti di sabbia, dopo le piogge di scirocco, e di aghi di pino marittimo. È una sabbia cementata. Le gomme piuttosto giù, poiché Miratti non usa quasi mai la macchina. Non la sposta quasi mai da lì, e se la sposta non la mette nello stallo riservato solo a lui. Dappertutto ma non lì. È permesso.
Miratti è uno che le palle le ha. Perché accontentarsi di un posto genericamente riservato ai disabili.
Lui le palle le ha rotte e lo hanno accontentato. Lui si fa rispettare, e fa rispettare la Legge a quelli che come me, a quanto pare non sanno nemmeno leggere. O vedere dove stanno i cartelli stradali.
E allora?
E allora capisco che è lui quello che ha chiamato i vigili, e vedo che va alla sua auto, apre il bagagliaio e ci mette dentro qualcosa: una bottiglia d’acqua. E un’altra bottiglia d’acqua la usa per pulire i finestrini, ci inzuppa un foglio di carta di giornale.
– Ehi Miratti, se continui a lasciarla lì ti vengono le gomme quadre – ride un tizio che gli passa vicino in bicicletta. Prima la pancia, dopo la voce, si conoscono e ridono insieme alla battuta.
Era proprio necessario chiamare i vigili, la vecchia, sì la vecchia che sta ancora lì appollaiata, ebete, a braccia conserte sulla ringhiera perché non ci ha avvisato? Non lo sapeva?
Il mondo è piccolo, le cose si vengono a sapere loro malgrado. Io Miratti non lo conoscevo, ho dovuto conoscerlo di più.
La vecchia, la Vedetta, e Miratti sono vicini di casa, stesso piano, stesso pianerottolo, terrazze speculari.
La vecchia sta affacciata tutto il giorno al balcone, praticamente ci vive sul balcone, della strada parcheggi incauti compresi, vive. Ha una nipote che arriva dalla montagna. La giovane non ha tempo da perdere a cercar parcheggio, due figli piccoli, sdraio, ombrellone, palette e secchielli. Sua zia e Miratti hanno stipulato un accordo. Parcheggio auto nel posto riservato di Miratti che ha ciclostilato numerose copie tesserino autorizzazionenumerocomunedi da esporre e cedere a chi vuole a patto che la vecchia, ogni volta che qualcuno senza accordo parcheggia per sbaglio la propria auto lì, lo avvisi immediatamente cosicché lui chiama il comando vigili, favore a favore, e tutto ritorna nell’ordine costituito.
Tutto tranne l’auto di Miratti, gamba sinistra leggermente offesa causa ictus, che resta tutto l’anno parcheggiata nello stesso posto senza mai avanzare al parcheggio speciale che le è stato riservato. Il suo di diritto, è vasto e va oltre il suo stallo riservato. Può sempre dire di averlo trovato occupato, e se fa in tempo, rendere alla comunità l’introito di una multa. A suo modo, è uno che alla comunità ci pensa…
Quindi l’auto di Miratti sta sempre lì, uno o due tre stalli avanti, o indietro, perché non si tradisce un patto, così tanto per fare. Un parcheggio vicino alla spiaggia, in luglio, vale oro. I piaceri si fanno e in cambio se ne ottengono molti altri. In fondo è un modo come un altro per tenersi negli affari.
– Eh! – esclama continuando a pulire il finestrino della sua auto con la carta di giornale che inzuppa goccia a goccia con la bottiglia piena d’acqua – questi cosa si credono, arrivano, prendono il posto a un invalido come me. Che si credono, di essere speciali? Gli invalidi sono tutti uguali.
Toni alti perché tutti sentano, e nella stradina alle sei di sera, una luce chiara come a mezzogiorno, c’è gente. Tanta gente. Non come prima alle tre del pomeriggio. E poi c’è stato l’evento: i vigili, il carro attrezzi, la voce da tenore di Miratti, il suo cappello bianco, la sua maglietta a righe.
Ecco: io quel pomeriggio là, il sette luglio, dopo quelle tre ore felici in riva al mare, perché la felicità ti torna sempre su, che è un errore credere di averla digerita per sempre, beh …
Non so come spiegare ma ho provato una nuova felicità.
Non l’ho fatto per reggere la mia compagnia, serena nonostante tutto. Equilibrata, perché esserlo insieme è la nostra arma vincente. Facciamo squadra.
No, non ridevo o altro, nessuna battuta fuori luogo, io non ho la Legge in testa, ma la voglio rispettare, è giusto. Non meglio. Avevo sbagliato, pagavo in soldi e disagio, si potrebbe pensare incazzatura.
Ma credete, non c’è stata incazzatura.
Tutti gli invalidi sono uguali?
No, non sono tutti uguali.
Di fronte a un Miratti, che per un attimo avrei voluto non fosse esistito, così come non si vuole una mosca, una zanzara, mio figlio l’ho visto perfetto.
Un’ottima testa, due occhi splendidi, e un sorriso, nel volto scavato, sfavillante.
L’invalidità si è scissa, in quella circostanza, dal corpo di mio figlio.
Non la vedevo, non c’era mai stata.
Tutto grazie a un Miratti qualunque, alla sua Vedetta, di cui la strada borbottava omertosa e maligna, complice, in un brusio che tutto diceva e piano copriva il garrire delle ultime rondini in cielo
DIPENDE di Fiorella Naldi
genere: FORMAZIONE