EXTRA di Valentina Leone (prima parte)

Caro Comandante,

non che i fiori non andassero bene, il punto è che erano bianchi. Sbagliare un colore non è una cosa così, che va bene lo stesso. Mia madre me lo ha ripetuto all’infinito, prima di svanire.

“Il colore è tutto, Extra, stacci attento ai colori delle cose.”

Il bianco è il colore del nulla e del silenzio. E infatti Hasna il bianco non lo hai mai sopportato, proprio come me. Di bianco, noi, al limite amiamo le piume quando facciamo la battaglia coi cuscini. O lo zucchero a velo dei biscotti di sua madre. O le stelle, anche loro sono bianche, credo. E ci piacciono pure se sono così lontane.

Ma quella mattina, non c’erano né piume, né zucchero, né stelle. Solo fiori, strozzati dalla plastica e dai fiocchi. Fiori e bigliettini per tutto il nostro cortile. Che poi, neanche c’ero, io. Neanche ci conoscevamo, e il nostro cortile era ancora di Hasna e basta. Ma il racconto di quella marea di fiori tutti bianchi continua a vivere qui, a Porta Palazzo, dove adesso vivo anche io. È una colla, quel ricordo. Che a volte ci appiccica, fastidiosa, la tristezza addosso. Altre invece ci lega tutti.

I fiori li hanno portati quelli de Balon, appena hanno saputo. Hanno lasciato i loro banchi in piazza, ancora mezzi smontati, e si sono messi a fare una specie di fila che strisciava su per via Milano fino a casa di Hasna. Sono entrati nel cortile, li hanno lasciati sotto il suo balcone, ma non so se l’hanno consolata. Aveva solo cinque anni. E gli ambulanti e gli antiquari erano tutti così tristi e silenziosi, proprio loro che del silenzio non si fidano, che riescono a vivere solo nel rumore, perché il rumore copre tutto, anche la paura e il dolore. Ma quella notte, no.

Se io e Hasna abbiamo avuto un inizio, Comandante, è stato quella notte. Anche se la sua vita andava di qua e la mia di là e a lei era già successo tutto e a me invece ancora niente. Anche se non ci conoscevamo ancora. Tutto è iniziato lì, quella notte, nel nostro cortile dietro il mercato. Hasna ha visto sua madre smettere di essere immortale. Rotta dal dolore, l’ha vista afflosciarsi su se stessa come un sacco, svuotata, perduta. Si dice che le sue urla abbiano riempito il cortile. Che siano volate al di là dei muri pieni di muffa, per esplodere fuori, nella piazza. L’unico luogo dove qualcosa poteva accoglierle.

Quella notte, la famiglia di Hasna ha cominciato a sgretolarsi, a franare intorno a un vuoto che nessuno ha più colmato. E sua madre si è inceppata per sempre, ha smesso di funzionarle qualcosa dentro ed è diventata come la mia. Difettosa, vulnerabile. Hasna avrebbe anche potuto anche odiarla, per questo, io lo so che avrebbe potuto. Ma non l’ha fatto. Neanche io l’ho fatto, con la mia. Ci siamo solo inginocchiati a terra, a cercare i pezzi caduti da rimettere insieme. Abbiamo cercato di ricostruire, di tenere insieme. Però siamo diventati due con un prima e un dopo, come due date di nascita. Ed è una cosa, questa, da fiutarsi da lontano, da riconoscersi simili, Comandante.

Mi tira a sé appena metto piede in casa, mi appiccica un bacio sul neo dietro l’orecchio. Io mi divincolo, ché a dodici anni bisogna resistere agli assalti delle madri, sennò dove si va a finire? Dentro però mi illumino tutto, come E.T. quando gli diventa rosso il lungo dito rugoso.

È il mio film preferito, E.T., visto a nastro ogni volta che mi ammalo. Io e la mamma sotto il piumone, nelle mattine di freddo e di luce. Io imbottito di antibiotico e lei con gli spilli per imbastire in bocca. Neanche guardiamo più lo schermo, tanto lo possiamo doppiare E.T., io e la mamma.

Assomigliare a E.T. un po’ mi piace e un po’ no.

Centrare spigoli, rompere cose, inciamparmi di continuo, non capirci niente di niente. Desiderare solo un amico, che viene a recuperarti da un altro pianeta, se necessario. Che sia un minimo telepatico però e che adori andare in bicicletta. A me e a E.T., questo mondo spalanca sempre gli occhi di meraviglia. Peccato che a viverci a volte facciamo fatica.

“Fregatene, Extra”. La mamma mi fa il solletico, ma non riesco a ridere. Per lei è facile, sono il suo ragazzino magico, io. Unico, extra-ordinario. Lei mi vede così, e le mamme tirano dritto per la loro strada. Il problema sono gli altri. Per loro non ho granché di straordinario, ma ho tutto dell’extra-terrestre, dell’extra-galassia, del fuori di testa. Sono fuori come E.T., insomma.

Quanto a me, non ho ancora capito se ha ragione la mamma o se hanno ragione tutti gli altri. E sono solo Extra, in un modo o nell’altro.

A casa nostra c’è sempre la musica.

La mamma non può lavorare senza e così, quando torno da scuola, la trovo in salotto davanti a Camilla, che non è una persona, ma la sua vecchia macchina da cucire.

A vederla così, sembra assediata, la mamma. Broccato dai fili d’oro, velluto liscio, pizzo turchese, taffetà. Se le porta tutte a casa dal teatro, le stoffe, un po’ alla volta. Le stipa nella cassetta della frutta che ha attaccato sulla bicicletta o nelle sue borse enormi. E a casa formano catene montuose sul pavimento e sui mobili.

La musica la spara al massimo e investe tutto, riempie ogni angolo. Oggi la Callas urla con la sua voce pazzesca che l’amour est un oiseau rebelle e secondo me, la mamma pensa un po’ a papà, che è proprio come un uccellino che se ne vola via, ribelle e senza freno, e poi torna, e poi vola via di nuovo.

Sotto la luce di Camilla, i capelli di mamma pulsano di rosso, elettrici come rame. Gli occhi, due pozzanghere verdi, e brillano. Io me ne sto lì a guardarla e lo so che è felice. Sennò, li avrebbe come il muschio del presepe, gli occhi, ma prima che secchi. Invece le guance le esplodono di lentiggini e con la testa tiene il ritmo della Carmen, rapita, mentre cuce orli e plissetta gonne.

“Diubbm cgnnre dmani!” biascica con gli spilli tra le labbra.

Tradotto, “Dobbiamo consegnare domani!”

Quando la mamma parla coi punti esclamativi alla fine, vuol dire che al Regio si apre la stagione lirica. Ai balconi di Piazza Castello appendono i velluti rossi con i titoli delle opere. E la mamma diventa un tutt’uno con Camilla. Cuce giorno e notte, prima a teatro e poi a casa, ascolta la musica e beve litri di caffè.

A me non dispiace questa invasione tessile in casa nostra, perché le stoffe sono sempre state la nostra enciclopedia famigliare. La Lascaro, la mia professoressa di italiano, dice sempre che i genitori ci insegnano a vivere con l’esempio. Ma si sbaglia. Mia madre me lo insegna con le stoffe.

Oggi, io e la mamma ci siamo ritagliati il nostro pomeriggio insieme. In bici, raggiungiamo il museo del Cinema, che è il nostro preferito, perché lì possiamo stravaccarci sulle poltrone sonore e far vagare gli occhi sotto la pancia della mole, dove Cabiria vive ancora in bianco e nero, tutta a scatti.

Con la musica sparata nelle orecchie, mi giro e la guardo. Sorride al soffitto, le gambe accavallate sulla sua chaise longue. Camicia a pois, gonna scozzese, collant a righe. “E anche oggi ti sei vestita al buio, Nini”, le ha detto papà a colazione.

La mamma ha riso e sputato il caffè. Li odia gli abbinamenti giusti, lei. I miscugli invece, le forme che non combaciano, le linee che procedono storte dove non te le aspetti. Lì si annida la vita, nell’imprecisione. Perché devono stonare, le cose, devono stridere, per tirare fuori la luce.

E la mamma di luce ne ha un sacco. Le straborda fuori da ogni cosa che fa, le pulsa da sotto i vestiti. Ecco perché le piace tanto mettere addosso roba colorata. L’oro, ad esempio. L’oro la mamma lo indossa sempre e comunque, soprattutto per fare la spesa, così sotto i neon luccica più dei carrelli. Tutte quante le fantasie optical, specialmente in autunno le piacciono, quando la pioggia moltiplica la realtà in mille riquadri. Per i giorni di sole, preferisce le paiettes, perché fanno riverbero da lontano, come gli aerei quando decollano.

Ma tutto questo, la Lascaro, dentro il suo maglioncino beige, la sua camicetta panna, le sue calze color carne che spuntano sotto la cattedra, mica può capirlo.

A volte, tutto ‘sto luccichio di mamma imbarazza un po’ anche me, è come vivere sempre sotto i riflettori. Tutt’intorno tenebra, e io nel cono di luce che lei emana. Perché, quando la mamma entra in una stanza, si girano tutti. Qualche sopracciglio si arriccia e in genere parte una risatina. Basta venire a scuola per i consigli di classe, per capirlo. La mamma arriva in bicicletta, senza mai interpellare il meteo. I fiori finti sopra il manubrio svettano da lontano, e pure lei. Una chiazza di colore. Poi entra in classe quando sono già tutti seduti, insegnanti e genitori.

Dai primi banchi, composte, le madri degli altri la sbirciano. Strizzate nei loro tailleur giacca e pantalone grigio-chiaro o grigio-scuro o blu. Monocromi, abbinati a ogni cosa nell’universo (purché triste, direbbe la mamma). Io me ne sto dietro, seduto a terra in fondo alla classe, tra Ennio e Ludovica. Guardo le messe in piega delle altre madri convergere l’una verso l’altra, i rossetti Chanel commentarla sottovoce.

“Se vuole…c’è un posto qui davanti”, si insinua la Lascaro.

“Ma sì, ci stringiamo!” Trilla la madre di Ludovica.

Spostamento di sedie, cortesia e un goccio di falsità.

Io da lontano la soppeso, la paragono alle altre madri.

E vorrei sprofondare.

Poi però lei ringrazia con un inchino, attraversa l’aula a grandi falcate dentro i suoi Dr. Martens a fiori, il cappotto di velluto alle caviglie, i pantaloni larghi ma corti da cui spuntano i calzini a pois, la maglia verde mela. Che dà la carica.

Ci raggiunge, si siede a terra. Mi sorride e le nostre ginocchia si sfiorano. Allora a me sembra che qualcuno abbia acceso la luce e delle altre madri me ne frego.

Di nascosto, recupero l’auricolare che le è rimasto impigliato ai capelli nel viaggio in bicicletta. Dentro Papageno gorgheggia, coloratissimo nelle sue piume, proprio come lei. Per tutto il consiglio di classe, la mamma annuisce e scrive sul suo quaderno. Ma le cuffie sono lì, sepolte sotto i capelli. E io scommetto quello che volete che siano accese.

La sveglia suona alle 7, come sempre.                                                                                                                    

È almeno mezz’ora che la fisso al buio, ma appena sento che parte, mi ci tuffo sopra e la blocco. Non deve svegliare la mamma. So che tanto lei non si sveglia, neanche se gliela tiro addosso si sveglia, ma non importa, io la spengo lo stesso. Mi alzo dal letto, guardo la sua sagoma sotto il piumone. È raggomitolata sul fianco, sembra una marmotta in letargo. Ma dubito che alla fine dell’inverno si alzerà.

Però la sento respirare piano e sto bene. Cerco di non pensare alla notte, alla sua di notte, che avrà passato di nuovo tra il letto e il divano, trascinandosi nelle ciabatte in attesa che le pastiglie la facessero tirare dritta fino a pranzo.

Non accendo la luce e raggiungo il bagno. Faccio pipì e non cerco la carta, tanto so che nessuno l’ha comprata. Agito il sapone che allungo tutti i giorni. Fiducioso. Mi lavo faccia e mani con l’acqua fredda. Poi tiro su dal pavimento i vestiti di ieri, o forse dell’altro ieri, o forse di tutta la settimana. Si sono addormentati lì dove li ho lasciati e ora siamo stropicciati uguali.

Mi ci rintano dentro e sguscio in cucina. La luce del lampione filtra tra le persiane come una ladra, proietta ombre oblique sul tavolo e questo mi basta a non avere paura dei mostri. Anzi, quasi mi sembra di mangiare con qualcuno.

Cosa ti passo, Extra?

Fiesta o Kinder Paradiso?

Non mi sento neanche troppo scemo a chiedermelo da solo.

Afferro Batman. Anche lui è lì, dove l’ho lasciato ieri, come i vestiti. Inerme, privo dei suoi superpoteri.

La mamma passa accanto alle cose e queste smettono di esistere. Diventano invisibili, da quando lei non le tocca più.

Una volta aveva tempo per i miei giochi. Dopo cena, li rimetteva nelle ceste, macchinine da una parte, lego dall’altra, super eroi in fila sul mobile. Adesso li scavalca, li ignora, non li vede più.

Così lascio che invadano tutto come uno tsunami lento e fuori controllo.

Afferro pezzi di lego, mi sposto, costruisco una cosa, la lascio dove capita. Nascondo macchinine nei cassetti del bagno, palline tra i cuscini del divano. Cambio anche le pile, così i robot si accendono e i treni partono quando noi li pestiamo di indifferenza. E per qualche secondo, quelle odiose musichette mandano in frantumi il silenzio di questa casa. Ma non lo faccio per me, e non lo faccio per gioco.

Dissemino i miei vestiti, pezzi di me, sperando che lo sguardo della mamma li incontri.

No, non voglio che le rimetta a posto, queste cose, come faceva prima. Voglio che ci inciampi dentro, che le odii magari, che le maledica. Che il suo sguardo si incagli in loro per un istante di lucidità. Tornerebbero a esistere, in quell’istante. E forse tornerei a esistere anche io.

Tasto le chiavi nella tasca e mi tiro dietro la porta. Scendo di corsa le scale, scivolo sul mancorrente di legno che odora tutto di cera d’api. Atterro sul mosaico e seguo le tessere rosa e nere della cornice, camminando sulle punte come un gatto, senza lasciare tracce, fino al rosone centrale.

“Buongiorno, Extra.”

Daria emerge dall’ascensore con lo strofinaccio in mano, mi sorride. Come ogni mattina, sta lustrando a specchio la pulsantiera di ottone. Si avvicina e mi sistema la giacca perché coi bottoni ci litigo sempre. Mi chiude bene lo zaino e poi me lo dice, anche oggi, come tutti i giorni da una settimana.

La raccomandata. Il postino è passato ieri, è tornato stamattina. Tieni, devi farla firmare alla mamma.”

Alla fine, ce l’ha fatta a beccarmi, Daria. Oggi devo prenderla per forza. Me la infilo nella tasca della giacca, quella interna, sperando che sia abbastanza profonda da fagocitarla e farla sparire.

Sono sempre il primo ad arrivare, dopo i bidelli.

Mentre la scuola si accende, aspetto in classe nel banco in mezzo, che non è troppo avanti dove siedono Ludovica, Ennio, Violante e quelli che hanno tutti nove. E neanche troppo indietro, dove stanno gli altri, quelli che collezionano note sul registro. Io sono nel limbo, seconda fila a destra, perché faccio come lui: il bruco.

Il libro degli animali che mi ha regalato la mamma è stato utile, alla fine. E’ grazie al libro che so tutto del bruco, della volpe, della cimice africana. E anche un po’ di me. Ce lo siamo letto per un anno, io e la mamma, tutte le sere prima di dormire fino a impararlo a memoria. Io, almeno, l’ho imparato a memoria. Lei ultimamente si stupiva sempre, invece, le cose pazzesche che c’erano là dentro non le rimanevano appiccicate nella testa, le volavano via, come un post-it quando inizia a seccarsi la colla.

Il bruco del mio libro si guarda bene intorno.

Sceglie i petali del suo stesso colore e ci si acquatta sotto. Mica vuole rischiare, lui. Al sicuro, ne stacca un pezzettino dopo l’altro, fingendo indifferenza, e se li appiccica sulla schiena con calma. Così lentamente si confonde, diventa un po’ petalo anche lui, e non dà nell’occhio. Quando vede le pance degli uccelli passargli sopra la testa, capisce che ha vinto. È sopravvissuto.

Non dare nell’occhio, essere sorvolati, salvare la pelle. Questo per me adesso è fondamentale.

Prima che la lezione inizi, cioè che la Lascaro cominci a parlare da sola, rintanata in cattedra e attenta a non rovinarsi le corde vocali, almeno posso dare una sbirciata al parco qui sotto. Gli alberi fanno il solletico ai vetri, perché avranno duecento anni e sono altissimi. Anche la nostra scuola è antica e bella. Ma alle colonne della facciata, agli stucchi e ai grifoni appesi al cornicione, preferisco sempre gli alberi, perché ci puoi correre intorno come un cane che impazzisce di colpo e, se sei triste, li puoi anche abbracciare. Che è sempre meglio di niente.

Il Fante è pieno di alberi. Tutte le ville sonnecchiano immerse nei loro grandi giardini scuri, dietro le persiane chiuse. Ma non mi mettono tristezza, quelle persiane. Mi ricordano casa nostra. Magari anche là dentro ci vive qualcuno con una madre a intermittenza come la mia, che oggi c’è e domani invece no, e rifugge il sole e il mondo e tutto il resto. E insieme a lei un ragazzino come me, con un talento da bruco, che non accende la luce, fa colazione da solo e tenta in qualche modo di cavarsela.

Quando la Lascaro entra, getta il suo sguardo a pioggia sui banchi vuoti e diffonde ovunque il suo profumo costoso, di quelli che sento anche ai giardini, tra le mamme che chattano mentre le tate sudano dietro ai loro bambini. Poi si siede, mi vede, si ricorda che esisto. Estrae dalla borsa il libretto. Venti pagine di carta lucida appena stampata. Non legge, in realtà, sfoglia la stagione teatrale e fa luccicare grossi anelli, aspettando che io dica quel che devo dire.

“Buongiorno, professoressa.” Gentilissimo. Se io non la urto, lei non fa domande.

“Buongiorno, Extra. Anche oggi ti ha accompagnato papà?”

Ecco.

“Sì, prima di andare al lavoro”, cerco di chiudere subito, ma lei ha già preso la rincorsa.

“Non l’ho più visto a ricevimento…”

“Torna sempre tardi, professoressa.”

Che non è una bugia. Tornare, tornava tardi, mio padre, ma non era quello il problema. Scommetto che, se anche fosse rincasato presto, se anche fosse andato sempre alle riunioni di rito, come i padri di Ludovica e Violante, lo avrebbe fatto comunque. Sarebbe sparito, prima o poi. Inghiottito nel nulla. Andato. Via.

“La mamma come sta? Neanche lei, ultimamente…”

“Torna tardi.”

Glieli sparerei negli occhi quei tre puntini di sospensione, alla Lascaro. Li lancia giù come un’arma chimica, che prima o poi ci stermina tutti. Nessuno sa mai come continuare. A me, personalmente, ipnotizzano.

“Allora siamo d’accordo, Extra? Glielo dirai?”. I vetri mi restituiscono l’immagine della mia bocca mezza aperta. Quante frasi mi sono perso questa volta?

“Dirai a tua madre di venire a colloquio? Le voglio parlare”, scandisce.

“Certo, certo, stasera glielo dico, professoressa.”

“Non è necessario che le telefoni, vero?” Quel vero dura una vita.

“No, no, no, professoressa” mi agito. “Non si disturbi affatto a…”

La campanella esplode e mette fine al mio strazio. La mandria irrompe tra i banchi, e io finalmente posso rintanarmi e confondermi.

Ennio si siede davanti a me e mi strizza l’occhio.

“Allora, state facendo amicizia?”

“Girati, scemo.”

“Speriamo che non interroghi”, cambia discorso lui. Ma non è vero, non ci spera affatto. Suo padre gli fa ripetere le lezioni ogni sera dopo cena, finché non le recita perfette come il libro. Adesso spera solo che la Lascaro scorra il registro avanti e indietro, che fermi il dito in corrispondenza del suo cognome doppio. Che lo chiami. Solo un bel nove calma l’insofferenza di suo padre nei suoi confronti.

Ludovica gli si siede accanto, con un gesto fluido lancia indietro la coda. Lunghissima, bionda. Le punte che girano morbide.

“Ciao, Extra.”

“Ciao, Ludo.”

“Vieni al Fante dopo? Ieri non ti ho visto.”

“Troppe cose da incastrare, ieri.” E penso a mia madre che fa parla con le presine in cucina, a me che tento di inserirmi nella conversazione senza successo. Ma Ludo che ne sa? Che ne sa che la nostra è un’amicizia al trenta per cento? Perché, anche se siamo in classe insieme dalle elementari, Ludovica, Ennio, Gabriele e Violante conoscono solo un trenta per cento della mia vita. Una fetta minuscola, la più passabile.

Quale posto potrebbe mai trovare Ludovica, per le mie parole, nella sua vita perfetta? Se le raccontassi tutto, mi guarderebbe come nella gita di quinta elementare ha guardato i profughi siriani al Sermig. Sorrideva, impacchettava vestiti, glieli passava. Era educata e cortese come le hanno insegnato. Ma si vedeva che per lei in fondo quelle persone non esistevano. La sera è tornata nella sua bella casa di corso Re Umberto, a metà tra la mia e quella di Ennio. Non ha pensato ai profughi, non è riuscita a immaginarseli tutti ammassati negli stanzoni del ricovero, coi bambini sporchi a giocare per terra. Una volta a casa, li ha cancellati. La sua vita è altrove.

Se le raccontassi tutto, farebbe lo stesso con me. Ascolterebbe paziente, si acciglierebbe pure. Ma la mamma che parla da sola, la casa buia, il silenzio che siede a tavola al posto di papà, non ce la farebbe a piazzarli da qualche parte. La tristezza è una cosa ingombrante. Nella sua vita perfetta – fatta di scuola, danza, violino – sono sicuro che non c’è posto.

“La stagione del Regio è alle porte, vero?” dice la Lascaro per concludere la nostra conversazione – se possiamo dire così, quando una prof ti scandaglia la famiglia alle 7.45 di mattina – “devo passare a fare l’abbonamento, uno di questi giorni.” Poi si distrae, sogna il suo palchetto laterale, l’aperitivo nel foyer di velluto, gli abiti che sfoggerà alle prime. Cioè pensa alla sua vita senza una virgola fuori posto e fa quello che fa sempre. Mi dimentica. Mi ignora. E io, finalmente, torno a respirare.

Il segreto, alla fine, è prevenire. Come con la sveglia. Bloccare tutto prima che esploda il caos. So cosa vuole sapere, la Lascaro, ci prova da mesi.

Dove diavolo è finito tuo padre?

Dove diavolo è finita tua madre?

Questa domanda aleggia tra noi, come un drago a due teste. Se mi muovo, mi incenerisce, ma io resto fermo. Immobile, nascosto come il bruco. Parlo a monosillabi, spero di bloccarle le domande in gola. E di bloccare anche lei, la Lascaro, fuori da casa nostra. 

Abbiamo in testa le stesse domande, io e lei, e non so se la cosa mi fa tanto piacere.

Ora inizia a spiegare a se stessa la rivoluzione francese, mi appoggio al termosifone e mi mimetizzo, fingo attenzione. Mentre parla, non faccio altro che pensare alla mamma al suo cellulare che suonerebbe a vuoto se la prof decidesse di chiamarla davvero, a lei persa in un’altra dimensione.

E allora trattengo il fiato. Respiro col freno a mano tirato. Di tutta la spiegazione, non mi arriva neanche una parola.

A vederselo davanti, si stupiva tutte le volte.

Era enorme, e lei una briciola. Ma non era per quello. Le sembrava un meteorite piombato lì da chissà dove. Un enorme meteorite caduto di traverso, con tutto quel vuoto intorno, come se i palazzoni, a sentirselo lì in mezzo a loro, si fossero scansati e girati di lato.

È che si apre come una ferita nel fianco vivo del quartiere, il carcere. E quello spazio tra i cancelli bianchi e le case è prato o battuto o cemento, comunque uno spazio vuoto, su cui sembra non poter crescere niente. È questo spazio a rimarcare la differenza, a delineare – netto, feroce – il dentro e il fuori, noi e loro. Come uno che si gira dall’altra parte, ti dà le spalle e basta.

Hasna arriva all’ingresso a piedi. Si ferma, respira.

Il petto le si gonfia, il respiro le incespica in gola come se tutta l’aria là fuori non le bastasse e la via verso i polmoni fosse lunga il triplo. E non è quell’ora buona di autobus, vuota anche lei come per amplificare il deserto che le alberga dentro, e non è nemmeno la trafila solita da compiere là, i gesti da ripetere precisi, puliti, lenti, per dimostrare di saper stare alle regole. Almeno qualcuna, almeno lei, fra tutti.

Si avvicina alla griglia fredda della guardiola. “Buongiorno”. Ne ricevere in cambio istruzioni metalliche e rapide.

“Documenti. Zaino. Giubbotto. Lascia tutto qui, li riprendi alla fine. Nome del detenuto? Chiamo il collega che ti accompagna.”

Per fortuna il collega è una piccola luce. Un sorriso di occhi, che altro lì non ha senso di esistere, e poi via, dietro quella schiena che sembra una montagna, nella divisa che lo vorrebbe uguale alle altre guardie, lui che uguale non è. Carmelo spicca, là dentro, per l’affetto che ci mette, per lo sguardo zuppo di vicinanza, per le parole che conserva gentili. Con tutti, con quelli dentro, con quelli fuori, senza troppe distinzioni. Ed è un talento, quel sentimento unico che lo guida, Hasna glielo riconosce a ogni passo.

“Eccoci, ci siamo” le indica la porta. “Qui, lo sai, è diverso. Adesso…”

“Lo so”. Distoglie lo sguardo, come a tagliare via quel pensiero. Da quando ha compiuto dodici anni, non ha più diritto alla stanza degli abbracci. Lei e Carmelo la chiamavano così. Non che si andasse lì per quello, per gli abbracci, ma comunque poteva capitare. Allungare una mano, sentire il contatto, cancellare il tempo e tornare indietro a quando lui, a casa, la faceva volare sopra la testa, reggendola con la mano aperta. Forte, invincibile. Buono.

Ora incontrarsi significa essere distanti. È distacco, compostezza, ostacoli buttati in mezzo a separare gli sguardi e le mani. È il tavolo di plastica, inchiodato a terra come le sedie. Ognuno al proprio posto, d’ora in poi, uno di fronte all’altra. Lontani, a distanza di sicurezza, come solo possono stare un colpevole e un’innocente. Come due che in fondo sono estranei.

“Vedrai, non è poi così male come sembra adesso.” Carmelo spalanca la porta e la fa entrare, come a prepararla a quel dolore nuovo. Un altro, ancora.

Glielo legge negli occhi, lui, il magone. Glielo vorrebbe pulire via come, a fine turno, tutti i giorni, pulisce le strisciate di scarpe dalle piastrelle del corridoio, con coriacea, ostinata lentezza. E alla fine le leva via, le fa sparire. Con lei non riuscirà e non se ne dà pace.

Hasna respira, si aggrappa appena allo stipite con la punta delle dita, lo smalto saltato via, poi entra in punta di piedi. La luce la investe subito e le rivela lo squallore dei tavoli enormi, nudi, spigolosi, delle sedie che non si possono avvicinare, su cui ci si contorce quando non si vuole essere visti piangere, quando si vorrebbe sfuggire agli occhi e alle orecchie altrui. Sono troppo vicini quegli occhi e quelle orecchie nello stanzone nuovo e ti stanno addosso. Lo spazio si condivide con chi non conosci, si respira gomito a gomito, si sussurra, si piange, si litiga uno accanto all’altro. Così vicini, che anche il dolore si mescola.

L’infanzia, qui nello stanzone, è finita per sempre. E ricordare non ha più senso, tra queste quattro mura lerce, tutte oscenamente scritte.

“Non ci sono i disegni”, Hasna si guarda attorno, non sa bene se parla a Carmelo o a se stessa e la sua voce è un soffio che si perde subito in tutto quel vuoto. Non ci sono neanche i divanetti con sopra le nuvole stampate, frusti e un po’ sfondati, dove lui le sembrava ancora più enorme. Non ci sono i giochi nelle ceste dell’Ikea, rotti da sempre, ma comunque giochi. Non ci sono i libri con le copertine rigide che lei si mangiucchiava, e quelle storie, sempre le stesse, che lui provava a leggere, inciampando a ogni riga.

Hasna si osserva gettare uno sguardo allo stanzone, come da fuori. Sente il respiro che le monta nel petto, un’onda sempre più corta e violenta. La squassa tutta, le blocca l’aria e i pensieri. Le paralizza i piedi.

“Calma, respira.” Carmelo le si avvicina, le appoggia la mano sulla spalla – lieve – per non disturbare. Ma lei quella carezza la sente scottare, le brucia la pelle sotto la felpa. Perché è l’ultima carezza, il solo gesto che riceverà là dentro, d’ora in poi. Lo sente. Lo stanzone non concederà altro, né a lei né a lui.

“Gli parli, lo ascolti, lo vedi. State comunque insieme, avete sempre un’ora intera” li intuisce Carmelo, quei suoi pensieri ammaccati. “Dai. Dai, che non è poco”.

Non è niente, invece, pensa lei senza dirlo, e sente che l’onda del petto le straborda in faccia, si infila sotto l’arco fitto delle ciglia, si insinua negli occhi fino a vincerne la resistenza. Hasna tira su col naso decisa, si morde il dentro della guancia, stringe forte i pugni finché sente il sudore bruciarle i palmi.

Poi “Non riesco” sbotta, “non entro”. E i suoi occhi chiedono scusa prima a Carmelo, poi a sé stessa. Solo alla fine, ma proprio alla fine, a lui.

“Torno un’altra volta, diglielo tu. Torno, davvero” Si mangia le unghie e le parole. “Glielo dici tu, vero?”

“Glielo dico io.”

E di nuovo la porta, il corridoio eterno, la guardiola che fa da filtro.

Hasna riavvolge i suoi stessi passi come se non li avesse mai compiuti, come se potesse ricominciare tutto, rimediare a qualcosa. Ma non può. Nessuno può. Lì dentro si va solo avanti, il passato non lo si tocca più. E avanti è la visita successiva.

Quando gli viene data la notizia – il colloquio di oggi è saltato – è steso come sempre sul letto in alto. Ascolta la musica e fuma, lo stuzzicadenti che pende dalla bocca. Le parole – poche, secche, inappellabili – gli volano addosso e lo sovrastano. Lo sprofondano nel materasso.

Guarda l’orologio, i minuti che non cambiano mai, inchiodati, proprio come è lui, là dentro.

Spegne la sigaretta sul muro, lancia la cicca nel lavandino. Stringe le palpebre, ma negli occhi resta l’ora immobile, quei puntini che lampeggiano senza andare avanti. Non contano più, è tutto azzerato, tutto da rifare. Il suo tempo si ferma e ricomincia daccapo e lui può solo rimettersi a contare, a rincorrere i minuti immobili che lo separano dalla visita successiva.

Una volta a casa, mi precipito in ascensore. Non tanto perché adoro far sbattere la porta a soffietto, e neanche per l’odore di cera che Daria spalma ovunque come sulla pancia di un figlio.

Ma perché spero che si blocchi, l’ascensore.

Che mi tenga lì, prigioniero, sospeso tra un piano e l’altro con la raccomandata che mi pulsa in tasca senza che io possa aprirla o consegnarla a mia madre.

Disinnescata, muta.

Ma l’ascensore non si blocca e io entro in casa. Le persiane sono ancora chiuse, ma i vetri aperti, anche se è dicembre. Non so se mia madre se n’è accorta che fa freddo, che è inverno, che tra un po’ è Capodanno e tutto ricomincia. Ma senza papà, soltanto io e lei.

La trovo sul divano di fronte alla tv spenta. Penso che è sempre meglio del muro, ma forse mi sbaglio.

“Ciao, mamma.”

“Extra, tesoro.”

“Già in piedi!”, anche se son quasi le due.

“Sì, ti aspettavo. Ho fatto il tuo piatto preferito”. Ha l’aria stanca, gli occhi chiusi.

“Grazie”, e infilo il pollo Santa Rita, che compro tutti i giorni, nel microonde.

“Lo metto il parmigiano sulla pasta?”

Io annuisco con convinzione.

Poi aspetto un attimo, ma solo un attimo, che si muova, che si giri verso di me, che si alzi. Ma aspetto invano perché lei non attiva un muscolo. Il suo corpo è in pausa, modalità risparmio energetico. Lo è da mesi, proprio come la sua testa.

Spengo il gas. La mamma l’ha acceso con le migliori intenzioni, ma la pentola sopra non ce l’ha messa. Non c’è nessuna pasta in bianco ad aspettarmi fumante, almeno non in questa dimensione. Magari nell’altra, quella in cui lei adesso vive nascosta.

Allora apro il sacchetto del pollo e lo sistemo sul tavolino basso del salotto, davanti a lei. Butto lì al volo due posate, i fazzoletti di carta al posto dei tovaglioli. Metto la coscia nel piatto di mamma. Le tolgo la pelle e i pezzetti di rosmarino, gliela taglio a pezzi piccolissimi con la forchetta, tolgo gli ossicini. Le verso l’acqua del rubinetto nella tazza da te, ché i bicchieri li abbiamo rotti tutti.

Lei aspetta che abbia finito, si fa aiutare come una bambina, placida, mi sorride da un posto lontano, di cui non conosco l’indirizzo.

“Non è scotta, vero? Ti piace?” Dice, masticando la carne.

“Buonissima. Grazie, mamma. La miglior pasta di sempre.”

“Una pasta in bianco aggiusta sempre tutto, vero?”

Io appoggio la raccomandata sul tavolo, piano, neanche potesse esplodere. Apro la busta verde, tiro fuori la lettera, me la rigiro a lungo nelle mani unte. Sbircio mia madre, abbandonata sul divano e quel che resta del pollo nel cartoccio aperto.

E allora spero.

Spero con tutte le mie forze che sia come dice lei. Che anche il pollo Santa Rita funzioni bene come la pasta in bianco e che aggiusti tutto, o almeno qualcosa. Ché qui da un pezzo ormai non funziona più niente.

Poi apro la busta. La pagina ha un disegno in alto, proprio nel centro. Una corona di foglie e dentro una stella. Non è un brutto disegno, però non mi fido. Scorro col dito le righe sotto, che hanno delle parole in mezzo. Premesso, Diritto, Intima, Cita.

Corro di là e recupero il vocabolario. Non capisco niente di quello che dice la lettera, ma vedo bene che lo dice a noi, ai miei genitori e a me. Ci sono i nostri nomi al fondo, proprio sotto quella parola.

Intima.

La parola la conosco. L’ho già letta sul sapone liquido del bidet. Però la cerco lo stesso e mi spavento. No, non serve per lavarsi, serve per dare un ordine. Con calma e belle parole, come la Lascaro quando ti piazza un due, ma te lo spiega per filo e per segno, perché lei ha le prove che te lo meriti, il due. Solo che non vuole essere scortese, ché non sta bene.

Poi scorro tutte le righe e la parola più importante la trovo lì, che aspetta me.

È in grassetto come nel libro di storia che mette le cose da ricordare a margine. Qui la parola da ricordare è sfratto. Qualcosa mi dice anche questa, ma controllo lo stesso, nel caso fosse come per il sapone.

Intimazione di rilascio dell’immobile locato.

Bum, la bomba esplode.

Ma la cosa peggiore è sotto: la data di oggi. È un pugno in faccia, perché vuol dire non solo che dobbiamo andarcene, ma che dobbiamo farlo ora. Prima di adesso. Lasciare casa, sparire, toglierci di mezzo. Sbrigatevi solo.

Mi guardo attorno: i mobili, i quadri, le stoffe, i giocattoli, i libri. Questa casa straripa di cose, ma io adesso non le vedo. Ora vedo l’essenziale. Mamma, papà e me. Vedo il prima, insomma, quando eravamo ancora noi tre. Quando la mamma non era a intermittenza e la sua testa funzionava sempre. Quando i suoi occhi erano accesi, i suoi vestiti colorati e lei mi vedeva e mi parlava. Quando papà andava via per lavoro, sì, ma poi tornava, e rispondeva al telefono e la sera accendevamo tutte le luci, mettevamo la musica e ballavamo in pigiama.

È per il prima, che vorrei aggrapparmi con le unghie alla porta. Anche se ora siamo rimasti in due, anche se oggi da noi le persiane restano chiuse e la musica è spenta, ché fa venire il mal di testa a mamma, anche se quello che ci succede sembra succedere solo a me perché me ne accorgo solo io, bisogna che qualcuno se lo ricordi, il prima. Che magari poi sparisce.

Attualmente, quel qualcuno sono io. E per la prima volta, penso a papà e quasi lo invidio. Perché lui chissà dov’è, invece io e la mamma, oggi, siamo qui dentro, siamo due naufraghi su una nave che affonda.

Lei ha gli occhi chiusi e sembra che dorma, ma dita delle mani si alzano e si abbassano, come se stesse suonando il pianoforte, lì dov’è, mentre il suo piano in corridoio, da mesi, se lo mangia la polvere. E darei qualsiasi cosa perché i suoi pensieri avessero il sonoro. Invece sono muti come Cabiria, ma senza sottotitoli. E io questo discorso non so come iniziarlo. Invece, inizia lei.

“Allora, quando?”

Sobbalzo sulla sedia. “Quando cosa, mamma?”

“Quando ce ne dobbiamo andare.”

La guardo. Le sue dita adesso sono ferme, non suonano più, gli occhi di nuovo colmi di luce. Vivi. La mamma sembra riemersa.

“Sai, Extra, il verde parla chiaro”, indica la busta aperta, “soprattutto questo, così scialbo e spento. Come fai a fidarti di un verde così? E’ il colore del fondo del lago. Ci scivoli anche con le ciabatte.”

Anche i tuoi occhi sono verdi, penso. E infatti mi sento scivolare giù, sul fondo.

“Non poteva portare belle notizie una lettera verde, Extra. Ma non fa niente.”

“Come, non fa niente?”

“Non fa niente” sorride. “Perché io ho un piano.”

Dice proprio così, io ho un piano. E il mio cervello va in tilt. Mia madre parla, le sue parole sembrano avere un senso, i suoi occhi mi mettono di nuovo a fuoco. Allora scatto in piedi, allungo rapido una mano verso di lei, tento di afferrarla, di tenerla qui.

E cerco la domanda più centrata tra le mille che si rincorrono nella mia testa.

Stai bene, mamma?

Cos’era successo?

Dov’eri finita?

E adesso che si fa?

Dove ce ne andiamo?

Ma niente, non faccio in tempo.

Lei sospira, socchiude appena gli occhi e quando li riapre hanno perso di nuovo la luce. Il colore è cambiato. Verde muschio, verde spento. Quello della raccomandata. Quello che lei non si sarebbe mai messa addosso, prima. E non risponde più, qualcosa in lei non fa più contatto.

Appena ci infiliamo a letto, inizia a respirare forte. Non l’ho vista prendere le pastiglie, ma il suo sonno è subito profondo e lei ci scivola dentro dolcemente. Io invece fisso il soffitto, mi metto a contare i cassettoni affrescati. L’ombra attraversa le persiane, traballa leggermente ogni volta che nel corso passa lontano un tram. Ci sono abituato io, ai tram, li sento da sempre. Ma stanotte non mi danno tregua. I freni mi incidono i pensieri, le porte mi sbattono sui timpani piene di rabbia.

Dormire è impossibile.

Come farà papà a ritrovarci, se andiamo via da qui?

E dove andiamo?

Qual è il tuo piano, mamma?

Guardo la sua sagoma immobile, accanto a me e so che non è qui. Per un momento è tornata lei, con tutta la sua luce colorata. Ero lì, l’ho vista. Ero a un passo. Ma non ho fatto in tempo ad afferrarla.

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