UN NUOVO PIEDE PER PAOLINO di Anna Di Narda

Stasera l’astro della notte splende in cielo e colora d’argento vivo il pietrame dei tetti delle cascine di Iulium Carnico[1].

È una notte profumata: dalla finestrella arriva l’odore del sambuco in fiore mescolato alla mentuccia e all’acetosella che cresce a ciuffi poco lontano da qui.

La pesante porta dell’ingresso è aperta e dal mio giaciglio vedo che nella corte è stato acceso un grande fuoco. Attorno a lui si muove con attenzione Semperia una vecchia donna che vive in una casupola vicino a boschi di Ovirochi[2] non lontano da qui.

Si muove lentamente con fattezze che ricordano le danze antiche e di tanto in tanto pronuncia parole incomprensibili sputando nell’intenso calore sfavillante.

Si celebra San Giovanni in questa notte che è lunga quanto il giorno, si bruciano le paure, i malanni, si purifica l’uomo e la sua casa.

Tutta la mia famiglia è radunata attorno al grande fuoco, i cavalli però sono nervosi e scalciano sotto la tettoia, le vacche muggiscono spaventando più in là i maiali che rispondono grufolando e stridendo.

C’è un motivo per cui la grande fiamma è stata accesa nella corte: lo ha voluto mia madre per me! Per me che sono costretto a questo pagliericcio sudato e logoro. Io sono sempre stato un ragazzo sveglio, curioso e pronto a vivere qualsiasi avventura.

Ma la vita quassù nel paese di Iulium Carnico tra questi monti coperti da fitti boschi umidi e carichi di vita non è sempre facile per un ragazzo del 1400. Trentun gennaio millequattrocento quarantotto per l’esattezza, data del mio battesimo nel nome di Cristo fatto dall’Arcivescovo della pieve Martino di Sezza.

Anche il nome che porto la dice lunga su di me: Paolino, Emidio, Lucio Iuliano. La mia famiglia proviene da una di antica stirpe romana del Patriarcato Aquileiese alla quale era stata affidata la zona di Iulium Carnico come controllo e supervisione di un territorio attraversato dalla via Iulia Augusta e caduto poi nelle mani della Serenissima.

Da quel momento, da quel maledetto anno, mio padre ha dovuto nascondersi, far vivere la sua famiglia in una modesta costruzione addossata ai piedi del Dauda una montagna sempre coperta di verde e ricca di selvaggina.

Siamo in dieci in famiglia più due stallieri e una donna di servizio. Viviamo di allevamento, ma la caccia resta una buona fonte di cibo e io quando devo usare arco e frecce non sono certo uno che si tira indietro.

Mio padre da eccellente istruttore mi ha insegnato come costruirlo, come portarlo nelle battute a piedi o a cavallo e come puntare la preda. Lui è fiero di me perché non torno mai a casa senza avere lepri, pernici o piccoli cinghiali nella saccoccia che porto a tracolla. D’altronde se in famiglia ci sono quattro figlie femmine seppur bravissime a raccogliere frutti e erbe, a cucinare e a ricamare, non è facile procurare il cibo per tutti.

Mio fratello maggiore è partito alcune settimane fa alla volta del regno d’Ungheria per entrare nell’esercito del re Mattia grazie allo scritto del Patriarca di Aquileia e mia sorella Almena da poco, è andata in sposa ad un signore di Forum Iuli[3] che ci ha promesso la sua protezione.

A casa restiamo pertanto io e Astolfo, il secondogenito. Anche lui è un provetto cacciatore, ma se può preferisce restare nella corte intento a leggere o a recitare salmi.

«Ha la vocazione» dice spesso mia madre decisa ad accompagnarlo alla Pieve di Gorto perché entri nella comunità ecclesiastica.  

È una donna di polso Anderica Eloisa Iuliano, decisa e intelligente.

Si è accorta che sto veramente male e con le poche risorse che abbiamo ha cercato ovunque un rimedio per non perdermi. Le vorrei dire:

«Grazie madre per quanto fate per me, ma temo che il fuoco che mi brucia e la febbre che mi tormenta da giorni siano i segni del mio prossimo passaggio!»

 Le lacrime mi bagnano il viso, dovrò arrendermi anche se mi chiedo ancora come abbia fatto a procurarmi tanto male:

«Disattenzione o punizione per le mie colpe?»

Alcuni giorni fa stavo cacciando pernici non lontano da Sezza a circa tre miglia romane da casa. Era una mattina umida e calda e le pernici che in questo periodo covano le uova e si alzano in volo solo se spaventate. Il levriero maculato era avanti a me e con il suo infallibile fiuto aveva già alzato due uccelli che trafitti dalle mie frecce gonfiavano la saccoccia.

Ad un tratto un latrato, un grufolo e il cane che si trova davanti un grande cinghiale, retrocede e si allontana velocemente.

Io non faccio in tempo a caricare l’arco che il grosso suino nero mi è addosso. Mi sono lanciato a manca e rotolato lungo l’avvallamento pieno di ruscus.

Non ho avvertito dolore nella caduta, ma le spine sono entrate nelle ghette e al rientro a casa il dolore alla massa carnosa posteriore della mia gamba “diritta” era insopportabile. Dal gambale di cuoio è uscito un arto “porporoso” e tumefatto. La domestica e mia madre mi hanno applicato cataplasmi di sambuco caldo, mi hanno fatto bere pozioni di fiori di calendula, hanno provato a lavare le punture con una pasta di foglie di gelso, ma nulla è servito.

La febbre è arrivata puntuale il giorno successivo e con essa intense e maleodoranti sudorazioni. Il mio pagliericcio si è coperto di macchie marroni e dal mio arto ora proviene un cattivo odore.

Mio padre ha chiamato un norcino che abita non lontano da qui e questi, che è un po’ anche cerusico, dopo aver tastato la mia gamba, con una mano davanti al naso ha detto:

«Amputare, c’è troppo odore e il pus è troppo scuro. Claio il falegname che vive accanto al ponte, può costruire con del buon legno un nuovo piede al giovine!»

Mia madre è quasi svenuta e ha domandato all’uomo se esistono altri rimedi:

«Provate a chiedere nel paese di Ovirochi, madonna» ha risposto lui togliendosi il cappuccio dalla testa spelacchiata «c’è una vecchia che conosce i rimedi contro la gangrena. Io so solo tagliare al di sopra del ginocchio e per farlo ci vuole gente, tanta gente a tenere fermo il ragazzo!»

Allora mia madre ha mandato lo stalliere in cerca della fattucchiera e l’ha ospitata qui. Ha poi ordinato di ammazzare il porco più giovane e di farne salsiccia per pagare la vecchia.

Semperia è arrivata all’alba di ieri, mi ha esaminato a lungo, ha pregato e poi ha parlato sottovoce con i miei.

Le donne sono andate tra i boschi per l’intero meriggio e da stamani le mie sorelle a turno arrivano al letto, mi spargono dell’acqua tutt’intorno facendosi il segno della croce e poi tornano alle loro faccende.

Passo da momenti di grande debolezza ad altri in cui mi pare di essere guarito e di trovarmi nei miei amati boschi. Poi vedo il fuoco divampare nel cortile e ritorno in me.

Quando è buio fitto gli stallieri mi sollevano e mi fanno sedere su un asse. Urlo per il dolore pensando al peggio e guardo spaventato Semperia, ma lei, con le mani alzate al cielo ripete almeno una decina di volte:

«San Giovanni, allontana da lui lo spirito malato, scaccia il demonio che dimora nel suo corpo»

«Foco benedetto purificalo dal male, purifica questa casa!» 

Mi sento mancare nuovamente, ma mia madre mi fa bere una pozione di ginepro e pino che mi tiene sveglio. Mie sorelle con tuniche bianche ballano scalze accanto a Semperia che afferra due tizzoni e li avvicina alla mia gamba: il calore è così intenso che penso di prendere fuoco. Provo ad alzarmi, ma braccia possenti mi trattengono; del sale viene cosparso sulle mie carni malate, allora urlo a squarciagola e perdo i sensi.

«Eccomi, sono arrivato alle soglie del cielo,»  mi dico «è tutto azzurro accanto a me, silenzio e profumo, un profumo intensissimo…»

È giorno fatto quando mi sveglio, ma non sono sudato. In casa non c’è nessuno, mi alzo e raggiungo la porta, poi mi ricordo della mia gamba.

«Com’è possibile che cammini?»

Guardo in basso e quasi non credo ai miei occhi. La polpa posteriore è nera, ma non mi fa più male e la mano che la tocca non trova carni putride, ma una crosta dura e levigata.

Nel cortile di casa mia madre sta battendo spighe di grano con la domestica, quando mi vede esclama:

«Oh, Sant’Iddio ti ringrazio!» Si fa il segno della croce, poi si inginocchia verso la chiesa a dritta davanti a noi.

«Madre come è possibile che questo sia accaduto in una notte?»

«No Paolino non hai dormito una notte, ma da Sabbatum scorso. Il Signore ha esaudito le nostre preghiere. San Giovanni ha visitato questa dimora, l’ha purificata e ha scacciato il demonio. Entra in casa figlio, figlie entrate anche voi… insieme renderemo grazie con le preghiere!»

Non lontano da qui la campana batte dodici rintocchi richiamando tutti dai campi vicini. Un volo di rondini annuncia l’estate, sarà un’estate di messi abbondanti, di acqua e di vita… quella che ho ancora!

            Paolino Iuliano


[1] Il centro romano di Iulium Carnicum, odierna Zuglio in Carnia, trovò sede sul terrazzamento naturale dove il rio Bueda incontra il torrente Bût (affluente di sinistra del Tagliamento), nelle adiacenze del colle di S. Pietro che, sul pendio meridionale, ha rivelato tracce cospicue di un abitato preromano (VIII-IV? secolo a.C.).

[2] Ovaro, Davâr in friulano, comune del Friuli-Venezia Giulia. Fa parte del club dei borghi autentici d’Italia.

[3] Cividale del Friuli (Cividât in friulano standard, Čedad[ in sloveno) comune del Friuli-Venezia Giulia: fondato in epoca romana da Giulio Cesare con il nome di Forum Iulii, da cui poi ha preso il nome tutta la regione, divenne il capoluogo del ducato longobardo del Friuli, della Marca friulana e capitale temporale del Patriarcato di Aquileia.

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