FINE DEL PROCESSO di Giuseppe Iacovelli

Foto di Mystic Art Design da Pixabay

Ormai era la fine, lo sapeva.

Erano giunti in quella cava desolata appena fuori città, e adesso lo avevano adagiato supino fra le pietre, a torso nudo, in una posizione innaturale.

K. si era mostrato paziente e arrendevole, ma i due carnefici erano gente rozza oltre ogni dire: compensavano la loro natura con formalismi cerimoniosi attinti allo spirito della burocrazia, d’altro canto proprio questo li rendeva ideali al compito. Sembravano vecchi attori di bass’ordine ma, nonostante la goffaggine, sapevano essere micidiali.

K. era tranquillo. Forse a causa dello svolgimento del processo che, se pur disorientante per l’imputato, gli aveva mostrato il vero volto dei meccanismi mondani, quello che gli altri ignorano; forse perché era giunto alla conclusione, sia pure tragica, ma almeno si era concluso e ciò costituiva per lui la fine di un peso insostenibile, per questo e altri motivi ancora, K. si sentiva tranquillo.

Sapeva di essere a un passo dalla morte, anche se ignorava come gli sarebbe stata somministrata materialmente, sapeva che non avrebbe più visto la luce del sole, e che il mondo, l’indomani, si sarebbe svegliato come tutti gli altri giorni, senza nemmeno accorgersi della sua assenza; ciononostante si sentiva bene, purificato più ancora che leggero.

Era come se l’irreparabilità dell’evento, assieme al venir meno delle circostanze che lo avevano preparato, lo liberasse da ogni responsabilità, da ogni peso derivante dalle interazioni umane.

La collettività si sbarazzava di lui, bene, ciò gli dava il diritto di sentirsi sciolto da ogni vincolo di reciprocità, anche solo morale, con essa.

Era svanita la sensazione della necessità, del dovere che costringe a ripetere determinati schemi, come se il passato non esistesse più.

Forse era stato solo un brutto sogno.

Erano svanite le persone – la padrona di casa, la scostante signorina Bürstner, la moglie dell’usciere, che l’aveva chiaramente provocato, lo zio sempre in ansia con quell’amico avvocato, celebre ma a dir poco inconcludente, l’irresistibile e ambigua Leni, il pittore, grottesco e verboso con le sue spiegazioni, il commerciante Block, che sembrava proprio l’antitesi di K., il freddo sacerdote, una galleria di tipi uno più strano dell’altro – e con esse era svanita la triste, ineludibile meccanica mondana; è questa che rende gli esseri umani un inferno sulla terra, sebbene quelli non siano separabili da essa, non è vero?

Ma ora i nodi inestricabili erano via, per la prima volta.

Tutto via.

Così K. respirava profondamente, si sentiva libero, osservava il cielo rischiarato dalla luna piena, il mite splendore che rendeva superflua l’illuminazione artificiale, e che si rifletteva sulla parete di una casa isolata.

Questa, ancora di tipo cittadino, sorgeva curiosamente affacciata sulla cava, a prima vista non si sarebbe capito bene a che scopo. In quel momento, a interrompere la sospensione del tempo in cui K. era scivolato, i carnefici estrassero un lungo coltello da macellaio, affilato su entrambi i lati: questo rispondeva alla domanda sul modo dell’esecuzione.

Eppure, non ebbe il potere di agitare il condannato, che ora sembrava piuttosto nauseato dalle smancerie cui quei due indulgevano di nuovo: ciascuno passava all’altro il freddo acciaio sulla testa di K., sperando di non esser lui a doverlo usare – ancora uno strascico della prassi in quegli ultimi momenti di serenità!

Per non dover sopportare quello spettacolo K. voltò il capo da un lato, verso la casa isolata, e vide qualcosa di totalmente inaspettato.

All’ultimo piano si era appena spalancata una finestra e, attraverso la luce sfolgorante, si stagliava una figura umana debole e sottile.

Era impossibile distinguerla o dire che volesse, ma da come alzò le braccia fu chiaro che non si sentiva indifferente a ciò che accadeva.

Un attimo dopo fece udire la sua voce, una voce altrettanto indefinita che l’aspetto: «Fermatevi, in nome dell’umanità, non procedete oltre!» ripeté più volte con un tono difficile da descrivere, un misto di esortazione, premura, terrore, affanno, disperazione, una voce in cui risuonavano innumerevoli voci, forse tutte le voci del mondo, qualcosa che nessuno aveva mai sentito; ma ebbe la forza di fermare i carnefici.

Quando fu in strada i tre non riuscirono a comprendere meglio: venne avanti una persona di altezza media, dai movimenti rari e posati, una figura ben proporzionata che però dissimulava quei tratti peculiari dovuti all’età, al sesso o all’origine, e non sembrava nemmeno vestita nel senso comune del termine.

Avrebbero detto che una veste omogenea e attillata le avvolgeva le membra, lasciando la massima libertà di movimento, ma la foggia e il colore sfuggivano a ogni descrizione. Il viso poi riassumeva e anzi esaltava il mistero di quell’essere, negando allo sguardo ogni elemento somatico, gli occhi, il naso, la bocca, le orecchie – il viso di costui, come quello di un manichino, era privo di tutto!

K. non riusciva a credere ai suoi occhi, ma non meno esterrefatti erano i carnefici; la strana apparizione alzò un braccio con dolcezza, come per chiedere attenzione, e iniziò a parlare.

«Non procedete oltre, vi prego. Ciò che si sta compiendo travalica i principi di rispetto e amore per gli esseri umani che chiunque dovrebbe praticare. Mi rivolgo a voi, che sembrate i giustizieri di costui, per esortarvi a desistere da un atto che contraddice il senso stesso della convivenza civile. Uccidere un essere umano è l’opera più abominevole che si possa concepire, ancorché sia così diffusa e finanche ritenuta normale. Io non so chi sia quest’uomo, né cos’abbia fatto per subire il supplizio, però vi avviso che mi opporrò in ogni modo alla sua esecuzione. Vi supplico, signori, siete anche voi esseri umani, non vogliate degenerare così».

I due si guardarono costernati, si volsero anche verso K. con aria interrogativa, come se la sua presenza fosse una giustificazione o forse nella speranza che lui dicesse qualcosa a loro discolpa; ma K., più che rincuorarsi per quella imprevista difesa, taceva allibito.

Solo ora si stavano rendendo conto, con un misto di confusione e paura, che la voce dell’apparizione non proveniva realmente da lei, che infatti non aveva bocca, ma risuonava direttamente nelle loro teste, come se venisse da dentro. Uno dei carnefici iniziò a schiarirsi la gola, e dopo alcuni scossoni del corpo, riuscì a imbastire qualche frase.

«Guardi, il mio collega e io siamo solo esecutori, non abbiamo responsabilità nella sentenza di morte emessa contro quest’uomo, e non sappiamo nemmeno chi sia o cosa abbia fatto per meritarla. Noi siamo addetti di infimo grado, manovalanza, per intenderci, sbrighiamo servizi di questo genere. Non abbiamo alcuna autorità né contatti con funzionari di livello superiore, non possiamo fare nulla per impedire l’esecuzione, ci creda».

La strana figura mosse lentamente il capo come se guardasse alternatamente ora K. ora i due, sembrava che non respirasse, eppure irradiava una sorta di energia invisibile che investiva gli altri: essi percepivano chiaramente l’impatto quasi fisico dei suoi sentimenti, pur non potendo spiegarselo.

Nessuno quindi si meravigliò di quel che seguì.

«No, vi prego, ascoltate le mie parole. So anch’io che la società si articola in compiti e doveri, che questi vengono chiaramente formalizzati anche al fine di giovare al maggior numero di persone; so inoltre che l’individuo è inquadrato in un ordine che lo trascende e che, in linea di massima, è giusto accettare. Ma voi d’altro canto sapete o almeno siete in grado di intuire che ciò non è e non può essere tutto. Forma e contenuto dei rapporti sociali non sono certo esenti dal giudizio del singolo, consapevole di vivere in una collettività che non è teocratica e nemmeno totalitaria. Il rispetto delle leggi, per non essere una tirannia mascherata, si legittima anche attraverso l’equilibrio fra esigenze del singolo e istituzioni che rappresentano la comunità. Guai se queste giungono a opprimere l’individuo con mezzi vessatori o discriminanti, pur nel rispetto delle forme, e guai se l’individuo tenta di sfruttare a vantaggio proprio la lettera di formulazioni finalizzate al comune. La legge non è un testo sacro, riflette sentimenti e assiomi che mutano con il passar del tempo e l’effetto dell’esperienza; essa, dunque, deve tener conto delle persone, come queste ultime devono a loro volta vegliare affinché la legge non diventi strumento di iniquità.  Esistono principi di rispetto e solidarietà che nessun potere costituito può ignorare o revocare, e quelli che lo fanno si consegnano da sé al ripudio universale. Esistono principi che una continuità antichissima ha iscritto nella coscienza umana, e che la rendono tale; valgono per tutti coloro che danno a se stessi il sacro nome “uomo”, e prescindono dai tratti esteriori che invece ammaliano i più, come il colore della pelle, la fisionomia, la provenienza, la lingua, la religione, i costumi – riuscite a vedere qualcosa del genere in me? Una società che organizza se stessa secondo criteri che ignorano o aggirano il senso di quei principi non può aspirare ad avere ragione, si espone alle giuste critiche dei singoli, di coloro che sono consapevoli e perseguono l’ideale di un mondo equilibrato ed equo. Ognuno di noi è chiamato a vegliare sulla giustezza dei meccanismi sociali, nessuno può esimersi da tale compito: chi diserta, lo dico a malincuore, meriterebbe di fare la fine dei disertori. La vita non è un luna park o un opificio, come si dà troppo spesso a credere, è l’accettazione virile del proprio essere, il movimento della coscienza attraverso il caos del fenomenico, il tentativo almeno di portare qualche luce là dove sembrano dominare incontrastati oscurità e dolore. Anche voi, umili esecutori di un meccanismo cieco, siete investiti della responsabilità che definisce l’agire umano. La vostra individualità è un dato irriducibile, non si confonde con gli interessi di chi vi affida la liquidazione delle scorie prodotte dalla gestione arbitraria del potere. Quei burocrati si servono di voi per legittimarsi, lo dimostra l’incoscienza in cui vi lasciano: essa è la loro arma più forte. Vi hanno addestrato a credere che voi non potete far nulla per impedire i loro crimini affinché voi non facciate nulla, in realtà ciascuno di noi può e deve opporsi all’ingiustizia – e non a questa o quella ingiustizia, a un’infrazione che lede le pretese di una parte, come usa oggi, ma all’ingiustizia in sé; molti sono i modi con cui si manipola la coscienza collettiva per impedirle di giungere a una vera consapevolezza del mondo, e tutti favoriscono non certo gli sciocchi che si lasciano sedurre ma i manipolatori. Sanno che nel momento in cui vi volgeste alla riflessione la loro impunità cesserebbe, perché apparirebbero ai vostri occhi come i criminali che sono sempre stati. Siate dunque consapevoli, e siate innanzitutto consapevoli del fatto che nessuno, e per nessun motivo, può ordinarvi di sopprimere un vostro simile. La convivenza umana presuppone il rispetto, la difesa e la solidarietà, una completa inversione di rotta rispetto alla prassi seguita fin dalla notte dei tempi: non è il sapere che ci manca, ma la volontà, la forza, le energie che sprechiamo nell’inane, a tutto vantaggio del potere. Proprio la notte della coscienza, sciaguratamente ancora alta, occorre contrastare col soave chiarore della ragione: solo grazie ad essa l’uomo si libererà della violenza avviandosi a convivere in equilibrio con se stesso e con l’ambiente. Vi ordino di abbandonare ogni proposito omicida e di riconciliarvi con la vostra vittima: essa è un uomo come voi, né più né meno. Pensate che uccidendo lui colpireste voi stessi, abbrutendovi irreparabilmente. Andate ora, e siate l’inizio di un cammino diverso, un cammino finalmente umano».

La voce dell’apparizione pareva cambiare continuamente di tono e densità pur restando sempre simile a sé, modulava senza trasformarsi, mentre rari gesti evidenziavano, sempre pacatamente, il moto del pensiero.

I tre uomini sembravano pietrificati, come l’aria tutt’intorno; finanche la luna appariva ferma, col fiato sospeso per quanto sarebbe successo.

D’un tratto i carnefici gettarono via il coltello e, senza far motto, aiutarono K. a rialzarsi e a rivestirsi.

Lo fissarono per qualche attimo, sempre in silenzio – nel loro scarno repertorio mancavano parole per simili circostanze – poi andarono via.

Camminando parevano alleggeriti, avevano perso qualcosa della rigida pesantezza di prima.

K. non si era mosso, era forse il più sconvolto.

Ciò che aveva avuto luogo, l’arretramento del male oggettivo molto più della propria salvezza, gli sembrava a dir poco irreale; mai la vita gli aveva offerto un’esperienza simile, e dubitava che, a raccontarla, gli avrebbero creduto.

Forse non era che un sogno, e a momenti si sarebbe svegliato nel suo letto come ogni mattina, verso le otto, in attesa di Anna con la colazione.

Esitando, senza muoversi, domandò alla strana figura chi fosse; quella, dopo un piccolo moto di sorpresa, rispose con la consueta mitezza:

«Proprio tu, vittima innocente del mondo, non mi riconosci? Apri gli occhi dell’anima e guardami, Josef: io sono l’umanità».

FINE DEL PROCESSO è un racconto di Giuseppe Iacovelli presentato al progetto letterario “I sassi neri”.

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