GLI OCCHI DI HANS di Marco Prati
genere: ROMANCE
I
Teresa era una ragazzina solare.
Di corporatura minuta ma ben proporzionata, il viso incorniciato da una folta chioma di riccioli color rame, in perfetta armonia con un paio d’occhi verdi e pungenti, in cui sembravano riflettersi le nuvolette di lentiggini che madre natura le aveva disegnato sugli zigomi.
Soprattutto, Teresa era allegra e vispa come l’omonima protagonista della ben nota poesiola di Luigi Sailer, per la gioia della madre, insegnante, e del padre, titolare di una florida attività commerciale.
La sua vita, nella Roma del 1940, scorreva tranquilla tra impegni scolastici, lezioni di danza, corsi di nuoto e cicalecci con le amiche, quindicenni come lei e alle prese coi problemi tipici di tutte le quindicenni del mondo.
Le prime cotte, l’attesa impaziente del momento in cui le calze di nylon avrebbero preso il posto di quegli orrendi calzettoni che i genitori le obbligavano ancora ad indossare, il turbamento per quel sorrisetto intrigante colto sulla bocca del più carino del liceo.
È comprensibile, quindi, che per Teresa and company la guerra, che da più di un anno insanguinava l’Europa per via delle smanie di grandezza di quel folle ometto con quei buffi baffetti sotto il naso e quella ridicola pettinatura sulla testa, fosse qualcosa che non le riguardava, una leggenda metropolitana, qualcosa di cui ci si ricordava quando la radio dava notizia di questo o quel bombardamento o dell’avanzata delle truppe alleate su questo o quel fronte.
Certo, le leggi antirazziali, emanate a raffica dal governo fascista dall’agosto del ’38 al luglio del ’39, avevano reso la vita un tantino più difficile alla comunità ebraica di Roma, a cui Teresa e la sua famiglia erano fieri di appartenere: così la fanciulla, già dal novembre del ’38, aveva dovuto lasciare il liceo “Giulio Cesare” che frequentava con soddisfazione sua e dei suoi insegnanti e poco dopo la madre aveva dovuto cedere la cattedra di cui era titolare da quasi vent’anni ad un’altra insegnante di comprovate origini ariane.
Ma grazie all’interessamento del successore di San Pietro, a quel tempo rappresentato da papa Pio XI, entrambe trovarono un’adeguata ricollocazione, l’una come discente, l’altra come docente, tra le mura protettive delle scuole presenti all’interno dello stato Vaticano, al riparo dalle discriminazioni introdotte dalle nuove leggi.
Anche il padre di Teresa, pur avendo il suo bel da fare per cancellare le odiose scritte antisemite che comparivano periodicamente sui muri esterni e sulle serrande dell’edificio sede della sua ditta, riusciva, grazie ad una clientela affezionata e nonostante la crisi, conseguenza inevitabile di ogni economia di guerra, a garantire a sè e alla sua famiglia un’esistenza quasi dignitosa.
Fino a quel maledettissimo sabato 16 ottobre 1943, che le cronache ricorderanno come il “sabato nero”, giorno in cui il rione Sant’Angelo, tra il Portico di Ottavia e il Tevere, destinato dal Comune di Roma a ghetto ebraico, fu invaso già alle prime luci dell’alba da un piccolo esercito di quasi quattrocento gestapo che in breve, tra gli ordini secchi sparati come schioppettate dagli ufficiali e l’abbaiare rabbioso dei cani, strapparono dalle loro case gli abitanti della zona e li radunarono, come un branco di animali, lungo le strade del quartiere, tenendoli sotto tiro con gli MP40 e le P08.
Quando ne ebbero contati milleduecento cinquantanove i nazisti decisero che l’operazione poteva considerarsi conclusa e alla fine di una selezione sommaria mille e ventitrè sciagurati, tra cui Teresa e il resto della famiglia, furono destinati al campo di prigionia di Auschwitz, paesino sperduto nel cuore della Polonia, e condotti a piedi, sotto gli sguardi un po’ perplessi ma per lo più indifferenti dei romani non impegnati altrove nella difesa della patria, al collegio militare di Palazzo Salviati, dove rimasero più di trenta ore, distrutti dalla stanchezza e divorati dalla fame e dalla sete.
Ma il calvario era appena all’inizio.
La stazione successiva di questa diabolica via crucis, per uno strano gioco del destino, coincise con una stazione vera e propria, quella di Roma Tiburtina, dove i mille e passa derelitti furono stipati in diciotto carri ferroviari normalmente adibiti a trasporto bestiame e qui rimasero piombati per quattro giorni, mentre il treno sbuffava e sferragliava alla volta di Auschwitz, fermandosi di tanto in tanto solo per fare il pieno di carbone e per il cambio della guardia.
“Coraggio” continuava a ripetere tra sé e sé Teresa “tranquilla, è solo un brutto sogno. Tra poco arriverà la mamma a svegliarti con un bacio in fronte e l’odore del pane tostato e del caffè appena fatto riempirà ogni angolo della tua cameretta”.
Ma la mamma non veniva, nessun bacio le sfiorava la fronte e le uniche sensazioni olfattive che stimolavano il suo cervello erano gli odori nauseabondi di cui era impregnato quel vagone.
Dopo un viaggio di questo genere, l’arrivo a destinazione, pur trattandosi di un luogo di sofferenza e morte come Auschwitz, dovette essere accolto quasi con sollievo dai mille e più passeggeri.
Finalmente una boccata d’aria pulita, un po’ d’acqua fresca da bere e forse anche qualcosa da mangiare.
Di tutto questo ben di Dio, però, potettero godere solo i centocinquanta quattro dichiarati in buona salute e, quindi, idonei al lavoro da quei signori in camice bianco e occhialetti cerchiati d’oro addetti alle selezioni dei nuovi arrivati.
Tutti gli altri, e si parla comunque di poco meno di novecento persone, furono condotti subito alle docce, dai cui impianti, anziché getti di tonificante acqua calda, uscirono zaffate di micidiale Ziklon B che li uccise in pochi minuti.
II
Il fatto di essere stata separata dai genitori già al momento della partenza da Roma e di non averli ancora rivisti, se da una parte impensieriva non poco Teresa, dall’altra le dava una strana, piacevole sensazione di indipendenza.
Almeno per un po’, stop ai vari “Teresa non fare questo”, “Teresa non fare quello”, “Teresa devi fare i compiti”, “Teresa mangia la minestra” e via di questo passo.
E poi, la vita da deportata non era poi così male, a parte il dover portare una ridicola divisa a righe che rosicchiava la pelle o il dover dormire in enormi cameroni freddi e maleodoranti assieme ad altre decine di sventurati coi pidocchi in testa, su pagliericci infestati dalle cimici.
E poi, a pranzo e cena sempre e solo un’orribile brodaglia in cui a volte vagavano pezzi di carne nera come il carbone e dura come il marmo.
E le latrine non erano altro che baracche luride e maleodoranti, in cui il buio non mitigava la vergogna di dover fare i propri bisogni davanti agli occhi di tutti.
E occorreva farli in fretta, prima che suonasse il segnale dell’appello, un assurdo rituale durante il quale per quasi due ore, col buono e il cattivo tempo, si restava in piedi in una approssimativa posizione di attenti, ad ascoltare l’ufficiale di giornata che, con voce decisa ed esasperante lentezza, scandiva uno ad uno i nomi di tutti quei poveri fantocci allineati sul piazzale del campo.
Ma Teresa era serena.
A giorni la guerra sarebbe finita, i buoni avrebbero trionfato e tutti sarebbero tornati a casa felici e contenti con tanto di scuse da parte dei loro aguzzini; i quali nel frattempo, in ossequio alla scritta che campeggiava sul cancello d’ingresso al campo, organizzavano per i detenuti ogni sorta di attività lavorativa.
C’era chi si occupava delle vettovaglie, chi seppelliva i morti in grandi fosse comuni o li bruciava nei forni crematori, c’erano muratori, fabbri, falegnami, barbieri, medici, sarti, calzolai; c’erano i kapò, prigionieri addetti al servizio d’ordine, scelti per lo più tra i delinquenti comuni, che per un cibo un po’ migliore e per un giaciglio un po’ più comodo non esitavano a tormentare i loro stessi compagni di prigionia con vessazioni e brutalità di ogni genere.
C’era anche un’orchestra che, oltre ad allietare le feste organizzate dagli ufficiali, accoglieva tutte le sere al suono di marcette e ballabili le squadre di detenuti di ritorno dal lavoro esterno al campo, distrutti dalla fatica e abbruttiti dalla fame e dal freddo.
Anche Teresa ebbe il suo bell’incarico, quello di magazziniera.
Luogo di svolgimento: un’enorme baracca che tutti chiamavano “Canada”, una specie di paese di bengodi in cui venivano ammassati gli effetti personali sequestrati ai deportati, come segno di benvenuto, al loro arrivo al campo.
Per dodici ore al giorno, Teresa e gli altri maneggiavano valigie di pelle, di cartone, di legno, di stoffa, smuovevano sacchi, sacchetti e zaini, accatastavano scatole, pacchi e pacchetti da cui, una volta aperti, estraevano i piccoli tesori che contenevano separando gli oggetti di pregio da quelli di poco valore, destinati alla distruzione.
Tra le mani minute e svelte di Teresa passavano occhiali, penne, portacipria, rossetti e belletti vari, chiavi, scarpe di tutte le fogge e di tutte le misure, vestiti da donna, da uomo e da bambino, borsellini pieni di monete, portafogli zeppi di banconote, orsacchiotti di peluche, automobiline e camioncini di latta, areoplanini di legno, cappelli, cuffie e berretti.
Con tutto questo ben d’Iddio a disposizione bastava un attimo perché venisse organizzata, complice l’assenza momentanea del kapò di turno, una specie di sfilata di moda in cui le detenute, a turno, tra le urla e i fischi dei detenuti maschi, percorrevano ancheggiando un’immaginaria passerella con indosso toilettes dagli accostamenti improbabili.
Erano briciole di buonumore in una situazione per niente facile.
La guerra non finiva, i buoni non arrivavano, la fame e il freddo portavano sfinimento e morte e di mamma e papà nessuna notizia.
A volte Teresa pensava seriamente che la cosa migliore fosse farla finita, magari buttandosi sul tre e ottanta della recinzione, oppure correndo all’impazzata verso il cancello del campo per essere falciata dai colpi di mitraglia della sentinella, oppure, ancora, non toccando più né cibo né acqua per lasciarsi morire lentamente di fame e di sete.
Anche quella grigia mattina di febbraio i soliti pensieri di morte occupavano la mente della ragazza che, lo sguardo perso nel vuoto, ripeteva meccanicamente gesti fatti e rifatti sempre uguali da chissà quanto tempo.
Probabilmente sarebbe rimasta per un bel po’ in questo stato di prostrazione se a riportarla tra i vivi non avesse provveduto una folata di aria gelida intrufolatasi dalla porta del Canada spalancata dal kapò che, col solito atteggiamento strafottente, ma con voce curiosamente malsicura per il troppo freddo, annunciò:
“Questo è Hans ed è arrivato ieri con l’ultimo carico di deportati; lavorerà qui, per cui qualcuno di voi se lo prenderà in custodia e gli spiegherà per filo e per segno tutto quello che dovrà fare. Ovviamente chiunque si assumerà questa rogna verrà ritenuto personalmente responsabile dei guai che combinerà la recluta.”
Detto questo, girò i tacchi provocando un’altra piccola tormenta all’interno del Canada all’atto di aprirne la porta per uscire.
Teresa era moderatamente incuriosita dal nuovo arrivato che fino a quel momento si era tenuto un po’ in disparte, praticamente immobile e completamente muto; ma quando il ragazzo, muovendo qualche timido passo, venne a trovarsi in una zona meglio illuminata dello stanzone nel corpo della fanciulla si scatenò una vera e propria tempesta ormonale: Hans, o come accidente si chiamava, era un ragazzone alto e bello, con in testa una cascata di riccioli biondi, che la rasatura da deportato lasciava solamente immaginare, con un fisico, non ancora martoriato dagli stenti della prigionia, robusto e ben strutturato.
Ma, soprattutto, sul viso di quella specie di cherubino brillavano due occhi il cui colore ricordava l’azzurro del mare d’agosto impreziosito da una trama di riflessi dorati.
Per Teresa quel ragazzo nel fiore degli anni e nel pieno del vigore poteva essere l’arcangelo Gabriele, o il principe azzurro delle favole, o uno dei cavalieri della tavola rotonda venuto a combattere eroicamente per prenderla con sé e portarla via, lontano da quell’inferno.
E, mentre si chiedeva se quella strana agitazione che si sentiva addosso fosse amore a prima vista, incapace di distogliere lo sguardo dagli occhi fatati del suo paladino, udì la sua stessa voce che, quasi gridando affinché fosse sentita fin negli angoli più remoti del capannone, annunciava:
“Della recluta me ne occuperò io e l’addestramento inizierà da subito”.
III
I primi mesi del ’44 furono lunghi e duri, ma il calore dell’amicizia permise ai due ragazzi di vincerne il freddo assassino.
Teresa metteva a disposizione di Hans tutto il repertorio di trucchi ed espedienti indispensabili per la sopravvivenza nel campo acquisito in tanti mesi di detenzione.
In cambio, Hans non esitava a mostrare i muscoli se qualcuno si prendeva troppa confidenza con la ragazza.
Ma il loro rapporto non si limitava ad uno squallido do ut des, anzi, si nutriva soprattutto di complicità, di sostegno nei momenti di sconforto, di condivisione in quelli di serenità e, perché no, di tenerezza e di timide coccole, mai più audaci di una carezza o di qualche bacio scambiato in punta di labbra.
Ad Hans piaceva chiacchierare in quel suo inglese reso spigoloso dalle sue origini olandesi e Teresa adorava ascoltarlo, lasciandosi stordire dall’azzurro di quegli occhi malandrini.
La misteriosa alchimia del loro rapporto era, per i due ragazzi, la corazza che gli orrori del campo non riuscivano a perforare, il bunker che la bestia nazista non poteva demolire, il profumo che l’odore della morte, di cui tutto era impregnato, non era in grado di inquinare.
Non ci fosse stato tra i due questo strano feeling, probabilmente Teresa non si sarebbe resa conto degli effetti devastanti che, lentamente ma inesorabilmente, la vita da deportato stava producendo sul suo amichetto e non le sarebbe importato granché del progressivo incurvarsi delle sue spalle, o dei segni della fatica che il lavoro al Canada lasciava sul suo volto a fine giornata, o della trasformazione che stava subendo in ogni parte del suo corpo, tanto che la divisa, all’inizio così stretta da metterne in evidenza le braccia muscolose e i pettorali ben definiti, ora sembrava un sacco informe e sproporzionato.
Invece, Teresa notava tutto questo con crescente preoccupazione, che divenne profonda disperazione allorché la fanciulla non riuscì più a negare a sé stessa che anche quella luce che faceva brillare gli occhi di Hans e che tanto la intrigava stava spegnendosi.
“La fame lo sta uccidendo” era il ritornello che le risuonava continuamente in testa, le scuoteva le viscere, le toglieva il sonno.
Occorreva inventarsi qualcosa per fermare questa lenta ma inarrestabile agonia.
Cedere ad Hans un po’ della propria misera razione di cibo?
Certamente sarebbero morti entrambi di fame.
Civettare con l’addetto alla distribuzione del rancio per ottenerne una dose più abbondante da dividere con l’amico?
Non possedeva armi di seduzione abbastanza affilate.
Organizzare una sorta di colletta alimentare tra i compagni di prigionia a favore di Hans? Sarebbe stato come chiedere ad un bambino goloso e affamato un pezzo della sua merenda.
Non restava che una sola possibilità: procurarsi un po’ di cibo rubandolo da qualche parte.
Rubare.
Di solito Teresa provava ribrezzo anche solo a pronunciare quel verbo, come tuonava il rabbino dal pulpito, chi ruba tradisce l’amore di Dio e la fiducia degli uomini.
Ma al campo la sola regola valida e indiscussa era “fai tutto il possibile per sopravvivere” e ogni mezzo, ogni azione utile per il raggiungimento di questo scopo erano leciti, anche rubare, forse anche uccidere.
Ora che la voce della coscienza era stata messa a tacere occorreva risolvere un altro, spinoso problema: dove trovare del cibo degno di questo nome e facile da rubare?
La ricerca di una risposta a questa domanda costò a Teresa un bel po’ di notti insonni, durante le quali lavorò febbrilmente di immaginazione per rappresentarsi una serie di possibili scenari adatti alla realizzazione del progetto e dopo un’attenta valutazione dei pro e dei contro risultò vincente quello senz’altro più folle, ma candidato con maggiori probabilità al successo.
Quando, il mattino seguente, in un angolino defilato del Canada, fu messo al corrente del piano dalla sua stessa ideatrice, Hans, che la primavera ormai inoltrata non riusciva a far rifiorire, ebbe una reazione scomposta:
“Tu sei pazza furiosa!” disse, trattenendosi a stento dal gridare, “Per rimandare di qualche giorno il momento in cui creperò di fame vuoi intrufolarti nella cambusa della palazzina comando per rubare qualche scatoletta di carne, o un pezzo di cioccolata, o un tozzo di pane nero? Mi sembra il modo migliore per finire tutti e due davanti al plotone di esecuzione, o arrostiti in un forno crematorio, o gassati sotto le docce!”
Per niente sorpresa dalle parole del suo interlocutore, Teresa prese le mani del ragazzo tra le sue e con un sorriso rassicurante replicò:
“Tranquillo Hans, ho studiato il piano in ogni dettaglio e sono sicura che funzionerà: l’ingresso della cambusa dà sul retro del cortile della palazzina, la porta è sempre aperta e proprio in un punto lì vicino ho notato un varco nella recinzione che delimita l’area, abbastanza grande perché mi ci possa infilare.
Per quanto riguarda la sorveglianza, ho verificato che alle tredici e trenta è praticamente inesistente.
Gli ufficiali, il personale di cucina, i camerieri, le guardie, sono tutti a farsi la dormita pomeridiana, aiutati anche da qualche boccale di birra di troppo, e la cambusa rimane deserta per una buona mezz’ora.
Durante il pranzo della domenica, poi, la birra scorre a fiumi e tutto il personale resta kappaò per un bel pezzo.
Sembra incredibile, ma l’aria di festa si fa sentire anche in un inferno come questo; sarà un gioco da ragazzi per me infilarmi là e riempirmi le tasche di cose buone.
Se qualcuno, poi, mi beccherà dirò che mi è scappato il gatto e che lo sto cercando per tutto il campo.
Sono certa che con l’aiuto del Signore andrà tutto per il verso giusto!”
Probabilmente Hans aveva perso qualche passaggio del lungo monologo di Teresa, ma l’entusiasmo con cui la ragazzina lo aveva pronunciato lo convinse.
In segno di approvazione, la strinse forte tra le sue braccia e, nel suo solito inglese olandesizzato, le sussurrò in un orecchio:
“God will help us!”
IV
La prima spedizione fu un successo: alle tredici e trenta del dodici maggio, ovviamente una domenica, Teresa, silenziosa come un gatto, penetrò nel cortile della palazzina attraverso il varco a lei noto, strisciò lungo il muro di sostegno della recinzione e, assicurandosi che non ci fosse nessuno nei paraggi, raggiunse l’ingresso della cambusa; come previsto, la porta era aperta e la stanza deserta.
Col cuore che le batteva a mille entrò, infilò una mano in una scatola scelta a caso tra le tante allineate sugli scaffali addossati alle pareti, ne trasse qualcosa che poteva essere una scatoletta di carne e la mise lestamente in una tasca, poi arraffò due fette di pane nero abbandonate su di un tavolo e le infilò nell’altra tasca.
A questo punto decise che, come prima volta, poteva bastare e, stringendo forte il bottino conquistato a rischio della propria stessa vita, rifece ai cent’allora ma in senso contrario il percorso dell’andata.
In men che non si dica si ritrovò distesa in branda in compagnia di cimici e pidocchi, con addosso lo sguardo perplesso dei compagni di camerata, distrutta dalla tensione e dalla fatica, ma raggiante per il buon esito dell’impresa.
La nottata passò tra il terrore che qualcuno potesse rubarle il tesoretto, l’orgoglio per il coraggioso gesto di amicizia compiuto e il turbamento per il pensiero, affacciatosi all’improvviso nella sua mente e subito scacciato con disgusto, di mandare al diavolo Hans e la sua fame e di tenere quei bocconcini tutti per sé.
A porre fine a questa ridda di riflessioni intervenne il segnale della sveglia, accolto da Teresa quasi con sollievo.
Finalmente avrebbe rivisto Hans, avrebbe condiviso con lui il lauto pasto conservato in fondo alle tasche della casacca e forse avrebbe rivisto spuntare il sorriso sul suo bel viso segnato dalla sofferenza.
All’adunata per l’appello i due si cercarono con gli occhi e, dallo sguardo fugace ma eloquente di Teresa, Hans capì che qualcosa di buono bolliva in pentola.
Quella mattina, il tempo trascorso sul piazzale ad ascoltare l’ufficiale di giornata che snocciolava nomi su nomi sembrò interminabile e quando finalmente lo stesso ufficiale ordinò il “rompete le righe” Teresa, con uno scatto da centometrista, si precipitò verso il Canada, seguita a stento dal suo amichetto che, col fiato grosso un po’ per la corsa un po’ per la tensione, la raggiunse al loro angolino segreto.
Qui ebbe luogo il festino e quel misero pasto a base di carne in scatola e pane nero sembrò ai due ragazzi un pranzo da re a cui mancavano solo posate d’argento e stoviglie di porcellana.
Ma ora occorreva far sparire le tracce del banchetto e raggiungere in fretta le postazioni di lavoro, prima che il kapò si accorgesse della loro assenza e trasformasse quel bel momento in un incubo.
Il Signore aveva dotato quelle bestie di una immaginazione particolarmente fertile nell’inventare le punizioni più disumane per i detenuti indisciplinati.
Ma i due complici non avevano nessuna intenzione di farsi pizzicare e quando il sorvegliante iniziò il suo giro di ispezione li trovò al loro posto, indaffarati a svuotare scatoloni, aprire valigie, sistemare oggetti, accatastare indumenti, trovare il modo, da parte di lui, di sussurrare, nell’orecchio di lei, un semplice, inaspettato “thank you”.
Dunque, il meccanismo era ben oliato e per più di un mese, tutte le sante domeniche alla stessa ora, Teresa replicò le sue spedizioni alla palazzina diventando di volta in volta più audace.
Alle scatolette e al pane si aggiunsero cioccolato, gallette, pezzi di formaggio, salsicce, arance e biscotti che la ladruncola ficcava a forza dentro le tasche fin quasi a farle scoppiare.
Il ricco bottino veniva poi diviso in sette razioni, una per ogni giorno della settimana, che i ragazzi si spartivano da buoni fratelli e divoravano in fretta e in silenzio nella penombra complice e rassicurante della loro tana.
Gli effetti di questa sorta di cura ricostituente non tardarono a manifestarsi, soprattutto in Hans che, sotto gli occhi compiaciuti di Teresa, cominciò a riprendere peso, a riacquistare il sorriso franco dei primi giorni ma, soprattutto, a ridonare al mondo la luce particolare di quel suo sguardo che sembrava ormai spento per sempre.
Teresa ne era convinta.
Assieme ad Hans avrebbe fatto lo sgambetto alla morte, avrebbe fottuto quella vecchia megera che si ostinava cocciutamente a roteare a destra e a manca la sua falce assassina alla caccia di vite umane da spezzare.
V
Quel giorno, all’adunata per il solito appello mattutino successe una cosa strana: a metà circa della litania di nomi recitata dall’ufficialetto di turno fece la sua comparsa sul piazzale, con un paio di esseesse al seguito, nientemeno che il comandante del campo.
Teresa non ricordava che, durante tutto il periodo della sua detenzione, fosse mai successo un fatto simile e la cosa non prometteva nulla di buono.
O forse no: forse, anzi, sicuramente, quel trombone voleva annunciare personalmente la fine imminente della guerra e la conseguente liberazione dei prigionieri.
Che la guerra fosse ormai agli sgoccioli e che la belva nazista, braccata dagli alleati, fosse allo sbando lo si sentiva nell’aria, lo si capiva dalle facce torve dei carcerieri, lo si intuiva dall’andirivieni dei caccia inglesi e americani su, nel cielo insolitamente sereno.
Fra non molto i liberatori sarebbero entrati da quel cancello, avrebbero schiacciato quei vermi con la croce uncinata cucita sul bavero e lo scalcinato esercito dei sopravvissuti, con lei ed Hans in testa, sarebbe uscito a riveder le stelle, come il sommo poeta e la di lui guida Virgilio dopo il lungo vagare tra le brutture dei gironi infernali.
Teresa amava Dante e, una volta tanto, avrebbe desiderato che l’appello fosse durato ancora un po’: ciò le avrebbe permesso di recitare tra sé e sé qualche altro verso del capolavoro del grande fiorentino.
Ma già l’ultimo nome della lista, quello di Georgy Zuckerman, era stato chiamato e nel silenzio irreale calato sul piazzale il comandante, con passo pomposo, stava guadagnando il podio al centro dell’area:
“Ci giunge notizia” esordì l’alto ufficiale con aria visibilmente annoiata “che qualcuno che si ritiene molto furbo” e qui la voce dell’oratore strascicò platealmente la parola “molto” “si è introdotto più e più volte furtivamente in zona a lui inibita per sottrarre in gran quantità beni di varia natura ivi custoditi”.
Le facce perplesse degli astanti, messi in difficoltà dal linguaggio forbito ostentato dal comandante, costrinsero quest’ultimo ad un chiarimento:
“Insomma, in mezzo a voi si nasconde un vigliacco che, infischiandosene altamente delle regole scritte e non scritte di una sana convivenza, ha rubato ogni ben di Dio dalla cambusa della palazzina comando!”
La notizia dell’imminente fine del mondo avrebbe forse avuto su Teresa un effetto meno choccante:
“Hans aveva ragione” pensava in preda ad un violento attacco di panico “la nostra bravata sarebbe stata anche la nostra rovina! Eppure, sono sicura di essere stata prudente, silenziosa come un gatto, veloce come una pantera, invisibile come l’aria che respiriamo”. Fu la voce del comandante a riportarla sulla terra:
“Povero pazzo! E anche stupido, tanto stupido da non aver capito che a giocare con gli ingranaggi di una macchina perfetta come quella nazista si finisce per esserne stritolati”
E già, Teresa non aveva fatto i conti con la maniacale pignoleria teutonica che tutto registra, tutto cataloga, tutto classifica, comprese le scatolette di carne, le fette di pane nero e le stecche di cioccolato.
Ma forse la situazione non era così compromessa
In definitiva i maledetti avevano scoperto il fatto, ma non il suo autore e se i due complici se ne fossero stati zitti e buoni l’avrebbero fatta franca.
Forse.
Ma il capo aveva ripreso a parlare:
“Ora conterò fino a cinque, cinque come i passi che separano quel verme dalla possibilità di riacquistare il diritto ad essere chiamato uomo confessando il suo crimine, cinque come le dita di questa mano che gli porgerò per condurlo ad un giusto processo.”
E cominciò a contare:
”Eins…”
“Ma di quale giusto processo va cianciando quel buffone?” pensava la fanciulla “Ma se lo sanno anche i muri che essere “sottoposti ad un giusto processo” significa “venire passati per le armi all’istante”!
“Zwei…”
Teresa non credeva nei miracoli ma questa volta si sorprese a pregare il Signore perché la trasformasse in un’aquila reale:
“Drei…”
Coi suoi artigli robusti avrebbe afferrato Hans per le spalle e con le sue ali potenti sarebbe volata insieme a lui sulla montagna più alta del mondo.
“Vier…”
Ancora meglio, l’Onnipotente avrebbe potuto creare un tunnel nelle viscere della terra attraverso il quale un coro di Serafini avrebbe trasportato lei ed Hans in un punto del pianeta il più lontano possibile da lì.
“Funf…”
Tempo scaduto, e di miracoli nemmeno l’ombra.
Alla piccola ladra di scatolette e cioccolata non restava che insistere nella tattica dello struzzo, in attesa delle prossime esternazioni del grande inquisitore, là sul palco, che non tardarono ad arrivare:
“Un vecchio proverbio recita “nessun colpevole, tutti colpevoli”, e siccome queste piccole perle di saggezza racchiudono sempre grandi verità lo adotterò. A partire da oggi stesso condanno tutti i detenuti a ricevere razioni di cibo dimezzate!”
Teresa era frastornata e basita: normalmente a chi le raccontava che il diavolo esiste riservava sguardi di compatimento, ma ora il suo scetticismo vacillava.
Chi era quell’uomo vestito di nero, che col sorriso sulle labbra aveva appena condannato a morte centinaia di persone innocenti se non l’incarnazione stessa di Satana?
E chi, se non l’angelo maledetto da Dio, comodamente annidato nel corpo e nella mente del comandante, avrebbe potuto pianificare un eccidio di siffatta portata al solo scopo di condannare ad una pena di ben più raffinata atrocità lei stessa, la vera responsabile di quella sorta di tsunami?
Perché per lei, nella sciagurata ipotesi che fosse uscita viva dal campo, si prospettava un’esistenza fatta di sensi di colpa e di rimorsi che le avrebbero mutilato l’emozione di una storia d’amore, negato la gioia per l’arrivo di un figlio, soffocato il piacere di un gesto d’amicizia donato o ricevuto.
Teresa non ci stava.
Meglio morire a quindici anni che viverne cento con un chiodo infisso nel cuore.
Ora avrebbe percorso quei fatidici cinque passi tanto cari al comandante, lungo il tragitto verso il patibolo avrebbe cercato gli occhi di Hans per un ultimo saluto e avrebbe trovato pace.
Ma non ebbe il tempo di muovere un muscolo perché qualcuno, dal mucchio dei detenuti implotonati, aveva gridato qualcosa come:
“Sono io il verme che cercate!”
Teresa avrebbe preferito non riconoscere quella voce, ma avendola riconosciuta avrebbe voluto gridare a sua volta:
“Ma che ti salta in mente Hans? Signor comandante non lo ascolti, lui non c’entra niente: sono io la ladra delle vostre maledettissime scatolette!”
E invece non disse nulla, non fece nulla se non asciugarsi le lacrime con la manica lurida della blusa per poter vedere per l’ultima volta la testa bionda dell’amico, trascinato via di peso dalle guardie.
VI
La festa del Channukah è forse la più bella fra quelle previste dal calendario ebraico, senza dubbio la più attesa.
Per una curiosa coincidenza di date con quello cristiano, è anche detta “Natale ebraico”.
Ma ciò di cui i fratelli ebrei fanno memoria durante gli otto giorni in cui si snoda la festa non è la nascita di un bambino speciale, bensì la “rinascita” speciale del tempio di Gerusalemme.
Il tempio era stato, profanato e sconsacrato al tempo della dominazione ellenica sulla Giudea, sotto il regno di Antioco IV Epifane, e tornò a custodire tra le sue mura il Sancta Sanctorum il 25 kislev, che è l’ultimo mese dell’anno164 a.C.
Ciò fu possibile per la rivolta vittoriosa di Israele contro l’oppressore voluta dal gran sacerdote Mattatia, capeggiata da Giuda Maccabeo, Gionata e Simone, suoi figli, e decisa dalla battaglia di Emmaus, dove Lisia, generale di Antioco, uscì pesantemente sconfitto.
Alla gioia per la libertà riconquistata e per il tempio ritrovato si aggiunse lo stupore per un evento miracoloso: l’olio destinato al sacro Menorah, racimolato in quantità sufficiente sì e no per un giorno, ne alimentò la fiamma per l’intera durata della cerimonia di consacrazione: otto giorni.
È per questo che il Channukah è anche definito “festa della luce” o “festa dei lumi”.
Gioia e luce, dunque, gli ingredienti di un evento che Giuda Maccabeo volle fosse ricordato ogni anno fino alla fine dei tempi e che ogni anno rinnova l’orgoglio di un popolo.
Affinché l’orgoglio non venisse soffocato dalla disperazione, anche il Channukah del 1944 trovò posto nei cuori degli ebrei rinchiusi ad Auschwitz.
Furono giorni di preghiere appena sussurrate, di canti intonati a fil di voce, di gesti rituali, dal sapore antico, compiuti nella penombra delle baracche attorno ad un immaginario Menorah.
Per Teresa quello strano Channukah rubato alla sofferenza, senza regali, senza luminarie, senza sorrisi fu comunque uno squarcio di sereno in mezzo al temporale, tanto da convincerla che quello fosse un buon momento per lasciare per sempre questo mondo.
Il 28 kislev, divorata dalla febbre, tormentata dalla tosse, distrutta dalla fame, ignorò il segnale della sveglia e non si lasciò intimidire dalle urla del kapò che, scuotendola come uno straccio, minacciava di spedirla a calci all’adunata per l’appello.
Qualcuno dice che il momento del trapasso sarà il punto di partenza per una lunga passeggiata dentro un tunnel di luce sfolgorante.
Qualcun altro sostiene che in quell’attimo tutta la nostra vita ci scorrerà davanti agli occhi come in un film,
Un altro ancora assicura che il passaggio dalla vita alla morte ci donerà il privilegio di comprendere l’immensità dell’universo.
Per Teresa, nulla di tutto questo.
Ciò che vide, nel suo ultimo viaggio, furono solo due occhi di smagliante bellezza.
Quelli di Hans.
GLI OCCHI DI HANS di Marco Prati
genere: ROMANCE