IL BULLO PAVIDO di Franco Lo Presti

Non era poi così grande, come sembrava a me, quel cortile del condominio in cui abitavo da bambino insieme a tanti altri ragazzi.
L’ho rivisto durante una mia recente visita a Catania. Era sicuramente piccolo, imbruttito e in stato di semi abbandono.
A quell’epoca, però, ci sembrava immenso, enorme: quasi un campo di calcio. E in esso, noi ragazzi trascorrevamo il nostro tempo, svolgevamo i nostri giochi.
A volte, invitavamo ragazzi estranei al condominio per svolgere una partita al pallone, tra le proteste dei nostri genitori, ma soprattutto dei condomini che non avevano figli e non gradivano i nostri giochi con i relativi schiamazzi.
Quel cortile era il luogo dei nostri incontri, in cui organizzavamo le nostre esplorazioni e le nostre escursioni, per lo più, in verità, proposte di solito dai ragazzi più grandi.
Fra questi ultimi ce n’era uno: Alberto che aveva le idee più brillanti e, spesso, più pericolose. Non era un cattivo ragazzo; egli si atteggiava e, effettivamente, proteggeva i più piccoli, in caso di litigi con gli estranei al condominio. Ma per questo richiedeva obbedienza ed esigeva che tutti partecipassero ai giochi da lui proposti.
Un pomeriggio d’estate, alle cinque della sera, quando il gran caldo cominciava ad attenuarsi, ci ritrovammo, come il solito, nel cortile, ed Alberto ebbe una delle sue idee:
«Andiamo a lucertole» propose.
Era il gioco da lui preferito e che facevamo spesso.
«Sì!» risposero tutti, ubbidienti.
Anch’io acconsentii, anche se a malincuore, perché ho sempre odiato il maltrattamento degli animali e sapevo che, prima o dopo, le lucertole afferrate finivano per essere uccise.
Catturare una lucertola, così com’era nelle intenzioni di Alberto, non era facile e richiedeva tempo e tanta pazienza.
Ci allontanammo, comunque, in gruppo, dal cortile, per dirigerci in un vicino spiazzo abbandonato che recava i segni evidenti del bombardamento subito durante la guerra.
Un cumulo di macerie era ciò che restava di numerosi palazzi esistenti prima delle operazioni belliche.
E tra quelle rovine, cresceva un’erba alta in mezzo alla quale piccoli roditori e, soprattutto, lucertole, trovavano il loro rifugio, all’ombra di qualche sasso.
Arrivati nel piazzale, cominciammo a scegliere il nostro filo d’erba. Doveva essere lungo e ancora verde per essere più flessibile e mimetizzarsi meglio con l’ambiente. Con esso dovevamo catturare la lucertola, costruendo a un’estremità un cappio.
Sceglievamo la nostra postazione, seduti su un masso, sotto al quale sicuramente c’erano delle lucertole e, filo d’erba in mano, aspettavamo che una di esse entrasse, inconsapevole, in quel cappio e ne restasse intrappolata per la gola.
Avrebbe vinto il ragazzo che riusciva ad acchiappare la lucertola più grossa.
Quel pomeriggio Alberto fu il primo a catturare una lucertola, ma stavolta il gioco continuò in modo del tutto diverso e inaspettato.
Alberto, con la lucertola che si divincolava, appesa com’era al filo d’erba, cominciò ad avvicinarsi di soppiatto ai compagni del gruppo, cercando di appoggiare la lucertola sulla testa o sul viso di ciascuno.
Era uno scherzo che non aveva mai fatto e perciò nessuno se lo aspettava.
Tutti, ovviamente, abbandonarono la loro postazione e scapparono per quel senso di ripugnanza che assale ognuno di noi al contatto e, spesse volte, anche alla vista di un rettile, specie se ferito, mentre Alberto se la rideva, felice della sua geniale trovata.
Io me ne stavo ancora seduto su un sasso, il più distante possibile da Alberto, facendo finta di aspettare la mia preda.
Non mi accorsi perciò che egli si avvicinava furtivo alle mie spalle, dopo aver fatto segno agli altri ragazzi di tacere.
«Attento!» gridò invece un mio amico, disubbidendo agli ordini.
Fu un attimo. Mi voltai e, vedendo la lucertola vicino al mio viso, ebbi una reazione improvvisa e inconsulta.
Riuscii, senza saper come, a strappare ad Alberto il suo filo d’erba con la lucertola appesa e a lanciarlo lontano da me.
Il filo si spezzò, un pezzo rimase in mano mia e lo buttai subito per terra, mentre l’estremità in cui era ancora appesa la lucertola andò a ficcarsi, chissà come, dentro la camicia sbottonata di Alberto.
Questi, dopo un attimo di stupore, sentendo probabilmente l’animaletto correre attorno al suo girovita, cominciò a scappare, saltando e urlando.
Ebbe, però, la presenza di spirito di tirare, mentre correva, la camicia fuori dai pantaloni, cosicché, la lucertola trovò una via d’uscita e cadde per terra, ma sul dorso, dimenando le zampe nel tentativo di rimettersi nella giusta posizione.
«Questa me la paghi!» gridò Alberto, venendo minaccioso verso di me, mentre tutti gli altri soffocavano una risata che era sorta spontanea.
«Non l’ho fatto apposta!» risposi, a voce alta, mettendomi sulla difensiva.
Ci fu un momento di silenzio perfetto. Tutti ammutolirono, temendo le ire del capo.
Ma fatti alcuni passi verso di me, Alberto ebbe una reazione che nessuno si aspettava.
Si fermò, ci guardò e si mise a ridere.
Fu come la liberazione da un incubo.
I ragazzi lo imitarono, scoppiarono in una fragorosa risata e cominciarono a spingersi amichevolmente l’un l’altro.
La lucertola, intanto, era riuscita a rimettersi sulle quattro zampe e fuggì per rifugiarsi sotto qualche pietra, portandosi dietro il suo cappio al collo.
Ritornando a casa, Alberto si scusò, affermando che voleva solo fingere di appoggiare la lucertola sulla testa dei compagni per far loro paura, ma non l’avrebbe mai realmente fatto.
Tutti, però, furono concordi nel sostenere che lo scherzo era stato molto pesante.
Io raccontai a mia madre ciò che era successo ad Alberto.
Lei commentò:
«Ben gli sta!»
Non aveva mai sopportato le sue trovate geniali.

Il bullo pavido è un racconto di Franco Lo Presti

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