IL SIGNORE DELLA COMUNICAZIONE di Maria Chiara Piazza

Hermes, il dio della comunicazione, è un anziano pellegrino che vaga per la Terra incessantemente, presenziando alle opere e alle vorticose attività della sua dottrina che, più di ogni altra, oggi è posta al centro del mondo.

Districarsi in quello che è diventato un Far West è divenuto per lui assai doloroso e privo di soddisfazione. La vanità – e non la condivisione di un messaggio – è il motore che muove, il più delle volte, l’uomo. Vorrebbe farla finita, ma essendo un immortale non può morire.

Di fronte all’ennesima delusione inflittagli dagli uomini, capisce che per porre fine ai suoi giorni deve uccidere il principio stesso del suo Sapere: lui deve uccidere il genere umano.

Progetta, perciò, un vero e proprio piano della comunicazione volto al male e, attraverso Social Media, Dark Web, Fake News, terrorismo e balorde app informatiche, realizza il suo programma di distruzione.

L’essere umano, però, sa dimostrarsi migliore di quello che sembra.

Gli antagonisti di Hermes – rappresentati dalla responsabile dell’ufficio stampa dell’ONU, da una celebre coppia di youtubers e da uno scienziato pazzo – sapranno dimostrargli, attraverso la riscoperta di un senso di responsabilità e dell’importanza di un approfondimento della conoscenza, che esiste ancora una speranza di fare della comunicazione una risorsa fruttifera e indispensabile.

Avanzava solitario, con passo fermo e pesante.

La testa piegata verso terra, senza guardarsi intorno, senza contare più le miglia percorse, né il tempo trascorso.

Camminava.

Camminava sempre.

Ora in una landa infuocata ripresa dall’alto da un elicottero; ora sul luogo di un delitto illuminato da un flash; ora nel corridoio di un Ministero spiato da una fonte in incognito; ora su un barcone clandestino alla deriva, inquadrato da un fotoreporter.

Il suo incedere aveva un ritmo rallentato, viaggiava su una frequenza fissa, con un’andatura moderata e prudente.

Attraversava folle di persone in fuga da paesi in guerra, code di automobili su autostrade allagate, scalava gli spalti di uno stadio in delirio e percorreva navate di cattedrali gremite. Sapeva parlare ogni lingua, padroneggiava tutte le culture e conosceva la totalità dello scibile.

Il mondo, nella sua vastità, era il luogo della sua esistenza e, percorrendolo incessantemente, dava forma e sostegno alla sua dottrina. Non si fermava mai, non poteva farlo, il suo compito lo obbligava ad andare ovunque ci fosse bisogno di lui.

Nei secoli, il suo potere si era esteso in maniera titanica, ma contrariamente i segni di questa potenza non risiedevano nella sua fisicità.

Poeti, scultori e storici lo avevano sempre ritratto come un giovane atletico senza barba.

Oggi, invece, era un vecchio canuto, irsuto e appesantito.

Il viso rugoso, il corpo segnato dai colpi del tempo e dalla sua vertiginosa evoluzione. Gli occhi stretti in piccole fessure lasciavano intravedere poco della sua forza e della sua astuzia proverbiale. Uno sguardo spento e triste contrassegnava il suo viso, rivolto al mondo con rassegnato disinganno.

Ad ogni passo, si sosteneva al suo caduceo o kerỳkeion, un bastone vecchio e scheggiato come lui.

A tracolla portava sempre un borsellino di pelle, custode di una molteplicità di risorse. Un piccolo guscio di tartaruga era il ciondolo che ondulava intorno al suo collo, un avvoltoio lo scortava dall’alto volando e un gallo, dal piumaggio nero, trotterellava zelante al suo seguito.

I suoi abiti da viaggiatore erano consunti e strappati in più punti. L’himation, il mantello che gli ricadeva sulle spalle, usurato da millenni di peripezie, era liso e frusto e nulla faceva ipotizzare che quell’indumento potesse essere tanto prodigioso, da renderlo invisibile ad occhio umano. I mortali non potevano vedere né lui, né gli animali a lui sacri che lo accompagnavano sempre.

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