IMPAZIENZA di Marina Coli

Affacciato al traspirante azzurro dei miei occhi, da un paio d’anni circa, imparo un discreto mucchio di cose, prima fra tutte l’impazienza.

Si è sprigionata subito, con repentina rabbia, quando qualcosa dentro me urlava un dispiacere di vuoto ed aria, da colmare.

Avrei divorato la mamma.

L’impazienza ha un carattere di carne.

Da dove arrivo, oltre i confini del cielo, non esiste. Quello è un non luogo, tutto luce.

In questi posti che oggi respiro, ho scoperto la durezza delle cose; persino il corpicino che mi abita, per quanto deliziosamente morbido, a detta della mamma, lo sento perentoriamente saldo, pieno di smaniose esigenze.

Così, la prima cosa che so è che qui si chiama tutto terra, e da questa latitudine fatta di terra ci si ricorda poco o niente di quell’altro là. Anch’io, che di pochi chili di polvere son fatto, perdo memoria della luce tutta, e della sua grazia: una stella, così si chiama, credo.

Penso anche che ad un certo punto di quel paradisiaco tempo, qualcuno mi abbia esortato a tornare qui, su questo sfarinato mondo, ed è stato il primo dispiacere fiorito là, nello sfolgorio degli astri.

Sembra però che fosse necessario intraprendere il viaggio ed arrivare. Pare anche che sulla terra ci fosse bisogno del racconto mio.

Comunque, nella vastità del nero che corre accanto al mare di corpi celesti, avrei incontrato altri pianeti, imparato, così mi hanno detto.

Vagamente ricordo un Essere di luce, compagno di viaggio. Insieme nuotavamo, disarticolate complessità, in quell’oceano impalpabile e una limpidezza blu incontrò il nostro organismo.

Assiso ad un trono di luce vi era Saturno, ammantato di stelle.

“Non dimenticare che sei un’entità del cosmo, un essere di luce”, mi disse con voce di tuono.

Il ricordo, in questa carne turgida di sangue e umori, si indebolisce sempre più e tutt’intorno a me, nelle foschie delle cose terrene e nel ronzare delle petulanti voci che sovrastano il tuono di quel re lontano, non odo parole di cielo, ma impazienti lamenti.

Anche la mamma, talvolta, consuma il suo paradiso in una ruga verticale che le solca la fronte.

Ed io ancora non so perché.

La successiva contrada del viaggio celeste era uno spazio ricamato di fiori arancioni, come calendule.

Il grande sapiente Giove, dall’alto della sua magnifica corona a dodici punte, sprofondato in prodigiosi pensieri, così si rivolse:

“Figlio delle stelle, stai per diventare figlio dell’uomo. Perché tu non agisca irragionevolmente, rivolgiti a me e troverai la saggezza.”

Vedo, altresì, qua intorno al mio ancor piccolo letto, quanto barbarico affanno pressa il pensare e l’agire degli afflitti signori della terra.

Anche la mamma, talvolta, si esprime con preistorico istinto.

Ed io non capisco il perché.

Navigare nello spazio assoluto ci portò ad un terzo pianeta, e per la prima volta il piede dell’anima mia si scontrò con un suolo rigido, duro di terra rossa: la casa del cavaliere Marte.

Incuteva un certo timore e mi apostrofò per la mia inconsistente leggerezza, poco idonea all’incontro con la Terra.

Compresi allora le sue parole che si tramutarono in forza e coraggio, quello che ora fluisce nel mio sangue, credo.

Dovrebbe servire a combattere i nemici del bene, mi pare, ma ancora non ho potuto pesare la quantità che differenzia il bene dal male.

Lontano dal cavaliere rosso un altro principe poteri osservare, standone però molto distante per la luce ed il calore che da lui si sprigionava. Era il Sole, così mi chiarì l’Essere di luce, mio compagno. Anche da quella distanza compresi il suo dono: convertire il cuore in forze dell’amore. Proprio allora, in quel preciso istante di dorata solitudine, il mio cuore cominciò a palpitare.

Nella penombra dei mie quasi due anni ho beatamente conosciuto questa stessa forza raggiungermi a cascata dal cuore di mia madre.

La mamma è bella, soffice, mi richiama la quinta visita del cielo tutto. Un pianeta verde sul quale avrei voluto bellamente stendermi per un milione di anni.

Colà regnava la magnifica regina Venere (assomigliante alla mamma, lo confermo). Nel vedermi arrivare, felice mi disse:

“Vedo che sei passato dal principe del Sole, che ha fatto battere il tuo cuore. Ebbene, un nuovo segreto sarà il mio dono, in modo che le forze dell’amore fluiscano nelle tue mani e tu possa diffondere bontà attorno a te tramite le tue azioni.”

Intorno alla mia casa terrena, carezze e cure di mamma a parte, si strattona la vita a forza di guerre, mi pare.

E, per ora, non comprendo il perché.

Solo con molta fortuna si può incontrare Mercurio nel suo paese. L’Angelo mio compagno sapeva che, essendo il messaggero del cielo, difficilmente lo avremmo trovato. Dopo un tempo non definibile per ovvie ragioni di non tempo (nulla è misurabile lassù), il grande messaggero alato atterrò nella sua gialla casa. Era al corrente della mia visita e volendo farmi assomigliare a lui, che sulle spalle, sulle mani e ai piedi, ali ha, mi fece dono della parola, poiché io, sulla terra, volare non so.

Attraverso la parola avrei potuto precipitarmi quanto lui, insieme ai pensieri che corrono dal cielo agli abissi, da destra a sinistra, sulla terra e sul mare, ma con equilibrio, senza perdere la rotta che mi fa arrivare.

Sento spesso, nei giardini dei giochi terreni, un vociare, un urlare poco assennato, grondante livore e impazienza. Anche la mamma, raramente, perde il filo del pensiero e ingarbuglia il discorso, così da non farsi capire ed io rimango atterrito dai suoi insolubili perché.

La memoria si affievolisce, come quel crepuscolo che adombrava la fine del mio incalcolabile viaggio.

Attraverso brume e nebbie vidi il regno della signora Luna.

Assisa su un trono, ai suoi piedi una serpe bianca e in mano uno specchio.

Mi chiese:

“Tu ancora non ti conosci, vero? Ti sei mai visto?”

Per la prima volta mi veniva offerto di contemplare il mio volto. Ero rapito in me stesso. Ricordo la progressiva pesantezza che mi fece sprofondare nel sonno.

Dimenticai tutto.

Mi svegliarono le lacrime e la visione di un’altra signora, bellissima (anche lei come la mamma).

Aveva una corona di dodici stelle sul capo e vestiva un grande manto azzurro. Una pienezza solare le splendeva in viso e ai suoi piedi era il bianco serpente della Luna.

Rimasi abbagliato a guardarla, mentre con un lembo del manto copriva il mio capo e il suo pensiero mi arrivò chiaro e netto:

“Cerca il figlio mio sulla Terra dove giungerai. Egli non è rimasto sedotto dalla trappola dello specchio. Cercalo e ti farà ritrovare ciò che hai dimenticato.”

Questo solo ricordo, o forse l’ho sognato prima ancora dei miei quasi due anni di goffi tentativi, cadute e rialzate, torturate gengive, di riso e pianto, parole sconnesse e baci ricevuti da persone amate, le solite per ora.

Il motore spingente è sempre quell’impazienza, che brontola ai miei danni. Pare che esercitarla in eccesso procuri attacchi di furore a chi mi sta appresso, come se tutti coloro che sbiancano i loro giorni a ridosso di montagne e problemi, ne fossero oltremodo guariti. Ma così non è, sembrerebbe.

Ma sarà davvero una cosa malata, questo sentimento che accende le membra e fa scalpitare la lingua?

Ancora non so.

Nell’impazienza, quindi, mi sono sprofondato, precipitando dalle vaste altezze nell’abisso tondo del mondo e acceca questa urgenza di conoscere e crescere.

Lo spazio dei giorni che giocano a nascondino, mettono un certo scalpiccio di traguardi al mio orologio ronzino. Corpo scattante e sguardo puntato su orizzonti fradici di fretta, fanno da sfondo musicale.

Eppure, a bordo di queste mie paffute guance, che tutti vorrebbero riavere, io mi defilo nella sublime contemplazione della trottola di quotidiano avvenire e trovo mille occasioni per difendere i motivi che sospingono in avanti le curve pericolose delle novità; esse si affollano davanti a me e non riesco a fermarmi.

Guardo e imparo a impressionante velocità, sorretto dalle punte dei miei piedi, anelanti e recalcitranti, che mi alzano a raggiungere le cose dei grandi. Teso a soddisfare i miei perché, ancora non capisco le domande di nuda tristezza che vestono gli altri, fuori da sé stessi nel ghiaccio di una manciata di tormentato amore.

Ancora non conosco l’amara minestra, che nelle sere di spavento per la vita arrestata ai propri demoni, non scende nello stomaco e ingolfa la gola mescolata al pianto.

Non sono arrivato ad imparare l’asprezza del torto, consolato da brucianti bevute.

Non ho incontrato le schiere del male, indebolito dalla sua stessa cattiveria.  Non ho conosciuto il raggiro e la vergogna, la passione e lo scempio.

Ho chiamato a gran voce la salvezza, questo sì, chiedendo con sfrontata insistenza il cibo e il capriccio è appena comparso.

Da questa immensità di occhi aperti sul mondo nuovo, il cielo perduto mi riprometto di conquistare, solo e sempre con pazienza, così mi insegnano, ma ancora non la conosco.

Mi hanno dato un nome sul principio di questa storia, solo ora lo rivelo per pudico umore di previsione futura.

Antenore non veste molto un bambino di piccola taglia, piuttosto apre i cancelli di un destino opaco, se abdicare al proprio compito fosse la sciagurata scelta.

Come quell’uomo oppresso, all’angolo sporco della strada, teso alla misericordia dei passanti, indaffarati e stanchi.

O quello che ruba furtivamente il guadagno altrui, facendosi chiamare benefattore.

La donna in vendita per pochi denari, imbruttita da botte e alcol.

La claudicante esistenza della perenne insoddisfazione, che attraversa uomini e donne in sfrecciante carriera, sommersi di fango.

Storie di stracciate speranze, deprivate del ricordo cosmico che origina le stelle, indicative e rassicuranti.

Antenore è colui che combatte. Così si configura il mio futuro.

Per ora, dal moto retrogrado dei miei pensieri e dal confine della nuca morbida, osservo ciò che vedo e tutto è meno reale di lassù, mi pare.

Ogni orma incide le teste di donne e uomini, come segno indelebile.

Si scordano di intonare armonie con le tre corde di Apollo e mentono nel decidere altri suoni in un cacofonico guazzabuglio che spesso raggiunge il mio piccolo orecchio, e disturba.

Anche la mamma crede fermamente nelle sue angosce. Prende come verità assoluta i fantasmi delle cose, che premono: come imbastire il pranzo con la cena, recuperare denari per le bollette, cercare barlumi di vacanza.

Non capisco questo affanno.

Nei miei sorrisi a piccoli denti, rifulge la calma degli anelli di Saturno, il placido gelo di Orione, la costellazione del Toro con le sue Pleiadi e davvero ancora palpita in me la verità del cosmo.

Avanzare ipotesi di vita senza poter immaginare l’imprevedibile, è follia, mi sembra.

Ho scrutato, dalla distanza dei miei giochi sul tappeto, i racconti di un signore attempato, affranto per la perdita del suo amico cane, compagno inseparabile. Nelle pieghe delle tremanti ginocchia, sulle quali poggiavano le mani arrese alle ferite del destino, raccontava il colpo ferale di una vipera, gonfia di cattiveria, scaricata in batter di ciglia sul suo quadrupede amico.

Ancor più il suo silenzio raccontava dell’angoscioso rientro nella vuota casa, nei giorni chiusi alla gioia.

Da dove vengo questo nero seppia non c’è. Il dolore e la prova son di questo mondo e per ora non capisco il perché.

L’anelito al gioco spinge a minuti passetti il mio avanzare, e le corse a perdifiato dietro un magnifico fratello, grande come un re, sono il pieno dei miei pochi anni, e la mamma bella, accogliente, il padre sicuro, che protegge, compongono la polvere di questo colorato pianeta, che ora abito.

Però, dall’arsiccio mio nasino, prosciugato da continui starnuti, allungo la veduta su screpolate ore di gente immersa in affrettato sudore, a raggiungere cosa, mi chiedo.

Tutta la fretta che sbava il finestrino dell’auto del babbo, mentre in colonna attendiamo una partenza, aspira a singhiozzi di pace, che non c’è. Questa agonia, perfida più degli orchi antagonisti nelle fiabe che ascolto, (ma che ogni volta finiscono bene), giuro, io non comprendo.

Perché il tempo mio trabocca di fervore, colmo di slanci odorosi arance e cannella, e brevi ingorghi di filo spinato che mi strappano dalla mamma. Solo allora mi dispero.

Ma il sollievo del suo abbraccio è il dolce ricordo del cielo perduto ed è bastante a placare il grido dell’ansia cattiva e famelica, è la sola pazienza degna d’essere abitata.

Questo solo, per ora, io so.

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