IMPERCETTIBILE COME di Loreta Salvatore

1.La porta grigia

La porta grigia sbiadita dal tempo, sporca di tele di ragni, dal ferro pesante, batte a tempo seguendo un ritmo secco e schioccante.

Voci di donne e lamenti quasi indistinti si stagliano nel lungo corridoio, squallido, gelido, deserto, dove nessuna ombra può sopravvivere a sé stessa.

Maira, con i suoi francesismi riadattati all’uso della lingua corrente, emette latrati e rabbia, perché non ne può più di subire prepotenze e violenze, nella cella cupa costretta dalle sbarre arrugginite.

Sembra un animale impazzito che furiosamente striscia gli zoccoli a terra ed invoca aiuto. Il corpo disfatto e disorganicamente scomposto si delinea come una figura senza contorni.

«Vendicherò la violenza scritta sulla mia carne e le botte» dice ad alta voce con tono rauco. 

«Voglio vivere, ancora» sussurra a sé stessa «non voglio morire in questa tomba stomachevole.»

Maira sa bene che non può sperare, se non di una speranza fragile.

«Morirò qui!» aggiunge consapevole «Nessuno verrà a discolparmi!»

Le donne in coro la canzonano gridando dalle celle:

«Mairà, Mairà, a morì cà!»

Intanto, scorrono le ore inesorabili, piatte, sempre uguali, come un filo di perle annerite. Il tempo ha sporcato ogni cosa, perfino la memoria che non emerge più.

Prova ad elencare gli eventi, seguendo una causa ed un effetto, ma non sa riorganizzare il tutto, ritorna a farlo; e lo disfa nuovamente come una costruzione di sabbia.

Le congetture, si sa, sono pensieri labili che sembrano reali.

La scena si presenta sempre allo stesso modo: pochi dettagli ancora a restare nitidi ed a stagliarsi netti. Non esiste più la verità. Sembianze, puri riflessi, appannati graffi di ricordi che sporcano quei vetri, mentre piove. Gocce che rigano il volto, le mani aperte verso la pioggia e le braccia che sembrano crocifisse al cielo.

“Ero una donna!” pensa ossessivamente. “O forse no! Credevo di esserlo!”

Il monologo ossessivo e petulante l’opprime senza possibilità di scampo.

Il buio ingoia tutto; e lo dissolve in uno scenario indistinto.

Lei non era corpo. Era un’anima avvinta dal dolore e vagava oltre ogni Inferno, alla ricerca del perduto. Era un’identità macchiata dal dubbio e dall’errore, dal male che inquina e pone a soqquadro. 

Era stata in preda alla morte che schiaccia la vita e la riduce a brandelli senza cuori, dilaniando il puro.

Non so se qualcuno ha mai conosciuto il dolore per qualcosa mai commesso e nello scontare una pena per qualcosa che non si conosce.

Quando tutto era vita, le sembrava che le cose fossero facili.

 Un lungo monologo interiore percorre il silenzio della donna. Chi è, in fondo, se non una come tante: un rifiuto umano! 

In realtà, lei non ricordava con precisione i fatti. E come avrebbe potuto ricostruirli se nessun particolare riemergeva in superficie? Scontava una pena prima ancora di sapere e, nella sospensione dei fatti, ora elargiva pause, lunghe pause che non sarebbero giovate a nulla.  

Ormai avrebbe dovuto scontare la condanna.

“Patirò il tempo, le ore” disse a sé stessa con rassegnazione.

Il carcere era un luogo freddo e sporco, dove non era possibile vivere con dignità e l’Inferno veniva scontato sulla terra, secondo regole e norme inumane.

La secondina urlò il suo nome. Avrebbe abusato di lei come sempre e nessuno si sarebbe accorto di nulla.

Prese a picchiare con una sbarra di ferro vicino al muro per farsi notare, ma lei non volle ascoltare.

Il letto cigola, stridulo, come una catena di ferro spezzata.

Era stata schiava nella baraccopoli poco distante dal centro, in un campo dimenticato da Dio e dagli uomini. Lì solo l’inumano abitava il terreno e non c’era scampo per l’animale braccato. Costretta a spezzarsi la schiena, a raccogliere tabacco tutto il giorno, era sotto la cinghia della caporalessa Bhekisisa, una senegalese che aveva fatto il patto col diavolo. Le narici grandi fumanti la facevano sembrare come un bisonte impazzito e feroce. 

Questo fino a quando si ribellò alla schiavitù e scappò via senza sapere dove andare, in cerca di salvezza.

Non aveva le scarpe ed a piedi nudi e sanguinanti aveva percorso di notte l’asse mediano.

Nessuno si era accorto di lei tranne qualche prostituta giovane che si attardava per aspettare qualche cliente ritardatario. 

Il buio nella tarda notte ingoiava tutto e persino il mare che poco distante rumoreggiava d’inverno ed assaltava la costa spoglia e devastata dall’abusivismo edilizio.                                                         
Come altre donne, una tratta inumana l’ha portata fin qui, sradicandola dalle sue origini croate. 

Un tempo ha ucciso la donna che la teneva prigioniera in una cella: aveva fatto di lei una schiava da sottomettere a piacimento.

Ora le era negata ogni libertà ed il diritto a vivere le sembrava ormai un pensiero lontano ed irrealizzabile. La morte stessa diventava un pensiero che la confortava delle atrocità subite.

Un lampo di morte e l’avrebbe fatta finita anziché scontare la pena dell’ergastolo. In quella prigione non c’era nulla di educativo, solo violenza, e metodi di forza che avvilivano ogni reattività fino a fiaccare la resistenza, spegnendo a poco a poco la bellezza del vivere o ravvivando la presenza del male.

Tutto era vanificato ed al tempo stesso inutile, insignificante.

CONTINUA

Impercettibile come è un romanzo di Loreta Salvatore

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