LA BUSTA di Luca Lucchesi

Foto di pixabay

È freddo.

Luigi accosta alle labbra le dita guantate che tengono la sigaretta e tira.

Una fitta dolorosa alla tempia lo fa ansimare.

Chiude stretti gli occhi e apre la bocca annaspando per un po’ d’aria.

Si appoggia al muro e si stringe la testa con le mani mentre la sigaretta cade per terra.

Forse passa.

Apre gli occhi.

Vede solo al centro, il bordo del campo visivo è nero.

Li sbatte un paio di volte.

Adesso va meglio.

Si passa la mano sulla fronte, sudata.

Come ho fatto ad arrivare qui?

Si guarda in giro e non vede l’auto che stava guidando fino a poco fa.

Dovevo essere sovrappensiero.

Prende il pacchetto di sigarette dalla tasca e se ne accende una.

Cammina in direzione della banca.

Guarda l’ora. Manca ancora un quarto d’ora, non ci sono problemi.

Si aggiusta il nodo della cravatta.

Va beh, se poi il colloquio col direttore non dovesse andare bene e non mi assumono, non sarebbe chissà che tragedia.

Si rabbuia.

A parte babbo.

Va beh, forse allora riuscirò a convincerlo a farmi andare in Francia, alla Sorbona.

Fa un sospiro, aspira dalla sigaretta e si dirige verso la banca.

Là posso studiare arte davvero, non come qui a Milano.

Si passa una mano sulla fronte. Fa un respiro profondo. Un altro. Adesso va tutto bene. Tutto bene.

Un tipo bassino viene verso di lui e lo guarda fisso.

Porta una felpa col cappuccio sollevato, le mani in tasca. Scarpe da ginnastica. L’espressione è cattiva.

Si ferma davanti a lui.

Chi cazzo è questo qui?

Quello gli fa un gesto interrogativo col mento.

Luigi solleva le sopracciglia e arcua in basso la bocca, come a dire che non sa.

«Le chiavi, stronzo! Dove sei stato? Dai!» dice allungando una mano.

Luigi scuote la testa.

«Ma porca puttana! …» dice l’altro guardandosi intorno.

Mette la mano nella tasca della giacca di Luigi. Tira fuori un mazzo con diverse chiavi, alcune anche piuttosto lunghe, e un pezzetto di plastica con un’estremità metallica, piatta.

«Toh!»

Gli dà la chiave di un’auto.

«È laggiù, dopo quella blu!» dice indicando nella traversa.

Lui guarda in quella direzione e non capisce. Si gira. L’altro s’era già allontanato ma torna indietro.

«Ti ricordi, vero, dove devi essere fra» guarda l’orologio «sette minuti, si?»

Lui guarda l’auto blu e poi di nuovo questo tipo.

«Sì, giù di là. La seconda a destra e poi ancora a destra, già voltato nel senso di marcia. Hai capito o no?»

Fa cenno di sì con la testa. Guarda la chiave dell’auto.

L’altro è scomparso.

È arrivato alla macchina.

È grande, larga. La chiave ha un pulsante metallico e funziona come un coltello a scatto. Prova a inserire la chiave nella porta, ma non entra. Sopra c’è il simbolo di un lucchetto. Preme e lo scatto proveniente dall’auto lo fa sussultare.

Dev’essere uno degli ultimi modelli, l’aveva letto da qualche parte, col telecomando.

Accende, mette la freccia e percorre la strada per poche decine di metri e gira a destra.

Da quando ho sbattuto con la bici in quella discesa la memoria va e viene. Sembra di essere in un dopo-sbronza continuo. Sorride fra sé.

Forse avevo un appuntamento con quel tipo con la felpa.

Arriva dove gli ha indicato l’altro, un piccolo cortile. Fa manovra con l’auto in modo che sia rivolta verso l’uscita.

Va beh, io gliela lascio qui e me ne vado.

Toglie la chiave dal quadro e apre la portiera.

*****

«Accendi, stronzo, che cazzo fai!»

Luigi si volta verso la voce.

Il tipo con la felpa di prima, una maschera di plastica sulla faccia, la felpa tirata su, porta un borsone alle spalle, tutto chino.

«Entra e accendi, stronzo!»

Un colpo di pistola da dentro la porta da cui è uscito il tipo.

Luigi chiude la portiera e accende l’auto.

Cazzo cazzo cazzo. Una rapina. Ma che cazzo ci faccio qui, io.

Mette la prima e fa per muoversi.

«Fermo stronzo!»

Un’oggetto duro e freddo appoggiato dietro l’orecchio.

«Aspetta!»

Dallo specchietto vede uscire un secondo rapinatore, che zoppica, e un terzo, rivolto all’indietro, con la pistola in mano.

Il secondo entra dietro.

Il terzo arretra.

Dalla porta della banca sbuca qualcuno, una guardia. No, un carabiniere. Rriconosce l’uniforme che suo padre portava sempre, anche a casa.

Il terzo ha aperto la portiera. Il carabiniere spara ma non colpisce nulla. Il terzo mira e lo prende alla parte alta del corpo, dal modo in cui la spalla va all’indietro. Resta steso sul cortile.

«Vai, vai, vai! Parti stronzo!»

Gli batte col calcio della pistola sulla spalla, come a spronare un cavallo.

Luigi lascia la frizione e, un po’ a saltelli, l’auto parte.

«A destra. Vai!»

Si forza a guardare a sinistra mentre vorrebbe scappare velocissimo, via da questo casino.

«Adesso gira a sinistra alla rotonda. Vai!»

Accelera. Ottanta. Cento.

«Piano, piano! Rallenta! Gira di qua! … Di qua!»

Gira a destra in una stradina a senso unico.

«Piano adesso. Via le maschere!»

Si tolgono tutti le maschere.

Guarda Luigi nello specchietto.

«Piano, Luiggi! Non vogliamo mica mandare tutto a puttane per eccesso di velocità, eh?» dice con un sorriso cattivo.

Cazzo.

L’abitacolo è silenzioso, non si sente per niente il rumore del motore, nonostante stia facendo centotrenta chilometri all’ora sull’autostrada.

 Il cuore invece gli rimbomba negli orecchi. Si passa la mano sulla fronte. Sudato. Abbassa il riscaldamento.

Quel mal di testa! Quando mi prendono mi s’incasina tutto. Gli ultimi ricordi sono sempre poco chiari, lo diventano dopo qualche giorno. Questi devono essere quegli amici del Franco che mi diceva, quelli tosti. Quelli che lui ci aveva fatto una cosa grande insieme. M’aveva detto che me li avrebbe presentati.

Guarda nello specchietto. Il tipo con la felpa lo guarda negli occhi.

«Tutto bbene, Luiggi?”

Fa cenno di sì con la testa.

«Sì, sì! Tutto bene!»

Tutto bene un cazzo. In che casino mi sono ficcato?

Guarda ancora dietro. Annuisce. Il tipo con la felpa si gira verso l’altro e dice qualcosa, piano. Ridacchiano. L’altro lo guarda nello specchietto. Luigi distoglie lo sguardo.

Quello accanto a lui guarda nello specchietto dal suo lato. La pistola l’ha messa nel borsone che ha ai piedi, aperto.

Fa un respiro profondo, lento, come gli ha insegnato Luisa, per l’esame di stato. Gli era servito. Alla fine, è passato bene, cinquantotto.

«Prendi la prossima uscita, fra cinque minuti!»

«Muzio, ma non è meglio andare più avanti?»

Il tipo accanto a Luigi si volta indietro per fare la domanda.

«Imbecille! Niente nomi!»

Lo guarda fisso. L’altro si volta e sospira. Stringe il borsone fra i piedi.

«No, usciamo adesso che poi l’autostrada la bloccano!»

Per un po’ c’è silenzio nell’abitacolo.

Probabilmente mi sono messo d’accordo con questi per fare questa rapina, forse solo per l’eccitazione.

Adesso però basta. Devo separarmi dagli altri, o loro escono dalla macchina o ci esco io.

Potrei fermare l’auto dal lato sinistro della strada, al casello e buttarmi fuori.

Se riuscissi a scappare, abbastanza lontano, abbastanza in fretta, magari non perderebbero tempo a corrermi dietro.

Devono scappare, sono quasi sicuramente inseguiti dalla polizia.

Però sanno chi sono, per forza!

Non mi ricordo quando ci siamo incontrati, ma devono saperlo!

Conoscono Franco, in ogni caso. Potrebbero fare del male ai miei genitori, prenderli in ostaggio. No, questo non è possibile!

Potrei fare un incidente! L’auto non può più continuare e ognuno scappa da solo.

No, non funzionerebbe. Hanno le pistole, mi terrebbero con loro sotto minaccia e quando poi fosse possibile mi farebbero fuori.

E se andassi direttamente dalla polizia o dai carabinieri?

Va beh, mi sparerebbero prima.

In ogni caso non conosco bene questi posti, non so dove siano le caserme.

Resterò con loro fino al nascondiglio.

Non mi ricordo che accordo abbiamo, ma dubito che sia paritetico. Vedrò quello che potrò fare in quel momento.

«Ferma là in fondo!» gli dice Muzio.

Un cascinale in fondo a una strada sterrata nella pianura, senza altri edifici in vista.

Apre la portiera. Scende. Muzio è già fuori. La pistola in mano. Con la canna e la testa, gli indica l’edificio.

Luigi si guarda intorno.

Non c’è un cazzo. L’unico modo di scappare di qui è con l’auto. Se gli altri non mi seguono.

«Vai, Luiggi. Che guardi? Ti piace il panorama?»

Ride.

Luigi si volta ed entra nel cascinale, seguito da Muzio.

L’ambiente è ampio, il soffitto alto, forse quattro, cinque metri. Attrezzi agricoli ammassati in un angolo e appesi alle pareti. Una lampada da campeggio su un lungo tavolaccio, dove sono appoggiati i borsoni.

Muzio è seduto a metà sull’angolo del tavolo, le mani in grembo. La pistola è appoggiata sul tavolo. Guarda Luigi negli occhi, fisso. Quello che era dietro è seduto su un secchio rovesciato e si massaggia la gamba. L’altro, un biondo, è a sinistra della porta, appoggiato a un banco da lavoro, le braccia conserte.

Luigi sente un brivido di freddo lungo la schiena e i testicoli che rientrano. Fa un passo a destra. Osserva gli strumenti attaccati dietro il banco da lavoro.

Sono fottuto!

«Beh, non facciamo la divisione? Anche a me spetta una parte, no?»

Riesce a dirlo con un tono calmo, senza balbettare.

Forse ce la faccio.

Muzio fa una risata che lo fa piegare all’indietro. Gli altri due una risatina di scherno. «Che cazzo vuoi te?»

Ha caldo. Il cuore gli batte fortissimo.

Fa un passo in avanti, verso Muzio, le braccia aperte.

«Beh, non era questo il nostro accordo?»

Muzio scende dal tavolo e prende la pistola, la canna verso il basso. 

«No, non era questo il nostro accordo. Non c’è nessun accordo, coglione!»

Luigi vede gli altri due al limite del campo visivo, che non si sono mossi. Fa un altro passo in avanti. Adesso è a poco più di un metro.

«Ma come nessun accordo?»

Le braccia aperte coi palmi verso l’alto. Guarda il tipo alla sinistra e poi ruota per guardare quello a sedere più in là, sulla destra.

Piega il braccio, chiude la mano, stringe gli addominali, avanza col piede sinistro e ruota il corpo a sinistra. Il pugno prende Muzio sulla tempia e lo scaraventa a terra. Il suono sordo della testa che sbatte sul pavimento di cotto fa impressione anche a lui.

Adesso è davanti al tipo che ha sparato al carabiniere. Sta mettendo la mano dietro la schiena.

Luigi, trasportato dall’abbrivio, allunga il piede destro e con un altro passo è quasi davanti all’uomo.

Allunga le mani e le appoggia sulle spalle dell’altro, che istintivamente porta indietro la testa.

Anche lui fa lo stesso ma fa poi scattare la fronte verso il setto nasale del biondo che sente spaccarsi.

Anche senza voltarsi è conscio del terzo rapinatore, che si sarà alzato e sarà con la pistola in mano.

Luigi si accoscia e si inclina verso destra, dandosi poi una spinta con le gambe.

Sente il colpo e il rumore dell’impatto del proiettile nel muro del cascinale. Adesso si trova steso in terra, la mano che quasi raggiunge la pistola di Muzio, incosciente.

Il terzo spara di nuovo e sente l’impatto dietro, da qualche parte.

L’ha colpito.

Stringe la pistola e spara prima ancora di puntare, grosso modo dove dovrebbe essere l’altro.

Il colpo non parte. Spingendosi coi piedi sgattaiola dietro il bancone. Non sente più il sedere, è come fosse anestetizzato.

Un colpo colpisce una gamba del tavolo.

Scarrella la pistola e spara sollevando la mano. Due colpi. Tre.

L’eco svanisce ma le orecchie gli fischiano. Non sente quasi nulla.

Bene, anche lui non sente un cazzo.

Si sposta fino in fondo al tavolo e guarda.

Non lo vede. Sente solo il mugolio del biondo, che sta cercando di rialzarsi.

Un’altro contorcimento delle budella.

Se trova la forza di spararmi, in due, che cazzo faccio? Sono nella merda. E quando uno è nella merda che fa? Ci deve uscire.

Guarda verso naso rotto che sta cercando di prendere la pistola.

Luigi punta la sua, con due mani. Trattiene il respiro.

L’altro ce l’ha in mano, sta portando il braccio in avanti.

Luigi spara. Chiude gli occhi e spara un altro colpo.

Li apre. Non si muove più.

Un movimento alla sua sinistra. Spalanca gli occhi. Si volta. Il rapinatore rimasto spara.

Si abbassa e si butta a terra sulla sinistra, la pistola in mano.

Spara tutti i colpi che ci sono.

Il rumore dell’uomo che cade.

Silenzio.

La pistola è scarica, ma la tiene comunque davanti a sé. Va verso il punto in cui l’ha sentito cadere.

È a terra, a faccia in su. Un colpo sullo zigomo dev’essere stato quello che l’ha fermato.

Gli prende la pistola. Gli fa male dietro. Si tocca con la mano: sta sanguinando.

Sul culo m’ha preso quello stronzo.

Controlla il biondo. Ha gli occhi aperti ma sono come quelli del pesce nelle scatole di polistirolo, al mercato.

Muzio è ancora in terra. C’è una pozza di sangue sotto la testa.

Gli dà un calcio alle gambe. Nessuna reazione.

Si mette la pistola in tasca.

Si appoggia al tavolo. Guarda i borsoni. Poi Muzio.

Gli fa anche male la testa.

Bisogna che mi levi di qui alla svelta.

Prende in borsoni e zoppicando li porta nell’auto.

Accende e parte.

*****

Sono morti. Sono morti e non torneranno più in vita. Se lo sono meritato.

Le buche sullo sterrato lo fanno oscillare sul sedile.

Cazzo se fa male il culo, adesso. È stata autodifesa. Se non lo avessi colpito io, Muzio m’avrebbe ucciso poco dopo.

Poco più avanti finisce lo sterrato.

La macchina è segnalata, sicuro. Devo cambiarla. Non mi posso far prendere, non ci crederebbero mai. Poi verrebbe fuori che quelli là conoscono Franco, che Franco è nel nostro giro ed ecco fatto. No, no. Devo trovare un posto sicuro e poi sparisco. La chiappa mi fa male, cazzo, ma mi sembra che il proiettile sia entrato e uscito.

È arrivato all’incrocio con la statale.

Gira a sinistra, nella stessa direzione da dove è venuto non molto tempo fa, tornando verso la città.

Dopo un paio di chilometri rallenta.

Questo andrà benissimo, pensa svoltando a destra verso un centro commerciale.

*****

Parcheggia in un posto defilato, lontano dall’uscita del supermercato.

Aspetta.

Eccolo. Lui va benissimo.

Accende l’auto e percorre una corsia del parcheggio, lentamente.

Nella corsia a fianco un uomo sulla settantina curvo, quasi calvo, camicia beige e occhiali bordati d’oro, sta finendo di mettere i sacchetti della spesa dal carrello nella bauliera dell’auto, un’utilitaria rossa.

Quando la chiude Luigi parte e svolta in quella corsia. L’uomo ha appena spinto il carrello insieme agli altri e sta tornando all’auto.

Luigi aspetta che chiuda la portiera.

Si avvia e si ferma dietro l’auto rossa.

Il vecchio guarda nello specchietto. Poi suona.

Luigi lo controlla con la coda dell’occhio, fa finta di nulla.

La portiera si apre e l’uomo esce e si avvia con un’espressione risentita verso il finestrino del passeggero dell’auto di Luigi, quello più vicino a lui.

Luigi si gira come per vedere cosa vuole.

«Si può spostare? Non lo vede che non esco?»

Luigi fa cenno con la mano di non aver capito e apre il finestrino del passeggero.

«Dica?»

«Devo uscire, non lo vede?» dice indicando con entrambe le mani l’auto.

«Certo che lo vedo, nonno» gli dice puntandogli la pistola dal basso. «Non fare cazzate e non succede niente di male. Va bene?»

Quello guarda la pistola, la bocca aperta e gli occhi spalancati.

«Hai capito?»

Fa cenno di sì con la testa.

«Bene. Allora fai questo per me e io me ne vado. Apri la mia bauliera e porta quei due borsoni sul sedile dietro della tua macchina.»

«Ma e dopo?»

«Vai!» gli dice muovendo la canna della pistola.

L’uomo si guarda intorno e poi guarda Luigi, che lo sta osservando e gli fa cenno di no con la testa.

Apre la bauliera e prende i due borsoni, portandoli alla sua macchina. Apre la portiera posteriore e li infila, a fatica, sul sedile.

Si volta verso Luigi.

«Vai!» gli dice indicando l’uscita del parcheggio.

«Ma, … a piedi?»

«Vai, per favore, non complicare le cose, eh? Vai!»

L’uomo si volta, passa fra le auto e se ne va velocemente verso l’uscita.

Luigi porta l’auto poco più avanti. Esce e monta sull’utilitaria, già in moto.

Esce dal parcheggio ed entra lentamente nel traffico.

*****

Entra nell’area di sosta dell’autostrada e si parcheggia lontano dalle altre auto.

Scende e guarda cosa c’è nelle borse della spesa del vecchio.

Cazzo che male che mi fa.

Trova degli stracci. Della grappa.

Andranno bene.

È un’area di sosta con il solo distributore, senza zona ristoro. I bagni sono sul retro. Meglio così.

Si chiude dentro lo stallo e tira già il coperchio del water. Si tira giù i pantaloni e le mutande. Imbeve uno straccio con la grappa e comincia a pulire le ferite.

Porca di quella puttana troia della maiala di sua madre santa. Cazzo se brucia.

Stringe i denti e ripete l’operazione finché non resta che poco sangue sullo straccio.

Con gli altri fa delle strisce e le annoda. Ricava una specie di benda che fa passare attorno all’inguine della gamba e sul gluteo, comprimendo i fori di entrata e uscita.

Si tira su mutande e pantaloni, ma uno rimane incastrato nella scarpa. Perde l’equilibrio e cade all’indietro. Allunga le braccia ma la testa va a sbattere contro lo spigolo della finestra aperta.

Si accascia sopra il water, la vista che svanisce. Nausea. La testa che gira. Male. Un male cane alla testa.

*****

Apre gli occhi. È appoggiato con la spalla al muro di piastrelle del bagno, sempre a sedere sul water.

Forse sono svenuto.

Guarda l’ora.

Non mi ricordo, forse sì.

Si alza in piedi. Il dolore al sedere lo fa vacillare.

Ma allora non era un sogno. Tocca i pantaloni, sono umidi. Si guarda la mano, sporca di sangue.

Esce dallo stallo e poi fuori dal bagno, trascinando la gamba e sfruttando l’altra per fare più veloce che può.

C’è davvero, cazzo.

La macchina rossa è lì. Apre la portiera ed entra. Si gira. Apre la cerniera di un borsone. Pieno di mazzette.

Mazzette.

Luigi scuote la testa.

L’uomo stringe le labbra e abbassa lo sguardo. Con le mani liscia i fogli che ha appoggiati sulle ginocchia, la scrivania è troppo ingombra di cartelline, computer, telefoni.

Scuote la testa.

«Ma non si può fare proprio nulla?»

Luigi si appoggia allo schienale e appoggia la caviglia sul ginocchio.

«Mi dispiace signor» legge sullo schermo del computer «Rebecchi, ma non ci sono i termini.»

Scuote lentamente la testa.

«Ma questi ordini che ho varranno pur qualcosa, no?»

«Eh, mi dispiace ma purtroppo per la nostra banca no.»

Riporta la gamba a terra e appoggia le braccia sulla scrivania.

«Se avesse avuto qualche cosa a garanzia, forse, ma così…» allarga le braccia in un gesto di impotenza.

L’altro annuisce. Si alza.

Anche Luigi si alza, mettendosi il pacchetto delle sigarette nella tasca della giacca.

«Arrivederci

«Arrivederci» gli dice aprendogli la porta a vetri dell’ufficio.

Esce anche lui ma rallenta, non vuole stargli addosso. Prende la porta di servizio ed esce nel cortile posteriore. Accende la sigaretta e tira una boccata. Esala lentamente.

Che posto di merda, riflette guardandosi in giro.

Un cortile vuoto, usato solo per i camion di movimentazione del contante. Un lotto dove hanno iniziato a costruire qualcosa ma poi sono finiti i soldi e la superstrada sopraelevata poco più in là, col suo continuo rombo-fruscio.

Il rumore della porta che si apre lo fa girare.

«Buongiorno direttore

Una ragazza bruna sta tirando da un vaporizzatore.

«Buongiorno Sandra

Una delle due stagiste. Niente male.

Di nuovo si apre la porta.

«Direttore, c’è Lanzillo

Fibonacci, che impiegato modello, sempre attento, diligente.

«Arrivo, arrivo

Fa un’ultima tirata veloce e butta la sigaretta in terra. La schiaccia col piede e fa un mezzo sorriso a Sandra.

È già nel suo ufficio.

Ma che cazzo Fibonacci, mica è a casa sua.

«Buongiorno Lanzillo» dice chiudendo la porta.

Gli porge la mano.

«Buongiorno direttore» dice l’uomo calvo con un sorriso che gli piega appena le labbra. Gli dà la mano.

Che schifo. Con la scusa di togliere le sigarette di tasca si pulisce la mano.

«Bene. È qui per quel mutuo, no?»

«Sì, esatto. Dobbiamo fare in fretta, si ricorda, no?»

Luigi annuisce, lentamente.

«Sì. Ricordo.»

Il signor Lanzillo apre la borsa di pelle e tira fuori una busta gialla.

«Con questa ci dovrebbe essere tutto, giusto?»

Luigi la apre e conta velocemente le mazzette.

«Si, direi che ci siamo.» La mette nell’ultimo cassetto della scrivania, che chiude a chiave.

«Allora stampo i documenti e facciamo due firme, va bene?» gli chiede con un sorriso.

Uno che prende mazzette. Non sono altro. Un direttore di banca corrotto e approfittatore. Quante cose pensavo di fare trent’anni fa, quando ho fatto il colloquio per essere assunto.

Chiude il borsone. Fa marcia indietro ed esce dall’area di sosta.

Beh, no. Adesso sono anche un omicida. Comunque, Muzio e gli altri due se lo meritavano.

Fa un sospiro.

Mi sento sollevato, addirittura. Voleva sputtanarmi davanti a tutti, farmi perdere il posto di lavoro. Tiè!

Che poi, che lavoro di merda. Io non lo volevo fare. Ma a quell’età che cazzo si capisce. Bisognerebbe avere più fiducia in sé stessi, riuscire a far valere le proprie idee. Anche una persona cocciuta come mio padre l’avrebbe capito e apprezzato. Sarei potuto andare davvero alla Sorbona.

Forse no, ma almeno avrei potuto studiare arte, fare quello che mi piaceva.

Delle auto della polizia corrono a sirene spiegate nell’altra direzione.

Meglio che esca dall’autostrada.

Sì sì, se lo meritano. Hanno anche ucciso un carabiniere. Magari era maresciallo, proprio come papà. Nessuno rimpiangerà quella feccia. Di certo non sarà la prima indagine che seguiranno polizia e carabinieri. Un regolamento di conti, ecco cosa sembrerà.

Esce al primo casello. Mentre si avvicina controlla se ci sono auto della polizia. No, niente. È fortunato.

Paga e si dirige verso una zona periferica.

Il fatto però che il direttore della banca rapinata non si riesce a trovare qualche pensiero lo farà venire, senz’altro. Magari possono pensare che mi abbiano portato via, rapito. O forse che sono complice.

Si struscia la mano sulla bocca e le guance.

Sì, sono complice. Non posso più tornare alla vita di prima.

Questo pensiero gli fa spuntare un sorriso. Come trasformare questi soldi sporchi in soldi puliti sa bene come farlo. È il suo lavoro.

La strada in quel momento corre lungo un canale. Il sole sta tramontando attraverso i rami secchi di alcuni alberi. Si ferma, spenge il motore e lo segue con lo sguardo.

Ho sempre fatto quello che voleva papà. Lui voleva il meglio per me, voleva temprarmi. Invece sono diventato un egoista, un cinico. Approfittatore.

Scuote la testa.

Qui si cambia, in bene o in male. Questa è l’ultima occasione per fare le cose per bene.

Dà un’occhiata ai borsoni.

«Ricordati che il crimine non paga» mi diceva quando mi scopriva che avevo fatto qualche cazzata. Dopo che m’aveva picchiato.

Non è vero, papà, non è vero.

Il sole è calato oltre l’orizzonte. Resta il chiarore arancione che si riflette sulle nuvole.

Riaccende l’auto e riparte.

Strizza gli occhi, perché non vede bene. Delle lacrime gli scorrono sulle guance.

Volevi che stessi sulla retta via.

Fa uno sbuffo, una specie di risatina, di scherno verso sé stesso.

Scusa papà.

Forse però avrei fatto la fine di Muzio e i suoi amici se non ci fossi stato tu.

*****

Appoggia la bottiglietta di birra vuota sul tavolinetto. Solleva il bicchiere e ne tira giù un bel sorso.

Com’è buono il primo sorso di birra.

Si accende una sigaretta e osserva le altre persone ai tavoli all’aperto del bar.

A un tavolo poco lontano dei ragazzi stanno parlando animatamente.

«Si parte con le moto, no?»

«Si, dai! Ganzo!»

«Io c’ho anche la tenda!»

«A me la può prestare mio cugino!»

«Che c’è Marco?»

«Eh, non ha la moto. Ha sempre il motorino» dice ridendo uno. Anche gli altri lo deridono.

La moto.

«Poi ti ci fai del male. Usa la bici. Poi prenderai la macchina!» mi sembra ancora di sentirlo.

Spenge la sigaretta nel posacenere.

«Va beh, allora le tedesche saranno tutte per noi!»

«Andate in culo, vai!» dice Marco tirando su le gambe e appoggiando i ginocchi al bordo del tavolino.

«Babbo non me la compra. Dice che è anche troppo il motorino!» esclama mordendosi unghie.

Luigi lascia una banconota da venti euro sul tavolino e si avvia verso l’auto. Apre il portabagagli e prende qualcosa da una valigetta e la mette in tasca.

Tira fuori un’altra sigaretta e la mette fra le labbra. Guarda il pacchetto. Scuote la testa e lo stritola fra le mani. Lo butta via. Prende la sigaretta dalla bocca e la spezza in due.

I ragazzi si alzano e si dirigono verso le moto. Luigi si avvia verso l’unico motorino.

«Ehi, Marco!»

Si gira, si sta mettendo il casco. Non risponde e lo guarda.

«Non sono pericoloso» gli dice sorridendo, le mani in alto.

«Chi sei? Che vuoi?»

C’è più timidezza che spavalderia in quelle parole.

«Semplicemente uno che ha sentito quello che stavate dicendo. Alla tua età anch’io volevo fare una gita in moto con gli amici.»

Si avvicina e Marco lo ascolta.

«C’era anche una ragazza che mi piaceva. Giulia, si chiamava. Magari, chissà, poteva andarmi bene»

Sorride.

Anche il ragazzo sorride.

«Anche nel nostro gruppo ci sono delle ragazze!» e distoglie lo sguardo.

Luigi tira fuori dalla tasca una busta gialla.

«Tieni. Compra la moto e porta quella ragazza che ti piace a mangiare fuori. Ma scegli un ristorante bello.»

Marco guarda la busta. Allunga la mano e la prende, di scatto, come se temesse che non gliel’avrebbe lasciata. La apre e spalanca gli occhi e la bocca.

«Porca puttana!»

Luigi ride.

«Comprale anche dei fiori. Spesso. Alle donne piace!»

Si allontana.

«Ma perché?» gli chiede il ragazzo.

«Perché è giusto!»

Lo saluta con la mano, allontanandosi.

LA BUSTA è un racconto di Luca Lucchesi

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