LA NATURA DELLO SCORPIONE di Bruna Franceschini
1. Prologo
Apre gli occhi.
Li richiude subito.
Le fa troppo male la testa.
Si rituffa nel sonno, ma il mal di testa diventa il sogno del mal di testa.
Tanto vale alzarsi.
Leggera nausea appena tenta di tirarsi su appoggiandosi a un gomito. La stanza vacilla. Stringe tra il pollice e l’indice l’attaccatura del naso per bloccare almeno il mal di testa. Si tocca la fronte e le tempie, sente quelle trafitture premere sulle dita.
Torna a sdraiarsi sul letto e ci rimane come un gomitolo immobile. La sensazione di avere un ca-ne nero acciambellato sulla bocca dello stomaco, che brontola, come fango che ribolle.
È nausea da vita agra, si dice, da banalità, da maleducazione e volgarità. Non può continuare a protestare d’ufficio senza ottenere ascolto, così da dubitare di essere lei ad avere torto. A chieder-si se sia lei a non capire.
Anche se sa bene come non sia soltanto questo il motivo della sua sfiducia proclamata, del suo pessimismo a oltranza. Del suo urgente bisogno di andare via in compagnia della sola sé stessa, in regime di sovrana indipendenza. Per trovare un nuovo equilibrio. Uno spicchio di innocenza.
Schizza dal letto e, finalmente in piedi, tira su le tapparelle. La luce impietosa le aggredisce gli occhi, costringendola a chiuderli. Si precipita in bagno per sottoporsi all’analisi mattutina.
Dallo specchio la guarda un viso dall’espressione accigliata: la solita faccia da lemure triste, i capelli che cadono inerti sulle spalle, barometro del suo maltempo. Li taglierà, prima o poi. Solo a lui piacciono così lunghi. Ma non è più una ragazzina, anche se lui la chiama Meraviglia.
Si siede sul bordo del letto, accanto alla valigia aperta: deve eliminare qualche abito e delle scar-pe. Una volta stava attenta ad abbinarne i colori, ora non ha voglia di curarsene. Deve togliere an-che un paio di libri almeno, per farci stare gli scarponi da trekking e il portatile. Del resto, non riuscirà a leggerli tutti. Avrà altro da fare. Camminare, riflettere, scrivere…
Dà un’occhiata all’orologio sul comodino e d’improvviso si accorge che non c’è tutta quella fretta. Afferra il telefono e fa il numero: la voce metallica della segreteria telefonica si infila come un verme nell’orecchio. Riattacca.
Le sembra di non ricordare più il viso e la voce di lui. Come se la malinconia si fosse cibata della memoria. Che tutto sia stato solo un equivoco?
Ma forse è proprio quella specie di amnesia che ci vuole. Affinché il tempo che si è impadronito di lei non la divori. Lo specchio ne è testimone. Esistono specchi ottimisti e specchi pessimisti. Il suo è obiettivo e le rimanda una caricatura della faccia a lei nota, come se quell’ultimo anno le avesse corroso i lineamenti.
Lasciatasi alle spalle il tanfo e l’orchestra di clacson scordati di Milano, si infila nell’autostrada. La radio trasmette canzoni degli anni Sessanta, gli anni della sua innocenza, gli anni in cui la mu-sica aveva un posto centrale nella sua vita e cullava la sua preziosa solitudine.
Quando i Platters irrompono cantando:
They asked me how y knew my true love was true realizza che quella è la domanda che anche lei si fa da qual-che tempo, ma non ha la stessa sicurezza nel rispondersi che something here inside cannot be denied.
Perché invece qualcosa, dentro di sé, lo nega.
A Trento, frammento illustrato della sua infanzia, un rapido saluto a sua madre prima di imboccare la carreggiata che fende la roccia nuda e scava buie gallerie, sfociando in un paesaggio molto cambiato: capannoni, case, alberghi, meleti e distese a perdita d’occhio di coltivazioni di piccoli frutti.
Prende infine la ripida strada che la porterà fino al luogo delle sue passate villeggiature. Imprigionato in un’eterna immutabilità.
È ansiosa di tornarci, di intrufolarsi di nuovo nella sua scabra intimità, abbandonarcisi senza armature. Una sorta di nostalgia le morde lo stomaco.
Pigia sull’acceleratore, vuole arrivare prima del temporale che minaccia di anticipare la notte con il suo manto di spettralità.
Lampi squarciano le nubi. Sordi boati a qualche distanza. Ma l’acqua resiste, trattenuta come un tumore maturo dalla cortina di piombo.
Attraversa una ridda di abeti dalle piatte fronde oscillanti, che sembrano correre in senso contra-rio, finché il panorama si apre in una distesa di prati.
L’aria, impregnata della fragranza dolce e pungente dell’erba appena falciata, le dà la piacevole sensazione di essersi lasciata alle spalle i fragori e i fetori della modernità.
Fortunatamente non c’è anima viva in giro e può continuare a pigiare: il mondo scorre veloce, le ruote scivolano sull’asfalto, sfiorano il bordo terroso, sassolini rimbalzano contro la carrozzeria.
Un capriolo le attraversa la strada e si arresta di colpo, fissandola quasi con sdegno, prima di sparire tra le fitte conifere.
Sterzata rapida. Brivido lungo la schiena. Odore di morte.
Rallenta. Per un pelo non è uscita di strada. Si sarebbe schiantata contro un tronco o sarebbe roto-lata come un barattolo, prima di schiacciarsi nel torrente. Evidentemente non è ancora arrivata la sua ora.
Ha però la strana sensazione che la tragedia abbia fatto capolino. Che la morte le sia passata accanto di corsa e l’abbia superata per la fretta di andare da qualcun altro. Che il tempo si sia fermato e lei ci si trovi incastonata dentro, come un insetto nell’ambra.
Improvviso desiderio di essere già a casa. Non a casa sua. A casa.
CONTINUA
La natura dello scorpione è un romanzo di Bruna Franceschini
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