LA PROCESSIONE DELLE ANIME SMARRITE di Riccardo Giorgi (parte seconda)

genere: THRILLER

CAPITOLO 5

Stranamente la notte trascorre tranquilla o quanto meno non ricordo di aver sognato qualcosa.

La routine quotidiana mi porta a dimenticare gli ultimi avvenimenti ma resta in me la curiosità, tipica della deformazione professionale, di conoscere ulteriori dettagli su Bitetto.

Il pomeriggio del giovedì successivo alla mia visita a casa di Beatrice decido di soddisfare questa mia necessità e mi metto davanti al computer e comincio a navigare su internet alla ricerca di qualche notizia.

Come sono solito fare archivio gli stralci delle notizie più rilevanti su una cartella di Windows e catalogo il tutto secondo un mio criterio di importanza dando priorità soprattutto al fattore temporale.

Sono quasi alla fine della fase di archiviazione e catalogazione delle notizie più salienti quando sento il segnale che preannuncia l’arrivo di un SMS e quasi contemporaneamente un messaggio WhatsApp. Tralascio un attimo quest’ultimo in quanto mi incuriosisce il primo essendo stato inviato da un numero che non ho in rubrica.

All’inizio non ho idea di chi possa essere, ma mi incuriosisce il fatto che nel messaggio si faccia il nome di Angela, per cui dopo un po’collego il numero a quello di Giovanni, il mio nuovo amico consigliere di Bitetto, cioè l’unico a cui ho parlato di questa persona e ho chiesto di svolgere qualche piccola ricerca sul suo

conto. Infatti, solo ora mi rendo conto che, come spesso mi capita, quando sono preso da tante altre cose, avevo trascurato di associare il suo numero al suo nome per poterlo archiviare nella rubrica del mio cellulare.

Purtroppo, il contenuto del messaggio non mi aggiunge alcuna informazione oltre quelle già in mio possesso e si limita solo a dirmi che negli archivi dell’anagrafe comunale non vi è alcun riferimento ad alcuna persona scomparsa.

Un po’ deluso per il risultato infruttuoso ottenuto passo al secondo messaggio inviatomi da Edoardo e spero che almeno da lui possa ricevere qualcosa di nuovo.

Ma anche da lui buca, niente di che, nessuna informazione degna di attenzione.

L’amico giornalista scrive che, per quanto abbia cercato, non ha trovato nulla di interessante anche se ci sono stati casi di persone scomparse sia a Bitetto che nei paesi vicini. Poi però sono stati ritrovati vivi e vegeti in qualche angolo del mondo in quanto avevano deciso di lasciare il paese natio in cerca di fortuna e di un avvenire migliore.

Non erano più tornati al loro paese d’origine per libera scelta e di certo nessuno di questi era mai stato dato per disperso.

Mi convinco che questa sia una giornata nera per cui decido di lasciarla trascorrere così senza avviare alcuna iniziativa e poterla cancellare dai miei ricordi.

Continuo così a navigare su internet approfondendo alcune notizie su Bitetto e senza rendermene conto sono arrivato a sera senza aver neanche pranzato.

Mi preparo un buon panino con della profumatissima mortadella della mia marca preferita, mi verso un po’ di vino primitivo nel mio amato bicchiere di creta smaltata ed alla fine mi lascio sprofondare nella mia avvolgente e comodissima poltrona per cercare qualcosa di interessante in TV.

Dopo un po’, senza rendermene conto non sono più io a guardare la TV, ma è lei che guarda me ormai caduto tra le braccia di Morfeo.

Sono circa le due di notte quando con un sussulto mi riporto d’un balzo seduto sulla poltrona su cui mi ero quasi del tutto sdraiato; ho il fiato molto corto e respiro affannosamente quasi abbia corso i quattrocento metri ad ostacoli in completa apnea.

Il mio cuore batte all’impazzata tanto che temo possa esplodere da un momento all’altro, ho gli occhi sbarrati e sono inzuppato fradicio di sudore. Prendo lentamente coscienza che sono sveglio e che in realtà ho vissuto un terribile incubo; mi resta il ricordo di ciò che ho sognato che a quanto pare mi ha turbato tanto da non riuscire ad allontanarlo più dalla mia mente, come se continuassi a viverlo ancora.

Ovviamente non ricordo tutto ma ho davanti a me alcuni flash davvero impressionanti pur essendo una persona che difficilmente si lascia suggestionare dai sogni.

Mi rivedo, nei pressi di un cimitero, non so di quale paese né so se esista davvero nella realtà; il sole è ormai tramontato tanto che la luce sta lasciando il posto alle tenebre.

La visibilità è ancora buona ma incomincia a perdere forza l’intensità luminosa artificiale delle lampade votive accese davanti ad ogni tomba o loculo del cimitero.

Sto andando via in compagnia di un’altra persona i cui lineamenti mi fanno pensare a qualcuno che ho già conosciuto ma al momento non riesco ad associarla a nessuno.

Questa persona mi ha chiesto la cortesia di aspettarla per qualche minuto all’ingresso principale perché prima di andare via doveva portare dei fiori sulla tomba di un familiare morto da poco e prematuramente.

Non mi è stato possibile dirgli di no e così sono lì che attendo giocherellando con il mio telefonino quando sento tre rintocchi di una piccola campana. È quella che in genere viene utilizzata per avvertire i visitatori dell’imminente chiusura del cimitero e quindi li invita ad affrettarsi ed uscire.

Penso al mio amico e questa situazione inizia ad innervosirmi un po’ ed anche se questi rintocchi mi hanno colto un po’ di sorpresa sono contento che ciò sia avvenuto perché così almeno costui si sarebbe affrettato ad uscire visto che ormai sembra sia l’unico ad essere rimasto qui dentro.

Non vedo però il custode né riesco a capire chi abbia tirato la corda della campanella visto che la stanza in cui pendono le funi delle due campane è lì davanti a me ed è letteralmente vuota, né credo che vi sia un automatismo che abbia attivato il suo funzionamento. Le funi infatti sono ferme.

Come attratto da una forte calamita giro lo sguardo verso l’interno del cimitero in corrispondenza dell’ossario che si erge in fondo al viale principale proprio lì davanti a me a non meno di una cinquantina di metri ed avverto la presenza di qualcosa o di qualcuno.

Penso al mio amico ma, con mia meraviglia, non è chi sto aspettando; nel frattempo sento il rumore di un batacchio ed una nenia che in alcuni momenti sembra più un lamento continuo. Dal lato destro del sacrario con passo lento ma ben cadenzato, inizia a muoversi verso di me una sagoma inizialmente indefinita che poi pian piano diventa sempre più delineata e chiara.

Sembra una giovane donna con una tunica bianca, lunga sino alle caviglie e talmente ampia da non lasciare intravedere alcuna forma corporea. Ha i capelli ricci e lunghi che le scendono fluenti sulle spalle e di un colore biondo cenere con riflessi ramati che mettono in risalto il colore della carnagione del suo viso che sembra quasi maiolica smaltata.

Nella mano sinistra porta un grande cero votivo, mentre nella destra stringe un rosario con i grani neri e lucenti. Man mano che questa figura procede verso di me dal lato sinistro del sacrario inizia a prendere corpo un crocifisso sorretto da una figura inconsistente ed eterea tanto da far sembrare la croce come sospesa nell’aria.

Nel suo procedere con lentezza e con la stessa cadenza della donna, questo simbolo del credo cristiano fa da guida ad una molteplicità di altre entità che se in primo momento apparivano prive di una connotazione fisica ben precisa, ma man mano che procedono verso di me assumono sembianze umane che seguono in religioso silenzio il crocifisso.

Giunti alla fine del sacrario nella sua parte antistante li attende un grande cane bianco a cui, sia il crocifisso che, poi a seguire, la donna con tutti gli altri si accodano mentre imboccano il viale centrale. Si costituisce così un unico corteo che man mano che procede si infoltisce sempre di più.

In un primo momento penso ad un rituale in uso in questo paese per onorare i propri defunti e probabilmente celebrato in un giorno particolare dell’anno a cui mi ritrovo casualmente a fare da spettatore.

Quello che mi colpisce però è l’assenza totale di qualsiasi rumore, neanche quello quasi impercettibile dei passi compiuti da tutta gente che procede in silenzio. D’istinto volgo la mia attenzione verso la parte bassa della tunica della giovane donna che apre il corteo subito dietro il cane e resto incredulo nel notare che non vedo i piedi, come se costei procedesse senza che tocchi terra; è come se una forza misteriosa la spinga in avanti in maniera rigida posta in una posizione di leggera sospensione nell’aria.

Concretizzo finalmente che ciò che sta accadendo ha ben poco di naturale ed a questo punto mi chiedo se tutte queste persone siano reali o frutto della mia fantasia. Peraltro, riflettendoci bene il cimitero sino a poco prima del suonare della campanella era vuoto quindi non riesco proprio a capire e giustificare la presenza di così tante persone.

Matura in me l’idea che sto assistendo a qualcosa di strano e soprattutto innaturale la qualcosa mi porta notevole irrequietezza e nello stesso tempo mi tiene inchiodato in questa posizione quasi legato al cancello di ingresso. La processione intanto avanza verso di me e le fattezze della donna assumono una connotazione sempre più netta e definita. Sembra che mi guardi fisso negli occhi ed è ormai talmente vicina che riesco a vedere chiaramente il colore violaceo dei suoi occhi ed un neo-tondeggiante e particolarissimo sulla fronte all’altezza dell’incrocio tra gli occhi e il naso.

Tutto ciò sta catturando la mia attenzione penetrando nel mio intimo e ogni tentativo di fuggire via risulta vano; alla fine con un estremo sforzo riesco a distogliere lo sguardo da costei girandolo da un’altra parte tanto da sentire l’allentare di una morsa invisibile che mi tiene bloccato lì.

Divincolandomi da questo invisibile laccio corro via senza volgere lo sguardo indietro mentre sento affievolirsi i rintocchi della campanella che nel frattempo aveva ripreso a suonare.

Ora eccomi qui ben sveglio nel mio letto e con lo sguardo atterrito fisso verso il soffitto su cui mi sembra di vedere un’ombra che aleggia sul mio capo.

La notte trascorre in un dormiveglia continuo fino a quando le prime luci dell’alba fugano via le ombre intorno a me e così, quasi sfinito, riesco a riaddormentarmi.

Mi sveglio intorno alle undici con un senso di spossatezza lungo tutto il corpo e con la consapevolezza di non aver tenuto fede agli impegni di lavoro che avevo preso in ufficio con alcuni colleghi e con dei cittadini.

Per i primi provvedo a scusarmi con una telefona impegnandomi ad offrire loro la colazione alla prima occasione utile come pegno per il bidone che ho rifilato loro.

Per gli altri non so proprio come fare se non demandare al mio vicino di stanza, in ufficio, l’ingrato compito di comunicare la mia indisponibilità ad essere presente oggi e rimandare ogni altro appuntamento. Per chi è già stato lì ed è andato via spazientito dovrò rimediare con tante scuse non appena si ripresenterà giustamente molto risentito per il mancato rispetto dell’appuntamento.

Ho sempre avuto la massima attenzione per ogni cittadino che si presenta da me in ufficio e l’essere stato irriguardoso nei loro confronti non riesco proprio ad accettarlo!

Non mi resta da fare altro che uscire a spasso per le vie di Bari, con la speranza di trovare gli stimoli giusti per dimenticare il sogno di questa notte.

Mentre sono lì che gironzolo tra la gente che mi sembra quasi soggiogata da una voglia sfrenata di comprare e girare per negozi, insolitamente strapieni, mi sento prendere sottobraccio in maniera ferma e decisa e prima che me ne renda conto sono deviato dal percorso originario e condotto in un bar che è lì nelle vicinanze.

L’incubo di questa notte mi ha talmente scosso, cosa che non mi accade così facilmente, che mi porta a presumere che quanto stia accadendo sia motivo per pensare al gesto di qualcuno che mi voglia fare del male. Lentamente rivolgo lo sguardo verso il mio aggressore, quasi temendo di scoprirne l’identità, ma fortunatamente il viso di Antonio, fiero e sorridente, sgombra ogni mia tensione e preoccupazione contribuendo notevolmente a ridarmi serenità che esterno con un grande respiro di sollievo.

Apprendo dalle sue parole che si è concesso anche lui una breve pausa dal lavoro perché ha bisogno di rigenerarsi un po’ e l’avermi incontrato rappresenta per lui la migliore terapia per trascorrere alcune ore spensierate.

Antonio non sa quanto il suo bisogno, in questo momento, stia coincidendo con il mio e quanto senta anche io la necessità di stare con una persona amica.

Questo incontro così inaspettato rafforza la considerazione che ho di Antonio e dà ulteriore collante al rapporto che ci lega.

È un rapporto indissolubile che ci tiene legati da anni ormai; sembra quasi che ci sia un cordone ombelicale che ci tenga uniti. Possiamo non vederci e non sentirci per molto tempo, ma non appena accade è come se ci fossimo lasciati appena la sera prima. Sono quei rapporti che non è facile instaurare ma quando accade sono indistruttibili e neanche la morte li scioglie, è un sentimento di gran lunga gratificante ed appagante.

Dopo un buon caffè ci rituffiamo tra la gente senza curarci più di chi ci sta intorno ed iniziamo ad evocare i momenti trascorsi insieme nel passato come due buontemponi che magari hanno alzato un po’ il gomito.

Ad un certo punto Antonio, quasi intuendo il turbamento che è in me pur non sapendo ciò che sto vivendo in questi giorni, mi riporta alla mente un momento in cui una sera d’inverno ci ritrovammo seduti di fronte al caminetto con la legna che scoppiettava.

Eravamo lì io, lui e Flores. La piccola Ester appena nata dormiva accanto a noi nella culletta in legno costruita con le proprie mani dal nonno materno.

Stavamo condividendo un momento di serenità e provavamo ad analizzare il comportamento umano per giungere alla fine alla conclusione che con la forza dell’amore e dell’amicizia si riesce ad incidere sulle azioni degli uomini risolvendo controversie e fraintendimenti in moltissime situazioni.

Antonio ricorda il pensiero espresso da Flores in merito al sentimento che stava sentendo in quel momento sia per lui che per me e confessò che lo stava vivendo come un legame indissolubile ed indistruttibile.

Mi ero riproposto di non parlare ad Antonio degli ultimi avvenimenti e del mio incontro con Nunziatina, ma avendo tirato in ballo la mia amata Flores e questi discorsi sulla lealtà e fiducia non riesco più a tacere e tenere tutto per me.

Anche questa coincidenza è strana; Antonio in tutti questi anni non mi aveva mai parlato di Flores consapevole di quanto ne fossi innamorato e quanto fossi ancora fortemente addolorato per la sua mancanza e di quella della piccola Ester.

Ora che il loro ricordo sta ritornando con forza in me, ecco che lui, quasi consapevole di quanto stia accadendo, ne parla tranquillamente e liberamente, riuscendo così a permettermi di raccontargli tutti i recenti avvenimenti. Mi soffermo poi sul fatto che secondo Nunziatina, veggente o presunta tale, le mie amate sono sempre vicino a me e mi seguono dappertutto vegliando su di me.

Questa donna misteriosa, gli confido, mi ha fornito gli strumenti per poter entrare in contatto con loro ma io ovviamente sono ancora molto perplesso sul da farsi, in quanto il mio essere fortemente razionale mi porta a non credere a tutto ciò ritenendolo frutto di fantasia o quanto meno di condizionamento psicologico.

Antonio mi ascolta con molta attenzione e, con altrettanto tatto, ad un certo punto mi interrompe per dirmi che nella sua attività investigativa in cui è stato impiegato nella ricerca di delinquenti e malviventi non poche volte si è imbattuto in personaggi simili a Nunziatina: dei veri e propri millantatori. Condivido anche io la definizione data da Antonio, ma tutto ciò però stride con il forte legame che permane con le mie donne, Ester e Flores e il non lasciare nulla di intentato pur di poterle rivedere o risentirle, avendo questa donna forse fornitomi gli strumenti.

Antonio continua col dirmi che alcuni si erano rivelati dei veri e propri imbroglioni ma altri, sebbene pochi a dire il vero, lo avevano lasciato a dir poco interdetto, in quanto nonostante la sua maestria nel capire dov’era l’imbroglio, con questi non era riuscito a sbugiardarli.

 Lui per sua natura è ormai portato a vedere il lato negativo del comportamento umano e a non credere ad alcun evento mistico o trascendentale. Per quegli eventi in cui non riesce a scovarne il trucco riconosce solo di essere di fronte a persone più abili di lui ma ritiene che tutto comunque abbia una spiegazione razionale.

Ascolto con attenzione le sue parole che comunque, purtroppo, non mi danno conforto e decido così di parlargli anche di questa Angela di cui però non sono riuscito a trovare nessuna traccia della sua esistenza né passata né ovviamente presente.

Antonio mi sorride in modo affettuoso constatando che anche questa volta mi sto facendo coinvolgere in faccende a dir poco strane. Ora però la vede un po’ difficile in quanto non mi sto basando su fatti certi ma solo sul sogno di un’anziana donna che, con tutto il rispetto che si possa nutrire per lei, potrebbe anche non essere più perfettamente lucida.

Non posso far altro che dargli ragione ma ci conosciamo entrambi molto bene e lui sa che devo seguire il mio istinto per cui salutandomi e ringraziandomi per le belle ore trascorse insieme, mi riconferma come sempre la sua totale disponibilità a supportarmi in qualsiasi situazione ed a qualsiasi costo.

Anzi mi aggiunge, mentre mi stringe con energia la mano, che comunque farà delle ricerche per conto suo su questa misteriosa Angela e perché no anche su Nunziatina.

Sono rimasto solo e sono quasi le quattordici ma non ho molto appetito. Forse l’aperitivo consumato in compagnia di Antonio ha lenito quel debole stimolo che avevo, così decido di dedicarmi alla ricerca su Bitetto, questo paese dell’entroterra barese a circa 15 km da Bari. Non ho intenzione di passare da Beatrice perché voglio visitare alcuni luoghi che hanno destato in me abbastanza interesse durante le mie ricerche sul web ed in particolare devo fare dei riscontri locali rispetto ad alcune mie supposizioni.

Prima passo da casa per prendere il minimo indispensabile quali la macchina fotografica, la tavoletta grafica per gli appunti, un metro, alcuni sacchettini in plastica per potervi riporre qualche reperto, una piccola zappetta, la bussola e della carta per appunti. Soprattutto non devo dimenticare la mappa del comune che però non ho avuto modo ancora di stampare.

Sono riuscito a reperirne una abbastanza chiara e ricca di informazioni piuttosto interessanti ma non prevedendo l’imminente necessità di consultarla avevo rinviato l’operazione di stampa.

CAPITOLO 6

Accendo il computer e mentre si avviano tutte le operazioni di settaggio mi ricordo che non leggo la posta elettronica da alcuni giorni ormai, e quindi colgo l’occasione per farlo. Con molto stupore mi rendo conto di averne ricevuta un bel po’ e che effettivamente devo decidermi a fare una corposa e meticolosa pulizia rimuovendo ciò che ormai non mi serve più o al massimo archiviarla in qualche cartella di servizio.

Tra i messaggi non letti attira la mia attenzione quello del professore Ettore dei Beni Storici e la cosa mi stupisce un po’ in quanto non mi aspettavo nulla da lui.

Lo apro con molta curiosità e noto che oltre ai saluti mi scrive di essersi ricordato di un manoscritto che anni addietro aveva avuto modo di leggere e che parlava dell’edilizia religiosa rurale, ossia quella edificata al di fuori di centri abitati ed in luoghi sperduti tra i campi. Pensando di farmi cosa utile, mi invia in allegato una planimetria da cui si evince come era organizzata questa edilizia definita povera proprio per la semplicità e modestia degli edifici. Essi oltre alla zona vera e propria destinata al culto avevano un’area organizzata per ospitare temporaneamente i viandanti che vi transitavano a seguito della loro attività di commercio od altro.

Un aspetto particolarmente curioso, aggiunge Ettore, è che da studi effettuati è emerso che alcune di queste costruzioni, avendo perso la loro originaria destinazione, sono divenute sedi per rituali satanici, ossia quelli messi in atto da sette di balordi che in nome di Satana compivano ogni nefandezza possibile, prediligendo per i loro riti macabri luoghi ormai sconsacrati.

Più volte intorno al 1700-1800 in questi edifici venivano ritrovati resti di animali che erano stati sacrificati al Dio di turno e in alcuni casi (raramente però) tracce di sacrifici umani immolati a queste divinità.

Leggo tutto con molta attenzione soffermandomi sull’allegato che contiene due grafici: il primo riporta la pianta dell’edificio citato nella mail, il secondo è una mappa che rappresenta il territorio di Bitetto e dei comuni circostanti su cui sono riportate diverse croci che, così come mi scrive Ettore, indicano i luoghi di culto individuati a quell’epoca.

Riconosco quello che coincide con la cattedrale di Bitetto e della   sede vescovile posta alle sue spalle e nelle vicinanze altre più piccole disposte, a prima vista, senza un ordine precostituito.

Mi soffermo a guardare la mappa e contrariamente a quello che accade quando vedi un disegno disordinato che ti lascia quasi turbato in quest’occasione non avverto alcun disagio di questo genere. Sembra come se sia stata disegnata secondo un criterio ben definito che ne ha stabilito un ordine che però non si riesce a percepire di primo acchito.

Prendo i miei strumenti di disegno che conservo ancora gelosamente pur se sostituiti ormai dal computer e comincio a tracciare qualche cerchio e qualche linea congiungendo tra loro alcune di queste croci.

Partendo dalla cattedrale ottengo così una poligonale che collega ogni chiesetta a quella più vicina; iniziando proprio dalla sede vescovile e così via proseguendo, ricavo una spezzata che assume una configurazione molto simile ad una spirale.

Riporto alla mente i miei studi di geometria e le varie dissertazioni sulla sezione aurea di un segmento e di come questo numero, dai più assunto come magico e per alcune religioni addirittura un valore dal simbolismo molto elevato. Non riesco più a trovare un nesso che la mia poligonale o pseudo spirale possa avere con tutto ciò.

Però approfondendo la ricerca sui metodi di costruzione di una spirale, appoggiandomi sulla poligonale da me tracciata riesco a disegnare con una certa precisione una spirale il cui andamento richiama soprattutto quella logaritmica. Lavorando un po’ con i rapporti in scala sovrappongo questa planimetria a quella più recente del centro storico di Bitetto e del suo territorio circostante. Prendo come riferimento il palazzo Vescovile posto sul lato Nord della cattedrale e ruoto uno dei due fogli rispetto all’altro sino a trovare la coincidenza con l’altro punto di riferimento che è la Cattedrale di Bitetto e poi la chiesetta della Benedetta attigua al santuario del Beato Giacomo.

Con mia grande meraviglia scopro ancora che uno dei vertici della poligonale ricade quasi nelle vicinanze della casa di Beatrice. Tra la cattedrale di Bitetto e la casa di Beatrice però noto l’esistenza di altre due ricadenti all’interno del centro antico.

Poi la sovrapposizione dei vertici alla spirale da me costruita si allarga sino ad estendersi sull’intero territorio comunale per poi proseguire su quello dei paesi confinanti con Bitetto.

Riprovo ora la sensazione che avevo avvertito alcuni giorni fa, quando, andando via da casa di Beatrice qualcosa mi portò a pensare che probabilmente quello che ora era il suo giardino un tempo fosse sede di un manufatto ormai distrutto.

Sarei tentato di tornare subito da lei e verificare questa mia supposizione ma ho ancora da risolvere la faccenda con Nunziatina. In questo momento poi mi incuriosisce di più capire se esistono ancora tracce nel territorio delle altre chiese rurali collegati più o meno ai vertici della poligonale che ho appena tracciato.

L’adrenalina che si è liberata in me ed ha generato gli stessi effetti dell’incubo di questa notte e quindi, seguendo il detto “chiodo schiaccia chiodo”, mi metto lo zaino in spalla ed in un batter d’occhio mi ritrovo in auto pronto per l’inizio di una nuova avventura.

Ho superato ormai Bitritto e sono a pochi chilometri dal centro abitato di Bitetto e precisamente in quella parte di territorio che viene denominata località San Marco. Secondo una mia teoria mi sto convincendo che un vertice della poligonale dovrebbe trovarsi all’incirca nei pressi della strada posta tra i due comuni e che condurrebbe a Modugno. L’orografia piana del terreno non consente di avere una vista molto estesa a meno che non trovi un punto di osservazione piuttosto alto da cui poter guardare intorno.

La vegetazione però, quasi uniforme, costituita principalmente da mandorli ed ulivi, non consente nulla di tutto ciò ed arrampicarsi su uno di essi non produrrebbe alcun vantaggio oltre il fatto che risulterebbe poco sicuro per la mia incolumità.

Ad un certo punto vedo poco più in là, davanti a me oltre il ciglio stradale un maestoso e secolare albero di carrubo che sovrasta gli altri alberi vicini.

Attualmente, non è un’usanza molto diffusa in questo territorio piantare questi alberi ma lo era nel passato perché, diversamente da ora, si utilizzavano i muli per il trasporto delle merci e per i lavori nei campi; le carrube, ossia il loro frutto, erano usate soprattutto come integratori alimentari per gli animali soprattutto equini.

Laddove però quest’albero esiste, tuttora viene ancora conservato dai coloni vuoi come una sorta di legame con il passato e ad alcune tradizioni ormai perse, vuoi per il refrigerio che offre la sua folta chioma nei periodi estivi.

Lentamente percorro la stradina sterrata che mi porta quasi sotto l’albero e dopo essermi accertato che non ci sia nessuno spengo il motore, scendo dall’auto e mi soffermo un po’ ad osservare le foglie lobate di un verde brillante.

La vista di questo spettacolo della natura mi lascia a bocca aperta per la meraviglia; è una maestosa pianta con un fusto che almeno tre uomini tenendosi per mano non riuscirebbero a circoscrivere.

La chioma folta è di un verde brillane e talmente ampia i cui rami quasi toccano il terreno, rendendo così ancora più occlusa alla vista tutta l’area circostante la base dell’albero.

Vorrei tanto misurarne la circonferenza, ma il tempo è tiranno e devo proseguire, anche se il mio occhio allenato mi permette di ritenere che potrebbe avere un raggio di non meno di due metri.

Secondo la mia conoscenza di botanica, non molto ampia, questo albero dovrebbe essere alto almeno dieci metri.

Il problema è salirci in quanto non sono ben preparato per questo genere di attività, ma non ho alternative per cui non mi resta che farmi coraggio ed almeno tentare. Cerco di alleggerirmi un po’ portando con me solo la macchina fotografica su cui monto lo zoom che mi consentirà di vedere un po’ più lontano e soprattutto ritrarre foto più ravvicinate.

Sono quasi a cinque metri dal terreno e guardando attraverso le foglie riesco ad intravedere la sagoma di un edificio non molto a circa cento metri dal punto in cui mi trovo in questo momento.

Decido di non sfidare molto la sorte che comunque è stata finora benigna nei miei riguardi consentendomi di arrivare sin quassù illeso, per cui scendo dall’albero e mi dirigo verso questa costruzione sperando in qualche modo di poterci accedere e cercare di salire sul suo terrazzo.

La fortuna continua ad arridermi perché pur trovando la porta di ingresso chiusa, in prossimità della stessa, noto che tra due conci di tufo vi è una fessura al cui interno è riposta una pesante chiave in ferro un po’ arrugginita.

Dopo qualche piccolo tentativo e con poco sforzo riesco a far ruotare il meccanismo di apertura che mi permette di poter aprire la porta mentre sento un forte stridio dei cardini.

Mi trovo ora all’interno di un locale per lo più vuoto con un caminetto ricavato nella parete posta sul lato destro ed utilizzo la torcia elettrica evitando così di aprire le finestre per illuminare l’ambiente. La luce è sufficiente per una ricognizione dei luoghi facendo attenzione a non alterare tutto ciò che è intorno a me; so di violare una proprietà privata e voglio evitare di creare danni di sorta e soprattutto di lasciare tracce del mio passaggio.

Una porta, di fronte a me, mi conduce nel vano adiacente dove vedo una scala a pioli in legno appoggiata alla parete; guardo verso l’alto dove scorgo una botola che sicuramente immette sulla sovrastante soffitta. Con molta attenzione posiziono la scala e la fisso a due ganci posti in prossimità del bordo di questa apertura evitando che scivoli via mentre vi salgo.

Con molta attenzione ed avendo cura di non mettere i piedi nel centro dei pioli posizionandoli il più possibile vicino all’estremità degli stessi, pian piano raggiungo l’accesso superiore quel tanto che mi basta per sollevare la botola e guardare cosa c’è oltre. Come mi aspettavo non trovo granché; avverto solo il battere di ali di un uccello che vi dimorava e che disturbato dal mio arrivo è volato via impaurito.

Cerco di capire se il piano di calpestio è abbastanza solido da sostenere il mio peso ma l’unico modo per verificarlo purtroppo è salirci su. So che sto rischiando parecchio ma la mia incoscienza, come spesso accade, mi porta a minimizzare il rischio e mi porta a proseguire.

Con movimenti lenti e ponderati sono all’interno della soffitta e dopo qualche passo raggiungo il terrazzo da cui godo di un’ampia vista che mi permette di vedere il paese lì di fronte a me a pochissimi chilometri con la campagna circostante che fa da contorno.

Vedo molto chiara la cupola ricoperta con maioliche verdi che copre l’abside della cattedrale di Bitetto e il campanile che svetta in alto sul suo lato destro.

Non riesco a vedere il Palazzo Vescovile, quello che secondo i miei calcoli rappresenta l’origine della mia elicoide circolare, in quanto più basso della cupola, ma so che è lì davanti a me. È importante individuarlo perché rappresenta l’origine cioè di una sequenza ordinata di dislocazioni di edifici di culto (piccoli o grandi che siano) di cui alcuni dei quali sicuramente si sono perse le tracce nel tempo.

Con un po’ di fortuna e sapendo interpretare alcuni riferimenti che comunque sono presenti sul territorio, sono convinto di potere trovare traccia di questi manufatti.

Riconosco che in questo momento mi sarebbe stato di grande aiuto avere a disposizione un drone dotato di telecamere che mi avrebbe permesso di effettuare una ricognizione a “volo d’angelo” cercando così di seguire la traiettoria elicoidale ricostruita sulla mappa. Purtroppo, è una metodologia applicativa di recente impiego e molto costosa non alla portata delle mie tasche.

Ricordo che l’altra sera, durante la cena con i nuovi amici locali, uno di loro, Giandomenico, in più occasioni ha fatto riferimento a delle riprese fotografiche che aveva fatto con un drone altamente professionale che aveva recentemente acquistato per motivi di lavoro. Rimasi talmente affascinato da questa sua esperienza da portarmi a riflettere su quanto la tecnologia consenta di fare rispetto a pochi anni fa e, mentre sono assorto da questi pensieri, volgo lo sguardo verso ore due rispetto alla cupola poco più verso destra rispetto alla posizione in cui mi trovo.

Noto così a circa duecento metri dalla mia postazione una radura tra gli alberi d’ulivo che in questa area geografica predominano rispetto ad altre specie arboree. Ciò mi suggerisce che in quel punto ci dovrebbe essere qualche manufatto seppur di modeste dimensioni, forse un trullo, ed una piccola aia nelle sue immediate vicinanze.

Il trullo, tipica edilizia contadina della zona, nasce per emergenze lavorative in quanto costituiva un luogo di riparo soprattutto dal sole estivo o come piccolo deposito temporaneo.

Per i coloni risultava molto agevole realizzarlo grazie alla facile reperibilità della materia prima, cioè la pietra di cui è ricco il terreno circostante, essendo essa peraltro facilmente lavorabile e molto disponibile nei dintorni.

Sono fortunato perché in questo punto ho una buona ricezione telefonica per cui geolocalizzo la mia posizione e cerco di individuare la radura su Google maps.

Il grado di definizione però non è tale da permettere di capire cosa ci sia effettivamente in quel punto ma è utile per permettermi di giungervi agevolmente grazie alla presenza di un percorso “a spalla” che, partendo dalla strada provinciale, si articola tra gli alberi all’interno degli appezzamenti di terreno circostanti.

Riesco ad individuare sul posto l’imboccatura del percorso che avevo individuato e così parcheggio la mia auto in una piccola piazzuola lungo la strada nelle sue immediate vicinanze.

Assicuratomi che non sia di intralcio al transito veicolare, scendo dall’auto e con lo zaino in spalla mi muovo verso la mia meta notando subito che la viuzza di campagna non viene usata da un po’ di tempo per la presenza di erba verde e rigogliosa che sembra non essere mai stata calpestata da qualcuno.

Noto però due solchi paralleli ed abbastanza profondi distanti tra loro all’incirca un metro quaranta centimetri.

D’un tratto la mia mente torna indietro nel tempo e mi porta al mio paese natio dove vi era un artigiano locale che appunto costruiva questi carri agricoli molto simili ai più famosi carretti siciliani il cosiddetto “traino”. Mi ritornano i momenti in cui costui con l’impiego del fuoco, arcuava il legno ottenendo così i vari componenti di grandi ruote circolari uniti tra loro da un grande cerchio di ferro. Sento ancora nelle mie orecchie il rumore che proveniva dalla bottega del fabbro quando l’artigiano lo modellava con tanta maestria aiutandosi con tenaci colpi di martello su questa fascia di metallo incandescente usando come contraccolpo una grossa incudine che dominava nella sua bottega.  Man mano si arcuava fino a raggiungere la forma di un cerchio perfetto con tale precisione e maestria da sembrare un novello Giotto.

Pian piano il carro, quindi, assumeva la sua forma e non nascondo la gioia che provavo quando giungeva il momento del completamento delle decorazioni colorate che sempre lo stesso artigiano vi disegnava usando solo e sempre gli stessi colori di vernice di cui sento ancora gli odori: giallo, blu, rosso e verde.

Accompagnato da questi ricordi del passato, mii incammino per questa viuzza ed ho l’impressione di camminare su un materasso ad acqua per quanto è soffice quell’erba che la ricopre e che inizia ad impreziosirsi con qualche fiorellino arancione o giallo. In alcuni tratti non esposti al sole è ancora umida e noto che la punta delle mie scarpe sta iniziando a bagnarsi ma la cosa non mi preoccupa più di tanto, anzi avverto un certo piacere in quanto così sento il contatto con la terra.

Sono a pochi passi dal luogo che avevo visto dall’alto del carrubo, ma la vegetazione è così fitta da non riuscire a distinguere alcuna radura o piazzale.

La vegetazione sembrerebbe essere stata lasciata crescere liberamente ed indisturbata per diverso tempo tanto che alcune piante spontanee come rovi e piante di lentisco ormai hanno coperto per intero il terreno vegetale sottostante crescendo fitte e rigogliose.

Ad un certo punto trovo dinanzi a me addirittura una vera e propria barriera di verde che mi porta a deviare il percorso che avevo intenzione di seguire; sono costretto a fermarmi per un po’ ma la cosa non mi stupisce perché sento di essere arrivato alla meta e di esserci molto vicino. Cerco quindi di aggirare l’ostacolo verso sinistra ossia verso Ovest, là dove tramonta il sole, che è la direzione geografica in cui la vegetazione inizia a non trovare le condizioni climatiche ideali per crescere più rigogliosa.

Infatti, se come ho intuito questa barriera davanti a me non è altro che la parete di una costruzione su cui è cresciuta quest’edera così verde, dovrei prima o poi vedere lo spigolo terminale di tale parete che dovrebbe probabilmente proseguire ortogonalmente a quello che ora ho di fronte.

Dopo pochi passi ho la conferma di quanto ipotizzato e così proseguo il mio cammino un po’ intralciato dal terreno soffice ed umido cercando di costeggiare la costruzione fino a raggiungere l’estremità opposta.

Giungo così sul fronte principale, quello esposto a sud e così finalmente mi trovo su una piccola area non alberata ma infestata da vegetazione spontanea che pian piano si è impossessata di ogni spazio libero. Di fronte a me si staglia un piccolo edificio in pietra di manifattura semplice e lineare nei contorni e nelle aperture, poche ed essenziali, presenti solo sulla facciata principale. Ha un unico livello fuori terra, composto da tre vani comunicanti l’uno con l’altro che si affacciano tutti sul piazzale antistante dove mi trovo in questo momento. Solo quello centrale presenta una apertura ampia che consente l’accesso al suo interno anche con qualcosa di più ingombrante come un carro. Gli altri due invece sono dotati di piccole finestre quadrate prive di infisso e rifinite con una semplice modanatura di pietra squadrata. Non vi è più traccia del pavimento interno sicuramente portato via da spregiudicati predatori dell’edilizia rurale cosa molto frequente da queste parti.

Gente senza scrupoli che asporta pezzi di pietra lavorata per poterli rivendere a chi ne fa incetta per impreziosire le proprie ville o abitazioni.

Mentre prendo dal mio zaino la torcia elettrica muovo un po’ di foglie secche e degli arbusti con l’intento di allontanare qualche animale selvatico o serpente che ha stabilito la sua dimora all’interno di questi ambienti o si nasconde tra l’erba alta.

Decido quindi di entrare e come mi aspettavo anche l’interno si presenta povero di dettagli e con un’architettura molto povera e semplice che oggi verrebbe etichettata come architettura essenziale.

Percorrendo gli interni, mi sento un po’ disorientato in quanto avverto una certa dissonanza tra le informazioni che il mio intuito professionale ha registrato nella mente mentre giravo intorno all’edificio e quello che invece riscontro all’interno. Avverto qualcosa che non collima in quanto l’edificio visto dall’interno sembrerebbe avere un’impronta a forma rettangolare. Ripercorrendo invece con la mente il percorso lungo tutto il perimetro esterno, mi è sembrato che la parte a Nord sia più lunga e continua rispetto a quella posta a sud che invece presenta peraltro una discontinuità. Infatti, verso l’estremità opposta rispetto a quella da cui sono arrivato vi è una rientranza di alcuni metri, mentre la facciata che prospetta sul piazzale è continua e priva di discontinuità di sorta.

Esco all’aperto e guardando più attentamente la facciata di fronte a me noto che il lato verso Ovest, nel tratto terminale e per una lunghezza di circa cinque metri, ha un’altezza esterna minore rispetto al resto dell’edificio.

Altro elemento che non avevo notato prima è la presenza di ammorsature lunga la parete Sud, segno evidente di discontinuità strutturale nel corpo di fabbrica e quindi sinonimo di edificazione delle due parti in tempi ed eventualmente metodologie diverse.

Ora non vi è alcun dubbio: quello che a prima vista sembrava il corpo principale, quello più lungo e più alto, è in realtà un corpo aggiunto, ossia aggregato a quello di dimensioni minori che quasi per certo è stato realizzato in epoca precedente rispetto all’altro.

Guardando con più attenzione i due paramenti murari esterni, si nota sul corpo più basso e più piccolo una leggera differenza dall’altro nella tessitura dei conci di pietra oltre che una finitura migliore della facciata. Ora ho elementi sufficienti per confermare la mia teoria: i due corpi di fabbrica sono stati realizzati in epoche e momenti diversi e quello più basso e più piccolo in pietra è il più antico.

L’aspetto curioso e singolare è che non ho trovato alcun collegamento interno tra i due volumi; sembrerebbe che il più antico sia stato completamente reso inaccessibile non trovando nel prospetto tracce di alcuna apertura, ma tutto ciò è del tutto incomprensibile oltre che alquanto insolito. Infatti, la dimensione, lo spazio degli ambienti interni è minore rispetto alla corrispondente dimensione valutata all’esterno.

 Deve senz’altro esserci un’altra spiegazione, né tanto meno mi riesce facile pensare che potrebbero essere nati in passato problemi legati alla sua stabilità, perché altrimenti oggi, dopo anni di abbandono, sicuramente sarebbe già crollato. Invece, visto dall’esterno, sembra in ottimo stato di conservazione e privo di lesioni o cedimenti strutturali pur se dovuti al deterioramento del materiale impiegato per la sua edificazione.

Convintomi di ciò, decido di ispezionare in maniera più approfondita la parete a Sud che inizialmente mi era apparsa una barriera verde invalicabile. L’assenza di manutenzione e l’abbandono protratto nel tempo ha fatto in modo che l’edera ed altre vegetazioni spontanee la coprissero per intero ed in maniera talmente fitta da non lasciare intravedere la benché minima traccia di ciò che si trova oltre.

Concentro quindi la mia attenzione su questa parete di verde e, mentre cerco di muovere qualche ramo, sento dei rumori di foglie mosse. Guardo istintivamente verso il basso ed avverto qualcosa che mi sguscia tra i piedi e fugge via senza che abbia il tempo sufficiente per capire di cosa si tratti.

Ho solo la possibilità di vedere, ma è questione di un attimo, una coda nera e folta tendente al marrone scuro di un piccolo animale, forse una donnola; certamente non si tratta di un topolino di campagna.

La mia presenza avrà impaurito questo animale costringendolo ad andare via lasciando in fretta il rifugio che si era creato o forse era semplicemente di passaggio ed i nostri percorsi si sono casualmente incrociati spingendolo a fuggire via.

Mi concentro sulla mia ispezione perché sono convinto che troverò la risposta a quello che per ora mi sembra solo una congettura e cerco di circoscrivere meglio il mio punto di indagine. Penso alla presenza di un’apertura sulla parete che ipotizzo posta al centro di quella che avrebbe dovuto essere la facciata del manufatto più antico.

Mi pongo quindi a circa due metri e mezzo dello spigolo destro ed inizio a rimuovere in maniera più radicale un po’ di vegetazione operando all’incirca all’altezza di due metri dal terreno. Preferisco non iniziare dalla base perché qualcuno avrebbe potuto pensare di murare parzialmente questa apertura trasformandola in finestra e quindi potrei non trovare alcuna apertura in quella zona. Ovviamente se questo qualcuno avesse pensato malauguratamente di murarla del tutto dovrei liberare per intero la facciata dalle erbe infestanti per trovare traccia di questo intervento.

Mi auguro però che ciò non si verifichi in quanto non avrei il tempo per farlo e forse neanche la voglia almeno in questo momento.

Per fortuna le cose non stanno così male in quanto dopo i primi diradamenti della vegetazione, ho la riprova che oltre la barriera di verde non vi è alcuna traccia di muratura e quindi dovrei avere individuato l’apertura, forse l’unica esistente, di questo piccolo vano.

Mi creo così abbastanza spazio per poter fare capolino attraverso il varco creato e grazie all’uso della torcia elettrica riesco ad ispezionare l’interno di questo volume edificato che al momento non saprei come catalogare né definire in funzione del suo utilizzo e funzione.

Certamente una certa idea me la sto facendo, ma non me la sento al momento di azzardare ipotesi fantasiose.

Per esserne certo avrei bisogno di acquisire ulteriori informazioni, per cui continuo a diradare le foglie fino a crearmi un varco per accedere comodamente all’interno. Dopo quasi quindici minuti ho raggiunto il mio obiettivo ma, prima di entrare, cerco di assicurarmi che i rami rimossi al di là dell’altezza della mia testa siano ben sistemati e non ricadano su di me dopo essere entrato impedendomi così di uscire agevolmente. Mi seccherebbe, nella posizione in cui mi trovo, chiedere aiuto a qualcuno perché spiegare cosa ci faccia in questo luogo ed in questo momento non sono in grado di inventarmi alcuna spiegazione plausibile. Durante questa operazione definiamola di “messa in sicurezza” del varco che mi sono creato noto che il vano porta visto dall’esterno ha una raffinata riquadratura in pietra calcarea con l’architrave sormontato da una finitura in rilievo sagomata a torello interrotto al centro con il concio di chiave su cui è riportata in bassorilievo una colomba con un ramoscello d’ulivo nel becco. Alle due estremità dell’architrave quelle che poggiano sugli stipiti anch’essi di pietra e con la stessa finitura per ciascuna estremità è incisa una croce trilobata. Il lobo posto alla base della croce è stato maldestramente rimosso. Questa vista mi fa trasecolare con grande stupore: sta accadendo ciò che non mi sarei mai aspettato ma che forse inconsciamente desideravo. Sto avendo cioè il riscontro concreto di un’idea strampalata che mi era passata per la mente ed a cui fondamentalmente non credevo più di tanto e che obiettivamente era convinto mi avrebbe portato da nessuna parte.

Invece no!

Il percorso ideale che ho tracciato sulla cartina che assume un andamento a forma di spirale e che fissa i punti che individuano la posizione di luoghi di culto ha ora un suo riscontro oggettivo ed inconfutabile sul territorio.

Certo non riesco a capire il senso di tutto ciò né l’utilità o lo scopo e non credo che con le mie scarse conoscenze della materia riuscirei a trovare una risposta, cosa che invece diventa prerogativa di studiosi di storia come il mio amico Ettore.

Sono però ormai sicuro che se riesco a riportare sul suolo il tracciato di questa curva sicuramente potrei trovare altri riscontri simili così come sono convinto ormai che la casa di Beatrice si trovi lungo questo tracciato coincida con uno dei vertici di questa poligonale.

Appagato da tutto ciò mi preparo a varcare la soglia di questo luogo che sicuramente non vede la presenza umana da un bel po’ di tempo e così, spinto da una carica emotiva tale da non pensare minimamente al potenziale pericolo che potrei incontrare, quasi con autorevolezza, anzi direi insano accesso di autostima, compio il passo decisivo che mi consente di trovarmi in un attimo all’interno.

Il modificare alcuni equilibri statici all’interno del manufatto, quali spostare un oggetto o urtare una parete senza volerlo potrebbe rompere un equilibrio precario che si è innescato in questi anni. Ciò potrebbe mettere in atto un processo improvviso, inarrestabile e imponderabile per entità ed area di applicazione che potrebbe portare a improvvisi crolli anche globali con conseguenze disastrose anche per la vita di chi si trova all’interno o in prossimità dello stesso.

Infatti, l’ipotesi più nefasta ma comunque per nulla improbabile sarebbe quello di un crollo totale della volta e delle murature che la reggono e l’epilogo di tutto ciò sarebbe il trovarmi sotto e fare la fine del classico “sorcio” caduto in trappola mentre tenta di portare via il pezzo di formaggio messo nella trappola come esca.

La triste fine di questo sfortunato topolino, che potrei essere io in questo specifico caso, è stata già scritta: la morte!

Non sono molto legato alla vita visto il mio stato di uomo solo con nessuno che potrebbe piangere sulla sua tomba ma sento che non è ancora arrivato il mio momento né voglio per questo anticipare gli eventi solo a causa della mia avventatezza e mancanza di precauzioni,

Spinto da questi sani principi di attaccamento alla vita che in qualche modo frenano la mia impulsività dettata dalla curiosità quasi maniacale che poi porta ad essere più vulnerabili, resto fermo sull’uscio della porta e faccio capolino all’interno illuminando il locale puntando il fascio di luce verso l’alto.

La copertura è composta da una volta a crociera realizzata con conci di pietra ben squadrati che risultano tutti integri con la tessitura priva di discontinuità.

Scendendo con il fascio luminoso lungo le pareti verifico che anch’esse sono integre e prive di fessurazioni o lesioni di qualche concio murario né si notano distacchi dei giunti di malta.

La mia esperienza, mi fa ritenere il manufatto in buone condizioni statiche tanto da rassicurarmi e darmi conferma di potermi muovere con minore circospezione e maggiore libertà di movimento senza innescare problemi di stabilità strutturale all’edificio.

Mi incuriosisce un po’ la presenza di fuliggine in un angolo del vano che si propaga sin sulla volta soprastante, segno evidente che qualcuno abbia acceso un fuoco per bruciarvi qualcosa come comprovato dalla presenza di tracce di cenere sul pavimento.

Sono tracce remote che però sono ancora integre tanto da far pensare che si sia tentato di bruciare di indumenti o comunque qualche pezzo di stoffa come risulterebbe da un piccolo residuo rimasto coperto sotto la cenere e caratterizzato da una trama molto larga dei filamenti che fa pensare ad un sacco o qualcosa di simile.

Sulla mia sinistra ci sono alcune nicchie nonché le tracce di un piccolo altare in pietra che doveva costituire un corpo unico con la parete a cui era addossato. A pavimento vi è ancora qualche pezzo di pietra di appoggio del piano dell’altare che sarà stato asportato e trafugato dopo l’abbandono di questo luogo.

Stessa sorte sarà toccata al pavimento che si presenta in terra più o meno compatta ma con tracce della preesistenza di basale in pietra. Sicuramente all’origine era un manufatto con un buon livello di finitura che avrà avuto anche una certa importanza.

Guardo con attenzione in prossimità della zona dove originariamente era posizionata la base dell’altare e noto della terra rimossa da poco.

Scartando subito l’intervento umano in tutto questo di qualcuno in quanto il locale non risulta accessibile da nessuna parte oltre il varco che mi sono aperto poco prima, penso subito all’opera dell’animaletto che è fuggito via poco prima. Magari stava cercando qualcosa o forse stava tentando di scavare una buca per riporre qualche preda che era riuscita a catturare e conservarla per i periodi di magra come spesso fanno gli animali predatori.

Puntando la torcia in direzione dello scavo allontano il terreno appena rimosso quel tanto che basta per far emergere qualcosa di raccapricciante che mi lascia inorridito.

È l’alluce di un piede umano che sporge dal terreno quasi come il germoglio di una pianta che sta crescendo facendosi strada verso l’alto ed iniziare il suo ciclo vitale.

Con molta attenzione prendo dallo zaino la piccola paletta che in genere porto con me per raccogliere campioni di terreno e comincio a spostare quello intorno a questo macabro ritrovamento. Pian piano emerge per intero il primo dito di un piede destro che si presenta integro in tutta la sua consistenza ossea.

Non mi sarei mai aspettato di trovarmi di fronte a qualcosa del genere anche se in passato ho spesso fantasticato su ipotetici ritrovamenti, ma come spesso accade la differenza tra fantasia e realtà è davvero tanta e l’impatto sul mio stato emotivo è veramente forte.

Superato questo primo momento, il mio raziocinio prevale sull’emozione portandomi a riflettere sul da farsi; il fascino della scoperta mi spingerebbe a proseguire lo scavo e vedere cosa ci sia sotto il terreno, ma sono preoccupato un po’ per il poi, cioè sul come gestire gli eventi e come giustificare ad altri la mia presenza qui in questo luogo sperduto. Soprattutto non saprei come spiegare la totale assenza di un mio coinvolgimento diretto in quello che potrebbe emergere dalle indagini.

Spesso, infatti, mi sono trovato in situazioni in cui mi sono visto puntare contro il dito accusatore da parte degli inquirenti a volte non molto professionali in quanto si sono basati solo su congetture per accusarmi ingiustamente.

Di contro non posso correre via e abbandonare tutto alla mercé di animali selvatici; quindi, penso che quanto meno dovrò ricoprire il tutto e magari cercare di dimenticare l’accaduto. Così facendo però non consentirei a nessuno di capire cosa sia successo aspettando che più in là nel tempo, magari dopo anni, qualcuno faccia la mia stessa scoperta.

Però il mio intuito mi porta a pensare che qui sotto ci sia un intero scheletro, ossia resti di qualcuno vissuto diversi anni fa che forse possa avere qualche nesso con questa misteriosa spirale.

Convinto quindi della inutilità di proseguire con lo scavo in quanto servirebbe solo a placare la mia eccessiva quanto sciocca, soprattutto ora, curiosità, devo organizzare le cose affinché questa mia scoperta diventi di dominio pubblico. Devo fare in modo che accada in modo casuale e soprattutto senza un mio coinvolgimento diretto. D’altronde questo è un tipo di pubblicità che non mi interessa avere.

In questo momento Antonio mi sarebbe di grandissimo aiuto, ma purtroppo questo mio benedetto amico mi rende la vita sempre più complicata e devo vedermela da solo.

Sorridendo tra me e me per la considerazione fatta su Antonio, chiudo ben bene la buca interrando accuratamente la parte del piede che avevo portato alla luce e con un ramo di ulivo che ho raccolto fuori dalla chiesetta sconsacrata spolvero il terreno che ho calpestato cancellando le tracce della mia presenza all’interno. Mi auguro però che l’animaletto fuggito via si sia talmente spaventato da non ritornare più in questo luogo e riprendere la ricerca delle ossa modificando irrimediabilmente lo stato in cui si trova lo scheletro in questo momento.

Procedo con passo sostenuto e camminando sui sassi frammisti al terreno vegetale cerco di evitare di lasciare segni evidenti del mio passaggio anche nelle vicinanze. In breve giungo all’auto ed accertatomi che non vi sia nessuno, cosa molto probabile visto l’avvicinarsi dell’imbrunire, salgo in macchina e mi allontano subito. Sono talmente assorto dai miei pensieri che non ricordo verso quale direzione stia procedendo, ma la cosa non mi preoccupa più di tanto perché so di trovarmi nei pressi di Bari per cui non appena giunto al primo centro abitato ed orientatomi mi dirigerò verso casa, meta mai così ambita e desiderata come in questo momento! Ovviamente sono talmente preso che non penso minimamente di ricorrere all’uso del navigatore dell’auto e mi affido al mio innato senso dell’orientamento come faccio di frequente.

Dopo circa trenta minuti arrivo nel mio accogliente appartamentino, mi infilo subito sotto la doccia sperando di togliermi di dosso qualsiasi traccia, pure invisibile, di questa ultima esperienza: un odore, un granello di terreno, una foglia, ossia qualsiasi cosa mi possa ricondurre a quel luogo. Sono convinto però che non basteranno tutte le docce della mia vita per cancellare ciò che è rimasto impresso nel mio intimo.

Pian piano inizio a pormi il dilemma di come fare intervenire le forze dell’ordine senza che emerga il mio nome. Sono convinto di non essere credibile se spiegassi il perché del mio interesse a quei luoghi in cui sono arrivato ascoltando i discorsi di Nunziatina o i sogni di Beatrice in cui dialoga con il fantasma di Angela.

Qualunque modo utilizzi per comunicare con i carabinieri dei luoghi sarei rintracciabile a meno di ricorrere ad una lettera anonima, ma è un sistema che detesto e poi non so fino a che punto possa essere presa in considerazione.

Anche l’idea di far transitare la notizia tramite Edoardo, l’amico giornalista che lavora presso il quotidiano locale, non mi sembra precorribile, perché potendo anche non trattarsi di una morte naturale e quindi il ritrovamento potrebbe dare il via ad un’inchiesta e non so fino a che punto Edoardo possa fare ricorso al segreto professionale per non rivelare la sua fonte di informazioni.

La mia mente non è libera e non sono in grado di valutare con serenità il da farsi, per cui credo proprio che dovrò staccare un po’ la spina e concedermi una pausa.

Sarà un po’ presto ma credo proprio che me ne andrò a letto, cosa che faccio dopo aver bevuto una bella tazza di tè caldo accompagnato da due biscotti che ho comprato in un panificio di Bitetto qualche giorno prima e che ho trovato ottimi quasi come quelli che preparava mia nonna.

CAPITOLO 7

Il mattino seguente mi sveglio abbastanza presto e mi sento alquanto riposato e pronto per recarmi in ufficio.

Sto per iniziare la mia consueta operazione giornaliera ma sento venirmi in mente la soluzione al problema che mi attanaglia dalla sera precedente: ora so come agire per far emergere il caso senza comparire in prima persona o magari per nulla proprio.

Verso le undici vado in ufficio e, approfittando della pausa caffè, chiamo il prof. Ettore, dei Beni Artistici e Architettonici e dopo le convenevoli frasi di saluto vado subito al dunque proponendogli di pranzare insieme visto che entrambi cessiamo di lavorare alle ore quattordici.

Ettore, vecchio lupo solitario come me, forse non aspetta altro, tanto è vero che non si fa ripetere due volte l’invito, anzi mi incalza subito per chiedermi dove incontrarci. È tanto entusiasta della mia proposta che mi propone di andarci con la sua vecchia auto, un po’ scomoda ma alquanto sicura e quindi si offre per venirmi a prendere dal mio ufficio intorno alle 14:00.

Sorrido pensando a cosa stia passando per la sua mente e ricordo l’ultima volta che l’ho scorrazzato con la mia spider decappottabile per le vie della città, esperienza non molto divertente per lui.

Alle quattordici in punto sono giù per strada all’angolo dell’edificio in cui si trova il mio ufficio, mentre aspetto il mio ospite che non tarda ad arrivare a bordo della sua vecchia Fiat 132 di colore blu notte.

È un’auto che ai suoi anni era il top della casa automobilistica torinese; ora sembra un giocattolino che comunque conserva ancora la sua eleganza e signorilità.

Ettore con il suo aspetto ed il particolare colore e taglio di capelli sono in perfetta sintonia con l’auto; sembra di recitare alla scena di un film ambientato negli anni Settanta con l’auto che traballa quasi non regga il minimo mentre la marmitta scoppietta un po’.

Ci scambiamo un cenno di saluto e subito mi accomodo in auto ponendomi al suo fianco e non faccio in tempo a chiudere lo sportello che già il mio autista ingrana la marcia, parte facendo stridere gli pneumatici delle ruote posteriori, cosa non facile se non si conosce bene quel tipo di auto.

Lo indirizzo così verso il mio ristorante preferito, lì nei pressi del porticciolo di Palese, al cui gestore avevo preventivamente telefonato per prenotare due posti con vista sul mare, sapendo di fare presa sul mio ospite con questa mia scelta.

Ettore è un gran oratore avendone di cose da raccontare ed a me, soprattutto in questa occasione, fa tremendamente piacere stare ad ascoltarlo parlare di qualsiasi cosa voglia parlare così riesco a tenere per ora lontana la sua attenzione dal motivo per cui l’ho invitato. Verso la fine del pranzo, dopo aver gustato il prelibato “crudo di mare” specialità barese ed aver sorseggiato i primi calici di vino bello fresco avverto che Ettore abbia mangiato la classica foglia.

Diciamo che le mie previsioni sono state quasi centrate, perché Ettore, dopo aver soddisfatto la sua voluttà mangereccia con un sublime piatto di linguine allo scoglio, sorseggia un po’ di vino e dopo aver emesso un piccolo rumorino con la bocca, stando a significare che sta gradendo il tutto, sposta l’asticella dell’attenzione su di me. Mi chiede senza mezze misure appunto il perché di questo mio invito, augurandosi che non sia l’ultimo e che ce ne possa essere un altro quanto prima, mostrando così il suo livello di gradimento.

Colgo il messaggio con un sorriso assentendo e subito inizio il mio racconto parlandogli dell’intuito avuto nell’aver collegato con un tratto di matita le diverse postazioni dei luoghi di culto individuati sulla mappa che lui stesso mi aveva inviato.

Gli fornisco così tutti i dettagli della mia escursione di ieri pomeriggio, riservandomi per ora di non parlargli dello scheletro. Vorrei fargli metabolizzare quanto ha ascoltato sinora e sentire la sua opinione in merito e magari tenerlo ancora un po’ sulle spine sul resto del racconto.

Bastano pochi attimi di silenzio perché subito riprende la parola per congratularsi con me per l’intuito avuto confermando che in moltissimi casi le scoperte o le interpretazioni di iscrizioni, mappe o documenti avvengono per puro caso o grazie all’intuito di chi le sta esaminando. Si azzardano delle ipotesi ed il più delle volte si prendono delle cantonate anche abbastanza grandi come un grattacielo, ma quando però hai fatto centro, come si suol dire, “fai il botto” allora susciti interesse, fai notizia e sali cioè alla ribalta della notorietà.

Ettore mi confida che, in merito all’argomento edilizia religiosa rurale ossia quella disseminata sul territorio non abitato, ha sempre voluto vedere un denominatore comune che ha condizionato le scelte ubicazionali. Ovviamente sino ad ora non era riuscito a trovare alcun nesso arrivando alla conclusione che tutto è dovuto alle condizioni orografiche dei luoghi. Certo bisognerebbe proprio capire se in questa mia conclusione sia una casualità presente solo in questa area geografica o se invece vi sia alla base una strategia, un’idea preordinata che è presente in altre zone. In tal caso sarebbe utile capire quale sia e soprattutto sarebbe una scoperta sensazionale.

Di certo, secondo Ettore, il simbolo della spirale ha un significato esoterico di varia interpretazione impiegato nelle religioni tra cui anche quelle nordeuropee ed è possibile ritrovarla anche in alcune decorazioni di elementi di arte funeraria nel cristianesimo anche se non è un simbolo specifico della religione cristiana.

Avendo intuito che io abbia ancora altro da dire, mi invita a farlo senza mezzi termini in quanto è sicuro che ho in serbo per lui qualche altra sorpresa ben più importante.

Secondo la sua accentuata perspicacia, in quanto profondo conoscitore del comportamento umano, ciò che gli ho sinora riferito, per quanto interessante possa essere, secondo lui non è tale da giustificare un invito inaspettato a pranzo.

Ormai scoperto mi vergogno un po’ del mio stratagemma e, cercando di nascondere il più possibile un piccolo rossore che ha colorato le mie gote, sorrido un po’ lasciando passare il suo come un compiacimento nei miei confronti. Prima di aggiungere il resto della mia scoperta faccio una piccola pausa e trattengo un attimo il respiro, come chi sta per tuffarsi per una immersione in mare per una lunga apnea. Poi tutto d’un fiato e senza una benché minima pausa, gli raccontò il resto dell’avventura di ieri senza omettere alcun particolare o dettaglio o mie riflessioni.

Man mano che il mio racconto si avvicina al particolare del ritrovamento dei resti di un corpo umano vedo il suo volto cambiare espressione passando da quella giuliva di pochi minuti prima ad una sempre più attenta, direi quasi corrucciata.

È un po’ incuriosito ma soprattutto stranito dal mio ritrovamento ma poi il sentire di uno scheletro sepolto in questo modo e in ambienti del genere disposto in quella maniera lo fa quasi trasecolare.

In tanti altri scavi archeologici eseguiti nei pressi di manufatti religiosi non ha mai riscontrato nulla di simile per cui, così in prima battura, non avendo altri elementi, sarebbe portato ad affermare che la sepoltura di quella persona non ha nulla a che vedere con il culto che si professava in quella chiesetta rupestre. Quasi certamente il tutto è avvenuto quando l’immobile non assolveva al suo compito specifico e quindi una volta abbandonato è stato impropriamente adibito a luogo di sepoltura.

Fin qui per me è andata più che bene come narratore, ma ora viene la parte più difficile che sarebbe quella di fargli accettare l’idea di farsi carico della divulgazione della notizia con il vantaggio però di prendersi il merito della scoperta. In questo momento soprattutto non ho bisogno di notorietà anzi preferisco restare nell’anonimato soprattutto dopo il gran parlare che si è fatto di me pochi mesi fa per aver contribuito in maniera fattiva a stanare dei delinquenti che operavano le proprie malefatte sfruttando dei poveri senzatetto. I primi giorni addirittura c’erano titoli in prima pagina con il mio nome e la mia foto, tanto da essere costretto a chiudermi in casa e restavi rintanato per oltre una settimana per evitare di essere fermato da chiunque per strada.

Le argomentazioni opportunamente enfatizzate da me fanno leva sulla vanità di Ettore tanto da vincere ogni sua ritrosia ad assumersi la paternità di questo evento.

Chi più e meglio di lui, studioso di storia e di archeologia e quindi persona autorevole in tale campo, potrebbe dichiararsi senza ombra di dubbio l’autore di tale scoperta. Ma soprattutto l’esserne l’autore non solleverebbe alcun dubbio sull’autorevolezza del suo operato.

Mi guarda come se volesse mangiarmi con gli occhi, perché sente che ho fatto leva su alcuni suoi aspetti caratteriali che avrebbe voluto tenere nascosti, ma nello stesso tempo l’occasione che gli sto offrendo è molto ghiotta per lui. Con un guizzo luminoso negli occhi, come un gatto che ha puntato un prelibato topolino da catturare, accetta la mia proposta.

Sicuramente si è reso conto che con l’invito a pranzo gli ho preparato un piccolo tranello facendo leva sulla sua voglia di notorietà e voglia di protagonismo. Sono convinto che è orgoglioso del fatto che ha preferito lui ad altri nel proporgli questa occasione irripetibile. Si dice subito convinto che ci sia ancora molto da scoprire su questo caso per cui non aggiungendo altro, prende la giacca e mi invita ad andare via mentre si ferma alla cassa e mi impedisce, con molta energia, di pagare il conto cosa che avrei fatto molto volentieri.

Senza concedermi un attimo di tregua, mi chiede di condurmi sul luogo del ritrovamento dove, indicatogli il percorso da seguire, giungiamo dopo non più di trenta minuti.

Mentre ci incamminiamo verso la campagna bitettese chiama con il suo cellulare il suo superiore gerarchico per riferirgli della scoperta che ha fatto e che si riserva nei prossimi giorni di fargli un rapporto puntuale e dettagliato. Trattandosi del ritrovamento di resti umani di data non certa e forse anche di morte per cause non naturali, tutte cose ancora da approfondire, tanto che non è stata data una sepoltura adeguata, ritiene che ci siano le condizioni per allertare le forze dell’ordine prima di proseguire con scavi e rilievi specifici.

Il suo capo, meravigliato e nello stesso tempo compiaciuto di questa importante scoperta, esprime piena condivisione sull’impostazione che Ettore vuole dare alla vicenda e gli lascia piena libertà di azione.

Quel furbone del mio amico professore si sta giocando bene le sue carte avendo ottenuto la copertura della sua più alta figura istituzionale così evita che nelle eventuali indagini giudiziarie il suo nome corra il rischio di essere collegato ad eventuali azioni criminose di cui potrebbe emergerne la natura.

Siamo quasi arrivati e così gli propongo di parcheggiare l’auto nello stesso punto in cui l’ho fatto io in precedenza, cosa che fa senza battere ciglio. Mentre stiamo per addentrarci nella campagna e percorrere le ultime centinaia di metri che ci separano dal luogo dei misteri, lo trattengo un po’ per strappargli la promessa di garantirmi il coinvolgimento pieno in tutta la vicenda ma sempre facendo in modo che almeno per ora il mio nome resti nell’anonimato. In più ottengo anche il suo impegno a garantire l’esclusiva della divulgazione della notizia in favore del mio amico giornalista Edoardo.

Ormai è talmente preso dalle novità che mi prometterebbe anche ciò che non potrebbe senza pensarci un attimo; infatti, accetta tutto senza condizione alcuna e mi spinge a proseguire di gran lena per giungere quanto prima sul posto.

Sembra ringiovanito di quasi vent’anni camminando con passo celere in un campo non compatto cosa che è ben noto quanto sia faticoso anche per le persone ben allenate, ma lui non ci ha fatto caso e si muove quasi stia volando sul terreno.

Ci stiamo avvicinando alla meta ed incomincia ad intravedersi la barriera di verde dinanzi a noi oltre cui c’è il manufatto dove a breve Ettore avrà modo di vedere con i suoi occhi di cosa si tratta.

Il breve tempo a disposizione prima che si lasci prendere completamente dagli eventi mi spinge a riferirgli un dettaglio interessante che avevo scoperto in mattinata facendo una ricerca telematica presso il catasto dei terreni.

Non so se si è trattato di casualità, ma alcuni dati raffrontati tra loro sono davvero singolari per non dire che mettono i brividi per la singolarità della conclusione a cui si perviene.

Il terreno sui cui insiste la costruzione che da domani sarà al centro dell’attenzione di molti, ricade sul foglio catastale n. 33 e riporta il numero 33333 e guarda caso poi questo immobile ricade sul vertice n. 3 della spirale che ho disegnato; di tutta questa sequela di cifre con il numero 3 la cosa che mi fa pensare è il collegamento alla spirale il cui simbolo esoterico è proprio il numero tre.

Risulta proprio difficile accettare tutto ciò come una semplice coincidenza o casualità, ma ormai non c’è più tempo per dilungarsi su questo argomento anche se credo di aver fatto nascere qualche riflessione in Ettore. Siamo arrivati.

Prima di entrare, descrivo ad Ettore ogni mio precedente movimento in modo che la sua esposizione dei fatti sia il più possibile attendibile e non presenti falle nel suo racconto.

Gli racconto persino l’episodio dell’animaletto fuggito tra i miei piedi mentre cercavo di aprirmi un varco attraverso la vegetazione. Gli mostro l’interno della chiesetta e il punto in cui ho trovato la buca, ora richiusa e nel frattempo mi rendo conto che Ettore sta assorbendo tutto come una spugna tanto da essere subito in grado di ripetere pedissequamente ogni cosa da me riferita. Persino il riferimento all’albero di carrubo aggiungendo, di suo al mio racconto, il particolare di quanto la sua radice in prossimità del tronco sia superficiale. Stranamente non gli ho raccontato di questo particolare che, seppur inventato da Ettore, risponde al vero, come se lui fosse già stato in quei luoghi.

Senza perdere ulteriore tempo ritorniamo sui nostri passi e risaliamo in macchina per recarci immediatamente presso la stazione dei Carabinieri di Bitetto.

In un batter d’occhi, seguendo le indicazioni stradali siamo arrivati e ci preoccupiamo subito di trovare un posto dove parcheggiare essendo consapevoli che dobbiamo fare abbastanza presto per non correre il rischio che non ci riceva nessuno visto l’orario inoltrato.

In questa occasione non siamo molto fortunati, per cui Ettore non ci pensa due volte e lanciandomi uno sguardo, si ferma per qualche secondo in doppia fila giusto il tempo di lasciare che mi metta alla guida, scendere dall’auto e recarsi da solo dai Carabinieri.

Mentre mi consegna le chiavi, mi chiede di parcheggiare dove possibile e di raggiungerlo, cosa che faccio in breve tempo visto che subito davanti a me una macchina andando via ha lasciato libero il suo posto.

Arrivato davanti al portone, trovo il piantone lì fuori come se mi stia aspettando e, dopo aver controllato le mie generalità, mi fa accomodare in sala di attesa dove trovo Ettore ansioso di essere ricevuto dal comandante.

Batte con frenesia i tacchi per terra e si strofina le mani come un innamorato al suo primo appuntamento e, dopo appena dieci minuti, il piantone ci introduce dal maresciallo ormai stanco per la faticosa giornata che ormai sta volgendo al termine, ma è comunque pronto per sentire la nostra storia.

Ci accoglie un uomo di circa quarant’anni tenuti abbastanza bene e con un portamento virile ben accentuato dalla sua divisa nera con bottoni dorati su cui è impressa la fiamma simbolo dell’Arma dei Carabinieri.

Dopo aver ascoltato le nostre generalità, Ettore, incalzato dal comandante, riporta con dovizia ogni dettaglio e senza concedersi una pausa, mentre il militare ascolta con molta attenzione senza scomporsi un attimo. Resta freddo ed irreprensibile, come se la cosa non lo riguardasse o non lo scalfisse minimamente.

Alla fine del racconto, chiama un subalterno per chiedergli di preparare subito l’auto di servizio e di premunirsi di torce elettriche dopo di che, mostrando molta professionalità, si alza in piedi e ci chiede di accompagnarlo sul luogo da noi indicato facendogli strada con la nostra auto. Ci chiede però la cortesia di portare con noi un suo sottoposto al fine di facilitarci l’uscita dal paese senza correre il rischio di essere fermati da qualcuno a causa di una serie di posti di blocco attivati per un’azione preventiva sul territorio.

La motivazione non mi convince molto e penso invece che voglia lasciare con noi qualcuno dei suoi che ci sorvegli o colga qualche nostra incertezza. Comunque sia, non abbiamo alternativa, dobbiamo assecondare le sue richieste e quindi rimetterci in macchina e ripartire in compagnia di un carabiniere che ovviamente siede davanti al fianco di Ettore mentre io prendo posto sul sedile posteriore.

Arriviamo sul posto che è già buio e concretizzo che mai la decisione del maresciallo di approvvigionarsi con torce elettriche sia stata così saggia ed opportuna.

Ci facciamo così strada attraverso la vegetazione che al buio sembra ancora più fitta e, non appena arrivati, per disposizioni del comandante, io, insieme al carabiniere che è venuto con noi in macchina, torniamo indietro per attenderli all’auto.

Il maresciallo, Ettore ed altri due carabinieri invece proseguono verso la chiesetta tanto che dopo qualche minuto sembrano essere stati inghiottiti dalle tenebre.

Passa all’incirca una mezz’ora ed inizio a sentire in lontananza il suono di alcune sirene; un suono che pian piano diventa sempre più forte significando che si stanno avvicinando a noi. Subito dopo al suono delle sirene si aggiunge la luce azzurra dei lampeggianti delle auto delle forze dell’ordine. Dopo qualche attimo ancora ne appaiono ben quattro di cui due provengono da una direzione e le altre da quella opposta.

Poco dopo giungono addirittura anche due blindati da cui scendono quattro uomini bardati di tutto punto per le rilevazioni scientifiche.

Il militare che è con me, forse già informato via telefono del loro arrivo, va loro incontro per indicare la strada da seguire e subito spariscono anche loro nel buio.

Passano ancora alcuni minuti e intravedo una luce tra la vegetazione che diventa sempre più intensa e nitida fino a lasciarmi intravedere la sagoma di due persone che si stanno avvicinando a noi.

È Ettore accompagnato da un carabiniere a cui il comandante ha chiesto di condurlo lontano dal luogo delle indagini dovendo procedere con tutti i necessari rilievi, operazioni a cui nessun civile può assistere, pur trattandosi di chi ha contribuito al ritrovamento.

Siamo stati infine costretti a ritornare in caserma, sempre accompagnati da un carabiniere, per la stesura del verbale cosa che, come temevamo, richiede un bel po’ di tempo nonostante i tentativi del piantone di renderci meno noiosa possibile la nostra attesa.

È quasi mezzanotte quando rientra il maresciallo piuttosto provato anche lui mentre si sforza di esibire un sorriso di cortesia augurandosi che la nostra attesa non sia stata molto tediosa. Precisando che si tratta di protocollo da seguire, ci promette che a breve, terminate le operazioni di rito che prevedono la stesura del verbale, saremo stati liberi di tornare a casa per riposare un po’ anche se, ci tiene a precisarlo, molto probabilmente il mattino seguente sarebbe stato necessario ritornare da lui per ulteriori approfondimenti.

Purtroppo, tale attività si è protratta per un bel po’ ed è indescrivibile la sensazione di sollievo che provo non appena usciti ed il pesante portone della caserma si chiude dietro di noi. Intorno a noi c’è un silenzio da far paura e guardo l’orologio rendendomi conto che sono l’una e trentacinque passate.

Ci scambiamo uno sguardo per prendere consapevolezza di quanto siamo provati e quanto lontano sia il ricordo del pranzetto del giorno che è appena passato. L’aspetto sconfortante è che a quest’ora non è possibile prendere neanche un panino o una bevanda calda perché non vi è un bar o una paninoteca aperti nel paese.

Mi viene in mente la pizzeria in cui ero stato giorni prima e propongo ad Ettore di passarci nel caso per un motivo qualunque sia ancora aperta, il nostro tentativo è vano: chiusa anche questa.

Non ci resta altro da fare che rientrare in città e magari sperare di trovare qualcosa per strada, altrimenti ognuno di noi dovrà accontentarsi di quello che ha in casa o andare direttamente a letto.

Alla fine, è ciò che decidiamo di fare perché corriamo il rischio di fare ancora più tardi e così intorno alle due e un quarto sono già sotto le coperte per cercare di trovare un po’ di riposo e, mentre penso alle poche parole che ci siamo detti con Ettore lungo il rientro, mi addormento.

CAPITOLO 8

Sono già sveglio quando, intorno alle sette e trenta, il segnale acustico di un messaggio giunto sul telefonino, richiama la mia attenzione. In realtà mi rendo conto che questo è l’ultimo di dieci messaggi ricevuti, uno ogni tre minuti ed il mittente, un numero sconosciuto, è sempre lo stesso, come pure il testo inviato: “Colazione al solito posto. Offro io. Sbrigati”.

Capisco subito che si tratta di Antonio che mi invita a raggiungerlo presso il bar che si trova giù nei pressi di casa mia. Un piccolo locale dove in compenso il cornetto ed il cappuccino non hanno uguali nella zona. Lo abbiamo consacrato come nostro luogo di incontro segreto per la serietà e discrezione del gestore nonché per le poche frequentazioni che ha soprattutto di mattina cioè quando ci andiamo noi.

Mi meraviglia l’insistenza di Antonio e poi così presto ed in maniera così atipica per le modalità di comunicazione ma so per certo che per comportarsi in questo modo avrà le sue ragioni.

Mi vesto in fretta, mi do una veloce rinfrescata e corro al bar dove lo trovo seduto in un angolo, il più isolato del locale, mentre finge di leggere il quotidiano locale. In realtà non sta leggendo ma non vuole che gli avventori possano guardarlo in viso per lungo tempo e memorizzare il suo aspetto anche se ovviamente la sua presenza non è per nulla sfuggita ai pochi frequentatori, soprattutto al gestore.

Mi chiedo da quanto tempo sia già lì e, prima di sedermi accanto a lui passo dal banco, ordino la colazione, prendo già due cornetti caldi appena sfornati e mi accomodo di fronte a lui in modo da celarlo alla vista di sguardi indiscreti.

Antonio mi accoglie con un mugugno lamentandosi del mio notevole ritardo e della mia proverbiale lentezza rimarcando che secondo lui, con l’età che avanza, purtroppo a questo mio difetto ormai congenito si sta aggiungendo anche a un po’ di pigrizia.

Lo guardo con la voglia di mandarlo a quel paese il che non gli permette di contenere la sua ilarità dandomi l’appellativo di tombarolo.

Ora mi è tutto chiaro; sa già del mio coinvolgimento nella storia del ritrovamento dello scheletro umano nelle campagne di Bitetto e conoscendomi vorrà sapere come sono andati veramente i fatti.

Non mi sorprende che sappia tutto e non gli nascondo che la cosa non mi dispiace affatto anzi ne sono estremamente felice perché, mai come in questo caso, quello che ho visto posso riferirlo solo a lui che mi conosce bene e che non può certamente darmi del visionario o millantatore.

Gli sorrido chiedendogli in tono semiserio di non scherzarci molto sopra dopo di che mi dedico alla mia colazione mai tanto desiderata dopo una sera senza cena e dopo avvenimenti così emotivamente forti.

Antonio mi guarda in paziente attesa aspettando che mi decida finalmente ad aprire il mio diario segreto e narrargli questa ultima mia avventura.

Ascolta con attenzione la mia versione non meravigliandosi affatto che sia proprio io l’autore di questa scoperta riconoscendo in me questa innata abilità di andare ad infilarmi in situazioni sempre più strane ed intricate.

Poi, con un fare direi quasi sommesso e senza enfasi, mi passa delle foto che aveva riposto accuratamene all’interno del giornale e mi chiede di guardarle attentamente perché così facendo avrei avuto coscienza e conoscenza dell’esatta entità di ciò che ho fatto emergere.

Si tratta solo di quattro foto stampate in formato 15×18 ovviamente molto nitide e ben esposte; la prima è una ripresa da lontano e sembra una croce trilobata ma avvicinando il punto di vista emerge il particolare che questa rappresentazione macabra è composta da scheletri umani. Ne conto tre: il primo è nella posizione classica con i piedi rivolti verso la base dell’altare rimosso; gli altri due sono disposti ortogonalmente al primo, uno di fronte all’altro con i bacini che aderiscono al primo corpo in corrispondenza del bacino dello stesso, tanto da formare una croce. Le gambe di questi ultimi due scheletri poggiano le une sul corpo dell’altro e sono leggermente divaricate quasi a voler contornare la zona pelvica del primo che giace sotto di loro.

Le braccia si protraggono verso questa zona dove è posta una lastra di argilla su cui è riportato in rilievo un elemento floreale, forse un girasole, emerge in maniera evidente la distribuzione a spirale dei petali.

La linea di contatto tra i diversi petali è ben marcata con un filamento di oro che pone in risalto l’andamento della spirale.

Le altre foto riportano dei particolari, quali appunto la tavoletta, un piccolo vaso di terracotta posto ai piedi del primo e la disposizione delle mani.

Secondo Antonio gli inquirenti ritengono che la sepoltura di queste persone sia avvenuta diversi anni fa, forse un centinaio, ma non oltre e comunque non contemporaneamente. La sepoltura delle due persone che giacciono sul primo è senz’altro più recente ed è stata eseguita successivamente alla prima. Le ulteriori analisi avrebbero permesso di essere più precisi e chiarito tanto altro come, per esempio, la causa probabile della morte. Difficilmente sarebbero stati in grado di dire qualcosa sulle modalità di esecuzione di tale sepoltura e del significato della particolare loro collocazione in quanto a loro questo è il primo caso del genere che si presenta.

Risposte che secondo Antonio potrei essere in grado di fornirgli io o quanto meno sarei capace di trovare essendo convinto che io mi trovi un passo in avanti rispetto alle indagini che sono appena iniziate. L’opinione che Antonio ha di me non può fare altro che lusingarmi, ma questa volta credo che abbia riposto molta fiducia nelle mie capacità e soprattutto nel mio intuito. Temo che la speranza che sia io a risolvere il caso questa volta resterà vana.

Infatti, come aveva detto Ettore, molte scoperte avvengono più per pura coincidenza o fortuna che per abilità e quindi non è detto che ciò accada sempre. L’abilità o l’intuito subentrano quando riesci a capire sin da subito l’opportunità che si sta presentando dinanzi a te ed allora devi essere pronto a coglierla.

Certo il ritrovamento di questa spirale tracciata sulla lastra di terracotta fornisce un nesso con il luogo in cui sono stati sepolti questi corpi, così come mi sento di affermare che le modalità operative che hanno portato a comporre i corpi fanno pensare all’opera di più persone. Certamente a capo di costoro c’è stata una mente dalla fantasia molto fervida ma molto complessa ed articolata che ha gestito e architettato tutto ciò. Sicuramente un abile manipolatore di persone che è riuscito a indurre i suoi simili a compiere tali azioni al di fuori della normalità.

Antonio condivide questa riflessione ed ammette di essere giunto alla stessa conclusione ipotizzando l’esistenza, almeno in passato, di organizzazioni di persone, una setta vera e propria, che tra le sue lugubri attività annoverava queste azioni. Il tutto infatti lascia pensare all’esito finale di un atto sacrificale.

Dopo questa interessante chiacchierata, saluto Antonio pregandolo di informarmi sulle eventuali novità che sicuramente ci saranno e, se potrà farlo, di farmi leggere una copia del fascicolo investigativo. Vado via decidendo di andare direttamente in ufficio senza ripassare da casa mentre sento di non potere proseguire da solo in questa indagine anche perché devo occuparmi di Beatrice e della sua misteriosa amica Nunziatina. Dovrò senz’altro coinvolgere Ettore ed Edoardo, essendo straconvinto che quest’ultimo non veda l’ora di partecipare con me a questa nuova avventura.

Per prima cosa quindi chiamo quest’ultimo anche se mi rendo conto che non sono ancora le otto ma non mi faccio tanti scrupoli e, non appena risponde, senza dargli il tempo neanche di salutarmi, gli parlo di questa strana avventura che mi è capitata omettendo i particolari che mi sono stati riferiti da Antonio.

Edoardo sale al settimo cielo non appena gli riferisco che ho strappato ad Ettore la promessa di lasciare a lui l’esclusiva della notizia e di tutto ciò che ne verrà fuori e come mi aspettavo si dichiara subito dentro a questa nuova esperienza.

Ci salutiamo con l’impegno di vederci nel pomeriggio e magari anche in compagnia di Ettore, nel caso sia disponibile per una breve chiacchierata utile per decidere quali azioni attuare.

Oggi vorrei tanto evitare di andare a lavoro perché vorrei restare concentrato sul da farsi, ma ho anche degli obblighi verso quei cittadini che aspettano delle risposte da me e non posso proprio permettere che ciò non accada.

Durante la mattinata, infatti, mi dedico completamente a loro come è giusto che sia e mi concedo solo una piccola pausa di circa quindici minuti per un caffè e per chiamare il professore.

Mi risponde dopo appena il terzo squillo ed è lì tutto pimpante e ringalluzzito tanto è vero che accetta di buon grado l’invito del pomeriggio chiedendomi però di passare da lui con il mio amico perché deve mostrarci qualcosa che sicuramente troveremo interessante.

Mancano alcuni minuti alle quattordici e già ricevo i primi solleciti telefonici da Edoardo che è giù che aspetta scalpitando come un puledro che vuole lanciarsi in corsa.

Il tempo di spegnere il computer e mettere un po’ di ordine sulla mia scrivania che sembra un campo di battaglia e lo raggiungo in strada dove ci salutiamo con una poderosa stretta di mano ed un abbraccio. Visto che la natura oggi ci offre una splendida giornata con le rondini festose nel cielo ed una leggera brezza marina che rende l’aria davvero piacevole, decidiamo di raggiungere il Castello Svevo a piedi. Tanto si tratta di camminare per non più di venti minuti ed un po’ di movimento certamente non fa male ad entrambi.

Camminando di buon passo, ma senza correre, siamo lì intorno alle 14:30, in perfetto orario, dove con grande sorpresa, troviamo nella hall dell’accettazione il nostro caro professore con in mano una chiavetta digitale pronto per offrirci un caffè al distributore automatico posto lì a disposizione di dipendenti e visitatori.

Accettiamo volentieri il suo invito anche perché a sentire lui il caffè servito da quella macchinetta si direbbe veramente buono, quasi speciale!

Questa piccola divagazione è l’occasione buona perché Ettore e Edoardo si conoscano e familiarizzano un po’ tra loro, cosa che avviene subito, tanto che basta poco perché scocchi la scintilla tra noi e ci troviamo a scherzare come tre amici che si conoscono da tempo.

Gustato il caffè vemente forte ed intenso, proprio come Ettore lo ha decantato, ci accomodiamo nel suo studio dove siamo finalmente soli e lontani da occhi ed orecchie indiscrete. Per precauzione il padrone di casa preferisce chiudere la porta a chiave e farci riporre i telefonini in un sacchetto di iuta che ripone in una madia posta sulla parete alle nostre spalle. Visto il nostro stupore per questa sua -forse- esagerata precauzione, rivela di essere convinto di essere spiato da qualcuno all’interno del suo ufficio e quindi vuole essere sicuro che nessuno possa ascoltarli e magari rubargli la scoperta appena fatta.

Già in passato era accaduto qualcosa del genere e precisamente quando era a due passi di rivelare una scoperta importante, almeno per il loro settore di interesse, ma in quell’occasione qualcuno lo ha anticipato facendogli rimediare la figura del secondo della classe.

Mentre parla, prende una grossa chiave di ferro ed apre una cassapanca che si torva nei pressi della sua poltrona e con molta cura ed attenzione estrae un pacco contenente qualcosa non ben definita avvolta più volte in un panno verde tipo quelli utilizzati per rivestire i tavoli da gioco.

Ne estrae il contenuto e lo pone con molta cura ed attenzione sulla scrivania su cui anticipatamente e con molta rapidità aveva provveduto a creare lo spazio sufficiente lasciando nelle immediate vicinanze solo una pinzetta per francobolli ed un potente lente di ingrandimento.

Sempre con gesti lenti e molto accurati tipici di una sua ritualità, comincia a liberare l’oggetto dall’involucro verde sino a che non si presenta alla nostra vista un vecchio tomo rilegato a mano con una pesante e spessa copertina di pelle quasi incartapecorita per la sua vetustà.

Sul fronte della copertina si legge una iscrizione a caratteri dorati che dovrebbe essere il titolo in latino dell’opera in esso riportata.

Richiamo alla mente la mia scarsa dimestichezza con questa lingua per cercare di tradurre la scritta, ma Ettore non mi lascia neanche il tempo di leggerla in maniera più approfondita visto che gira subito pagina quasi abbia timore che riesca a decifrarne il significato.

Continua così a sfogliare pagine su pagine, dopo di che si interrompe, poggia con fermezza la mano destra aperta quasi a voler battere sul libro e con voce autorevole dichiara che questo testo che sta studiando da anni sicuramente li aiuterà a capire cosa sia avvenuto in passato in quella sperduta chiesetta di campagna.

Senza aggiungere altro, si porta a pagina 33 del libro dove si parla dell’impiego del simbolo della spirale nella religione cristiana. Si legge che la natura umana per la sua necessità di certezze e verità, soprattutto agli albori del cristianesimo, cercava nei simboli di altre religioni pagane la presenza di Dio. Il più delle volte chi predicava il Verbo di Cristo, laddove persisteva già una religione diversa, per una divulgazione del Cristianesimo più efficace ed incisiva faceva propri alcuni dei simboli più utilizzati e li adattava agli insegnamenti cristiani. La spirale soprattutto quella aurea fu assunta quindi come simbolo di benessere, pace e serenità concessa da Dio.

In alcune aree geografiche dell’Italia del sud e soprattutto nei dintorni di Bari, si diffuse la credenza che anche la posizione delle sedi di culto fosse stata stabilita seguendo tale logica.

Così iniziarono a prendere corpo vere e proprie aggregazioni religiose non riconosciute dalla Chiesa con proprie regole e dogmi per lo più basati sul credo cristiano, solo che queste pian piano assunsero connotazioni a volte inimmaginabili e che di cristiano non avevano più nulla. Spesso il tutto portava ad azioni cruente e violente, frutto del malessere interiore che permeava il carattere violento degli adepti che veniva utilizzato grazie al saper fare di persone scaltre e malvagie.

Quello che però Ettore non riesce a spiegarsi è il ritrovamento di un cadavere in una chiesetta di quelle che, secondo la mia teoria avrebbe dovuto essere ubicata lungo il tracciato di una spirale. Secondo lui si è verificato quello che accadeva all’origine della religione cristiana quando i defunti venivano sepolti nei luoghi di culto. In questo caso si sta parlando di edifici di culto per lo più del tardo Medioevo quindi un contesto storico diverso in cui la sepoltura in luoghi sacri era riservava a personaggi di un certo rango, religiosi o laici che fossero.

Ascolto con attenzione il ragionamento di Ettore tenendo per me le informazioni ricevute da Antonio ma mi rendo conto che ciò che sta dicendo purtroppo non mi arricchisce di molto in quanto in qualche modo ero già arrivato a queste conclusioni.

Il mio istinto in questo momento mi sta suggerendo di lasciare Ettore ed i suoi approfondimenti perché altrimenti mi porterebbe chissà dove. Ciò però mi porta ad approfondire la conoscenza di un mondo da cui sino ad ora mi sono tenuto fuori: il mondo ecclesiastico.

Proprio per il mio disinteresse quasi autoimposto non ho molti contatti in questo ambiente ma penso che mi potrebbe aiutare Don Francesco di Matera a cui mi sono già rivolto in passato per una situazione alquanto delicata quando lavoravo ed abitavo lì.

In quella occasione, dove era in gioco la mia vita, mi fu di grande aiuto, ma soprattutto fu molto discreto e riservato pur non essendo io un assiduo frequentatore della sua parrocchia anzi non la frequentavo affatto.

Non appena andiamo via dal castello, dove lasciamo Ettore sommerso tra i suoi reperti archeologici, saluto Edoardo e così finalmente solo, mi incammino per arrivare a casa mentre approfitto per chiamare l’amico prete.

Sento pochi squilli e subito la sua voce familiare che, avendomi riconosciuto, mi saluta con molto calore, informandosi subito sul mio stato di salute interiore.

Non mi sorprende che non si sia interessato a quello fisico; è fatto così, forte del suo credo ritiene che se una persona è serena e tranquilla nell’animo riesce a vivere bene anche in presenza di qualche acciacco fisico.

Mentre parla, avverto dentro di me il piacere che provo nell’ascoltarlo e credo che lui se ne renda conto dal tono con cui gli sto ricambiando i convenevoli. Ho però troppo rispetto per la sua persona per girare intorno alle parole e così vado subito al dunque e gli chiedo la disponibilità ad incontrarmi per una faccenda di cui vorrei parlargli di persona ed in maniera un po’ riservata.

Riflette un attimo con un silenzio che mi sembra durare un’eternità e poi con fare pronto, ma fermo, mi dice che il giorno dopo dovrà partire per un pellegrinaggio e star via per una quindicina di giorni. Se voglio e se mi è possibile potrei però incontrarlo anche subito se per caso sia in zona.

Non speravo così tanto, né posso aspettare il suo rientro; quindi, dopo aver acquisito la sua disponibilità ad incontrarmi tra un’oretta circa accelero il passo per andare a casa, prendere la mappa su cui sono riportate le chiesette disposte lungo la immaginaria poligonale a forma di spirale e salgo in macchina per andare di filato a Matera ed essere da lui quanto prima possibile.

Percorro la strada con la mente immersa in mille pensieri che spaziano tra le recenti esperienze vissute nei pressi di Altamura e quelle un po’ più remote di Matera. Soprattutto mi rendo conto che l’incontro con l’amico prete è l’unico motivo che mi riporta di nuovo nella città dove ho lavorato per alcuni anni e di cui, mi spiace dirlo, non ho affatto nostalgia.

Per fortuna la chiesa è in periferia ed a quest’ora c’è pochissimo traffico per la città, così riesco ad arrivarci subito e a trovare parcheggio proprio lì davanti all’oratorio, dove trovo Don Francesco mentre osserva compiaciuto alcuni ragazzi che giocano a calcetto.

Non appena mi vede, mi viene incontro sorridendomi e pur avendo molte cose da chiedermi, si limita ad accertarsi se ho recuperato la serenità dopo la vicenda del mio amico Gigi di cui gli avevo accennato pochi mesi prima.

Sottolinea che ha notato come non mi faccio mancare esperienze di questo tipo visto quanto avvenuto all’incirca un anno prima a Matera, cosa di cui ogni tanto qualcuno ne parla ancora.

Vorrebbe aggiungere ancora altro, ma sa che non sono andato da lui per sentirlo parlare, bensì per essere ascoltato, per cui si interrompe quasi bruscamente per invitarmi a parlare del motivo per cui ho mostrato tanta urgenza, augurandosi di potermi aiutare esaustivamente.

Senza entrare molto nei particolari, gli chiedo del significato simbolico della spirale nella religione cattolica e soprattutto quale attinenza possa avere con le sepolture.

Dopo aver riflettuto un po’, con un’espressione quasi desolata mi dice che per quanto gli è dato sapere non è un simbolo che abbia un particolare significato nella sua religione anche se a volta lo si ritrova rappresentata in un’immagine o rappresentazione religiosa.

In passato, diciamo alle origini, ossia dopo la venuta di Cristo, nell’azione di divulgazione del Vangelo gli apostoli o loro seguaci entravano in contatto con civiltà tipo quella dei Celti il cui credo aveva una particolare venerazione della spirale semplice e di quella doppia e tripla, la cosiddetta trisklete o triscele.

In questi casi, per non creare molta discontinuità con gli abitanti del posto o con il loro credo, questi simboli venivano ancora utilizzati modificandone però l’originario significato; con il tempo sono diventate delle pure e semplici decorazioni e nient’altro.

Negli ultimi tempi, diciamo all’incirca una centinaia di anni fa, vi è stato un ritorno preponderante allo studio di queste civiltà precristiane soprattutto nordeuropee che ha portato alla nascita di gruppi religiosi legati a tali credi per trasformarsi a volte in vere e proprie sette religiose con propri dogmi e idolatrie. Quanto sia diffuso questo fenomeno, secondo Don Francesco, non è dato sapere in quanto il tutto avviene nell’ombra, ma lui comunque ritiene che sia molto presente nella società attuale.

L’amico prete mi rincuora confermandomi che devo ritenermi fortunato perché a Bari, presso la cattedrale, potrò incontrare Don Onorio un attento studioso di questo fenomeno che oggigiorno è sempre più crescente tanto che ha scritto alcuni trattati sull’argomento. Ovviamente non vengono pubblicati o divulgati in quanto ritenuti la sintesi di studi che restano di stretto interesse del clero proprio per la delicatezza dei contenuti e delle conclusioni a cui si è giunti, essendo visti come una minaccia per la religione cattolica

Don Francesco ha avuto la fortuna di incontrarlo durante la sua esperienza di seminarista proprio lì a Bari e mi confida di essere subito entrato in sintonia con lui, essendo attratto da questi fenomeni sociali.

Questo religioso, studioso molto scrupoloso e attento alle modificazioni che intervengono nella società, lo aveva coinvolto sino al punto di averlo quasi convinto a seguirlo in questo suo affascinante lavoro di indagini e studio sul genere umano e sui suoi comportamenti nella società.

Don Francesco lusingato da tutto ciò, aveva accolto tali sollecitazioni ed aveva tutta l’intenzione di accettare, se non fosse che un suo periodo di malattia e la volontà diversa dei suoi superiori lo avevano portato poi a prendere altre strade.

Per fortuna Don Francesco ha conservato un buon rapporto con il suo mentore ed alcune volte riesce a sentirlo per telefono tanto è vero che, per mia fortuna, l’ultima chiacchierata con lui è avvenuta appena un mese fa.

Ora, ormai ultraottantenne, fa una vita riservata nella canonica della cattedrale di Bari, ma comunque continua i suoi studi, tanto è vero che lo aveva invitato a raggiungerlo perché voleva renderlo partecipe degli ultimi suoi lavori e delle novità che erano emerse.

Mi guarda percorso da un guizzo furbesco negli occhi ma scuote il capo quasi a voler cancellare ciò che sta pensando e senza entrare nello specifico ammette candidamente che se non avesse avuto l’impegno del pellegrinaggio a Lourdes sarebbe venuto con me a Bari per accompagnarmi di persona da Don Onorio. È convinto, infatti, che l’anziano prete avrebbe gradito questa sorpresa da parte sua.

La sua sarebbe veramente una bella idea perché stare in sua compagnia non mi dispiacerebbe affatto e poi mi offrirebbe l’occasione di parlare subito con questo misterioso studioso e chissà potergli carpire qualche utile informazione che difficilmente ad un estraneo, quale sarei io per lui, potrebbe consentire.

Don Francesco non è molto soddisfatto di come si stanno evolvendo alcune vicende che lo riguardano e non entra nel merito mentre però leggo sul suo viso un pizzico di delusione frammista ad amarezza. Mi promette che al suo ritorno sarebbe venuto a trovarmi per gustare insieme del buon pesce fresco, soprattutto il crudo di cui gli ho tanto parlato. In più mi garantisce che quanto prima chiamerà Don Onorio per chiedergli la personale cortesia di incontrarmi ed aiutarmi a capire qualcosa in più sull’argomento che mi sta tanto a cuore.

Anzi ripensandoci mi invita a seguirlo nel suo alloggio, un minuscolo appartamento arredato in maniera spartana e senza molti fronzoli, o accessori inutili. Appena giunti mi fa accomodare su un piccolo divanetto in stoffa e prendendo la sua agenda da un cassettino del mobile su cui è posto il telefono, compone il numero di Don Onorio.

La risposta non tarda ad arrivare dall’altro capo del telefono e subito si capisce, dal modo con cui si svolge la chiacchierata, quale e quanta intesa ci sia tra i due.

Dopo circa un quarto d’ora di conversazione che ho smesso di seguire perché attratto da un libro riposto sul tavolinetto davanti a me, Don Francesco ripone la cornetta e tutto soddisfatto mi conferma che il suo amico mi aspetta l’indomani alle ore 11:15, dopo la Santa Messa, nella cattedrale. Precisamente lui mi aspetterà nei pressi della Fonte Battesimale, seduto su alcune panche poste nei pressi.

Conscio di avermi fatto cosa gradita e visibilmente appagato, con fare scherzoso, mi invita a togliermi di torno perché gli ho dato già troppo fastidio anche perché ora ha cose più urgenti a cui dedicarsi e certamente non può più stare a perdere tempo ancora nel sentire le mie argomentazioni di poco interesse.

Ci facciamo una risata e ci salutiamo con l’impegno di rivederci quanto prima a Bari ed avere modo di mantenere fede all’impegno che ho assunto con lui poco prima.

Sto rientrando a casa riflettendo su quanto sia importante conoscere le persone giuste e soprattutto quanto abbia valore ed importanza la disponibilità ed affidabilità delle persone quando vengo distolto dallo squillare del cellulare.

Penso subito a Don Francesco ipotizzando un possibile cambio di programma, per cui rispondo senza leggere il nome di chi mi sta chiamando ma, con grande meraviglia e, non nascondo con estremo piacere, è la cara Beatrice il cui tono di voce questa volta non è come al solito suadente e rassicurante.

Mostrandosi dispiaciuta per avermi chiamato così all’improvviso ritenendo che sono molto preso dal lavoro o da altri impegni e senza lasciarmi il tempo di dirle che è un piacere comunque sentire la sua voce, mi chiede se mi è possibile raggiungerla quanto prima perché avrebbe bisogno di parlarmi di un fatto inaspettato che le è accaduto.

Non riesco a capire di cosa si tratti, anche perché non ha voluto aggiungere altro avendo rimandato il tutto al momento in cui sarò giunto da lei. Infatti, d’impeto a sentire le sue richieste, le ho detto che ero in macchina da quelle parti e che nel giro di mezz’ora circa sarei stato da lei.

Durante il tragitto che mi resta da percorrere ho messo da parte i miei pensieri su Don Francesco ed il suo amico studioso di misteri inerenti i professatori di arcane religioni e mi lascio andare in mille congetture o ipotesi tra le più fantasiose possibili su cosa sia potuto accadere a Beatrice. Soprattutto mi torna in mente Nunziatina, la misteriosa Angela e la mia ultima esperienza onirica di pochi giorni prima sicuramente scaturita dagli argomenti affrontati con lei.

L’aspetto positivo di tutto ciò è che il tempo è trascorso così rapidamente che senza rendermene conto sono giunto alle porte di Bitetto e dopo pochi minuti ho parcheggiato l’auto davanti alla cattedrale.

Pochissimi minuti dopo sono davanti alla porta che viene subito aperta ancora prima che io bussi e dinanzi a me trovo proprio lei: Nunziatina. Vedendomi un po’ teso in viso, con fare gentile, mi rassicura dicendomi che non vi è nulla di cui preoccuparsi e mentre lo dice chiude la porta dietro di me, mi prende sottobraccio e mi conduce da Beatrice.

Lungo il brevissimo tratto che percorriamo per raggiungere la mia amica, nella sua stanza da letto, dove la poverina sta cercando di riposare un po’ in attesa del mio arrivo, trova il tempo di sussurrarmi che se, come lei suppone, sto pensando al peggio, non devo proprio farlo perché, secondo lei, non è giunto ancora il momento.

Come è già accaduto in precedenza, questa donna quando parla mi mette i brividi, ma sento che non c’è cattiveria alcuna nelle sue parole e nelle sue azioni; sembra un oracolo.

Giungiamo così da Beatrice che siede su una comoda sedia a pozzetto in pelle di colore marrone brunito e con le gambe allungate su un puffetto anch’esso rivestito in pelle dello stesso colore. È lì con una coperta che la avvolge in tutta la sua interezza lasciando libero solo il suo viso pallido e con lo sguardo quasi assente rivolto verso il soffitto.

La mia presenza sembra però averle ridato un pizzico di energia, tanto che il suo viso si illumina e fa il tentativo di tirarsi un po’ su, ma non ce la fa e si rilascia sprofondare nella poltrona emettendo un lungo sospiro, quasi di rassegnazione.

Con voce molto flebile, ancora più di quella che aveva quando mi ha telefonato, mi spiega del suo malessere e della necessità di doversi ricoverare per accertamenti clinici presso l’ospedale dove in precedenza le hanno detto che il tutto richiederà almeno una decina di giorni di permanenza lì da loro. Lei però è piuttosto scettica su tale previsione in quanto ritiene che si tratterrà di un periodo senz’altro maggiore per cui è preoccupata di lasciare la casa disabitata per così tanto tempo senza nessuno che si preoccupi delle piante e dei suoi gattini. Ha chiesto aiuto in questo a Nunziatina che ovviamente si è resa subito disponibile in maniera incondizionata e sin da subito ma, tenendo presente anche dell’età avanzata di costei, Beatrice ci tiene a farmi sapere che preferirebbe che io segua un po’ lo sviluppo di questo inaspettato evento e che sia pronto ad intervenire anche per una evoluzione più seria o estrema che dovesse emergere in futuro.

Mi trovo in una situazione davvero nuova e per me inaspettata e certamente non desiderata in quanto la sola idea di perdere questa persona a me molto cara mi riporta nel cuore le mie antiche sofferenze per nulla placate.

Sono compiaciuto della considerazione e fiducia che questa donna sta riponendo nella mia persona, ma il sentimento interiore che predomina dentro di me è il profondo dolore che sto provando nei riguardi di Beatrice che, non volendo, mi sta sottoponendo ad una durissima prova.

L’idea di dover provare nuovamente la sensazione di solitudine e vuoto creato dalla perdita di una persona cara che ti lascia è devastante; vorrei correre iva da questa tragica realtà e non aver voluto sentire queste parole né sapere quello che invece adesso so.

Mi rendo conto che devo affrontare la situazione, accompagnare una persona cara in un momento di estrema sofferenza e nello stesso tempo convivere con la mia, senza lasciarla trasparire soprattutto a lei in quanto non le gioverebbe, anzi le farei nascere dei forti sensi di colpa.

Forte di questi sentimenti, la rassicuro sul fatto che può e potrà sempre contare sulla mia presenza e sul mio aiuto, atteso che sono convinto, anche se dentro di me so che non è del tutto vero, che il tutto si risolverà presto e favorevolmente per tutti soprattutto per lei.

Mi trattengo ancora po’ anche per valutare meglio alcuni aspetti organizzativi con Nunziatina, dopo di che saluto entrambe queste care persone e vado via perché sento il bisogno di stare solo per ingoiare quel groppo che si è formato in gola tanto che a stento mi fa parlare.

Giungo a casa distrutto e provato nel mio intimo, tanto che sento lo stomaco chiuso da un’enorme tenaglia che mi impedisce persino di bere un sorso d’acqua.

Non mi resta che andarmene a letto e cercare di riposare un po’ visto anche ciò che mi aspetta nei prossimi giorni.

CONTINUA

LA PROCESSIONE DELLE ANIME SMARRITE è un romanzo di Riccardo Giorgi

genere: THRILLER

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