LA ROSA GIALLA di Maria Tedeschi

Foto di blizniak da Pixabay 

Si dice che in un giardino parigino di un famoso istituto ci sia una pianta di rosa gialla molto rara.

Nelle notti di maggio emana effluvi di caffè che si uniscono alla delicatezza delle rose damacene: note intense e avvolgenti che aprono all’amore e alla vita.

Sono una caffettiera napoletana, una moka, discendente dalla nobile famiglia delle cuccumelle la cui arte è produrre il re dei caffè.

Il caffè è un succo magico da poteri straordinari.

Si fregia dei geni dell’antica Etiopia, di quelli della penisola Arabica e di tanti altri.

È un “K’hawah” rinvigorente che porta allegria, forza, solidarietà, amicizia, bellezza, scacciando via i cattivi pensieri e la stanchezza.

Il mio succo è una bevanda sociale: sa accompagnare ogni tipo di relazione, è perfetto per ogni circostanza e non è mai invadente.

Qualche giorno fa avevo festeggiato il mio decimo compleanno, ma “la festa” me l’hanno fatta gli eredi di donna Rosa: approfittando della sua dipartita, ancora piena di caffè, mi hanno scaraventata nei rifiuti senza pensarci due volte.

Signori si nasce e loro non lo nacquero”, avrebbe detto Totò.

Non mi aspettavo una statua d’oro ma almeno un po’ di riconoscenza per i miei servigi: avevo fatto stare tutti bene, li avevo incoraggiati, confortati, tenuti svegli e sorretti nei momenti difficili…

Ma niente, come ricompensa sono stata rimpiazzata da una macchina a cialde ultimo modello.

Praticamente preferiscono un robot senza cuore e senza fantasia dove è la cialda a comandare: caffè d’orzo, al ginseng, decaffeinato e chi ne ha più ne metta, tutto in serie, sempre uguale e senza anima.

Giacevo tra quello che gli eredi della signora Rosa consideravano “inutile ciarpame”, quello che non serviva più perché non aveva valore.

Era appena scomparsa e già volevano cancellare definitivamente i suoi ricordi?

Perché non avevano gettato via con me anche la sua spilla con i rubini o i suoi orecchini di brillanti?

Avevano molto di più della mia età e non erano in buono stato.

Perché loro avevano un valore affettivo e io no?

Donna Rosa li indossava solo in particolari occasioni e invece io ero con lei a farle compagnia tutti i giorni in tutte le stagioni: quando faceva caldo e la sua finestra era aperta, il mio aroma si diffondeva nei vicoletti profumandoli di buono o durante l’inverno, quando la finestra restava chiusa, e il mio aroma prezioso invadeva le stanze e le narici dei presenti.

C’ero sempre io a sostenerla: nelle difficoltà, nei pianti, nelle gioie.

E loro dove erano?

Chiusi in un cassetto, per rendersi disponibili solo in inutili e stupide occasioni formali.

Come ricompensa, mi hanno scaraventata senza alcun riguardo al freddo in cima ad una pila anonima di metallo piena di oggetti rotti e puzzolenti e poi senza nemmeno ripulirmi.

Sono ancora mezza piena di caffè!

Io non voglio riposare, ed è presto per la pensione, posso lavorare.

Ho ancora da dare, per favore, non lasciatemi qui… Soffro il freddo e la solitudine! 

«Non ti lamentare! Non sei l’unica ad aver ricevuto questo bel trattamento» gridò un mucchio di fogli ingialliti che faceva capolino da vecchi cartoni e carta straccia.

«Chi sei tu che ti fregi di avere la mia stessa confidenza con donna Rosa?».

«Sono il suo quaderno, quello dove donna Rosa appuntava la spesa, i conti, le ricette e i suoi pensieri attraverso i numeri della Smorfia. Gli eredi non hanno nemmeno avuto la curiosità di andare oltre le prime pagine e non si sono accorti di quanto di loro ci fosse dentro i miei fogli, di quanti ricordi fossero impressi tra le vecchie pagine e mi hanno gettato via senza pensarci due volte. Potrei dirti di quando Giada ha messo il primo dentino, le sue malattie, quello che non piaceva al piccolo Terenzio, i loro momenti speciali, i vizi del marito Rubicondo e la sua mania per le donnettine formose che lui chiamava ‘e piezz e carne, la sofferenza di Donna Rosa, i segreti delle sue amiche e ancora tanto altro».

«Caro quaderno, non voglio nemmeno sentirli nominare quegli eredi “senza cuore”. Quello che ha a che fare con loro e la loro vita non mi interessa e ti prego di non nominarli. Se proprio vuoi leggermi qualcosa, che sia della mia padrona e soprattutto vorrei sapere se lei mi ha mai menzionata».

 «Vediamo» riprese il quaderno «ho trovato qualcosa… ma risale a molti anni fa. “Pensiero numero quarantadue, o’ cafè. Oggi ho comprato una nuova caffettiera, ultimo modello, un po’ cara ma molto resistente, mi tornerà utile».

«Tutto qua?».

«Purtroppo non c’è altro, ma se hai altro aggiungilo tu, così ci presentiamo e inganniamo il tempo, il freddo e la puzza insopportabile della frazione organica. Proprio sotto di me dovevano abbandonarla?».

«E va bene, inizierò io, e poi tu mi leggerai qualche pensiero della mia padrona.

La mia storia ha inizio quando Donna Rosa mi comprò nel negozio vicino casa, “Tutto a mille lire”.

Ero in bella mostra, vicino al servizio di piatti di porcellana e ai bicchieri di cristallo, quelli che costavano un occhio della fronte.

Ero l’ultimo modello, forte e resistente, appena uscito dalla fabbrica del signor Bialetti. Tutti mi ammiravano e mi volevano, ma il costo “quindici mila lire” aveva scoraggiato molti, ero davvero solo per quei pochi davvero intenzionati.

Donna Rosa mi notò subito, le luccicavano gli occhi, fu amore a prima vista, non seppe resistermi, e frugando nel borsello decise di rinunciare alla permanente dalla parrucchiera Gelsomina per avermi.

Io le promettevo ottime prestazioni ed ero giusta per lei: una o due tazze, di buona qualità, resistente e nuova di zecca, proprio quello che le serviva per una casa così trafficata e accogliente come la sua dove il caffè andava à gogo.

Fu così che da quel momento entrai a far parte della famiglia.

Ero come una persona di fiducia, il mio caffè era il rito di ogni momento, dei segreti sussurrati a bassa voce, delle malattie, dei festeggiamenti, degli affari, ma anche di consolazione durante le perdite e le sconfitte.

Il lavoro non mi mancava in quella casa trafficatissima.

Da come mi caricavano capivo se l’ospite fosse gradito o meno, se fosse di famiglia o solo un estraneo.

Per i parenti stretti, donna Rosa caricava il mio filtro ad imbuto fino a farmi scoppiare; di contro, quando l’ospite era un estraneo o una persona poco gradita, l’imbuto era quasi vuoto per farmi produrre “’nu cafè lasco”, come la relazione tra la mia padrona e chi le stava facendo visita.

Quanto amavo donna Rosa! Avevamo gli stessi gusti, ci capivamo a volo e diventammo subito complici.

Con le mie prestazioni esprimevo a perfezione i suoi e i mei sentimenti.

Il lavoro non mi mancava di certo.

Iniziai a carpire tutti segreti di quella famiglia e di chi la frequentava, gli umori, le speranze, le delusioni e le difficoltà fino a diventare un‘esperta dell’animo umano.

Con discrezione, il mio caffè alleviava, accompagnava, preparava, sollevava lo spirito, all’occorrenza aiutava a superare i momenti più difficili. E quanti ce ne sono stati in questi dieci anni!

Quando donna Rosa si intratteneva con le sue amiche più strette, come la signora Venezia (una popolana sguaiata, che, nonostante con la mia padrona avesse poco in comune aveva instaurato un rapporto di sincera amicizia), veniva servito il caffè ristretto e zuccherato direttamente nella mia parte superiore, versato poi nelle tazzine doppie senza piattino su una piccola guantiera, segno di grande amicizia.

Il caffè ristretto agevola le relazioni, scioglie la lingua, predispone ai segreti e alle confidenze.

La signora Venezia a stento parlava l’italiano, ma la mia padrona non l’aveva mai fatta sentire a disagio.

L’ascoltava, la consigliava, fumava con lei una sigaretta di nascosto.

Venezia si era sposata giovane, aveva quattro figlie femmine da sistemare e a casa sua lavorava solo il marito.

Donna Rosa metteva sempre da parte per lei qualcosa da mangiare, quello che lei non poteva permettersi, e Venezia la ricambiava facendole qualche servizietto, una piega al calzone del marito o semplicemente portandole i fiori che aveva raccolto in campagna.

La mia padrona è sempre stata una persona buona e disponibile.

La sua ricchezza non era solo economica, ma qualcosa che andava ben oltre il semplice aspetto materiale, era una vera signora. E “Signori si nasce, non si diventa”.

Il caffè ”lasco” era invece servito a chi la mia padrona non considerava di famiglia o a chi non nutriva una grande simpatia.

Veniva versato in grande quantità nelle tazze con il piattino, il cucchiaino e la zuccheriera in un vassoio d’ argento sheffield, stile antico con manici da tavola inglese.

Era una vera “ciofeca lasca”, così come la relazione instaurata con persone a cui era destinato, come ad esempio la signora Valestra o la signora Rasa, due contadinotte ignoranti, colone dei terreni di Donna Rosa.

Si dice che si erano arricchite con affari loschi, il che era molto probabile visto il loro aspetto davvero poco raccomandabile.

Venivano spesso a casa di Donna Rosa, sempre con “le mani in mano” senza portare mai nulla, con la scusa che si erano trovate a passare di lì per caso.

Prima di andare via non dimenticavano mai di scroccare consigli fiscali a titolo gratuito dal marito di Donna Rosa, il commendatore Rubicondo, noto commercialista della zona.

«Nulla è peggiodi “perocchie sagliute mperteca”, tutta fatica sprecata creare legami con loro» diceva la mia padrona.

Entrambe erano delle habitué dello studio del commendatore Rubicondo e godevano del suo favore.

Egli sembrava apprezzare molto le loro visite e le loro rotondità: ai miei occhi apparivano invece come due palle di grasso in abiti troppo attillati, forse di due taglie in meno.

Il grasso sembrava premere sulla stoffa dei loro vestiti, che si dilatavano sempre più a fatica e sembravano palloni pronti a scoppiare.

Credo che fosse per questo motivo che la mia padrona le aveva soprannominate madames Boules de suif.

Alla mia adorata padrona riservavo al suo risveglio il caffè “cocente e ristretto” per farle iniziare la giornata con tanta energia e buon umore, e lei mi guardava con ammirazione e affetto come faceva con quelli di famiglia.

Lo ha sempre fatto anche quando il medico luminario delCardarelli le ha proibito il caffè.

Ero diventato improvvisamente nocivo per la sua salute.

Lei, però, mi caricava lo stesso, producevo nu caffè sospeso che versava nella   tazzina e dopo averne sentito l’odore innaffiava le sue amate rose gialle che diventavano sempre più belle e rigogliose.

Quando si è spenta, il suo ultimo desiderio è stato” na tazzulella e cafè” e di questo ne vado fiera, eh sì, si è spenta con me in bocca.

Ora quaderno sai più o meno tutto di me e dunque ti cedo la parola».

«Sono un quaderno di brutta copia che Giada, sua figlia maggiore, non usava più da tempo.

Donna Rosa, invece di gettarmi via, mi ha girato sottosopra e mi ha dato una nuova vita.

Io ero tutto per lei: scriveva i conti, le ricette che ascoltava per radio, qualche numero di telefono importante che le poteva servire e di tanto in tanto annotava i suoi pensieri associandone i significati ai numeri della Smorfia.

Anche io ero sempre con lei e, nonostante fossi solo un vecchio quaderno, mi ha trattato sempre con rispetto, come faceva con tutti.

Con lei mi sentivo una persona.

C’era una sorta d’informazione emotiva che alimentava il nostro affetto di cui ti leggerò qualche pensiero, ad esempio il numero settantanove: ‘o mariuolo.

Donna Rosa scrive: “Stamattina sono andata al cimitero, ho visto uno zingarello rubare la mia rosa gialla dalla tomba del maresciallo Baffuto. Lui non si è accorto di essere stato spiato da me.

All’inizio avrei voluto sgridarlo, ma poi ho deciso invece di acquistare la rosa.

Quella rosa aveva per quell’essere così scarno il profumo una pagnotta, per il maresciallo era un inutile orpello di cui non poteva nemmeno sentirne l’odore.

Quando lo zingarello è andato via, l’ho restituita al maresciallo che mi è apparso sorridente, forse ora riusciva anche a sentirne l’odore”.

Oppure, il numero trentacinquem L’aucelluzz: “Oggi ho trovato un passerotto sul balcone: non riusciva neanche a stare in piedi sulle sue zampe. 

Mi sono avvicinata e lui non ha avuto il minimo timore, gli ho dato un paio di minuscole briciole di pane inzuppate nell’acqua e mi sono allontanata.

Gli uccelli e gli angeli condividono un legame, ce lo suggeriscono le loro ali e a volte vengono a visitare le persone per trasmettere messaggi spirituali”.

E ancora, il pensiero ventuno, a femmena annure e il pensiero settantuno, l’omme ‘e merda: “Capita talvolta di incontrare persone poco gradite che per un atteggiamento, una parola o un gesto, abbiamo etichettato come riprovevoli.

Vorremmo evitarle come la malattia, ma capita a volte di incrociarle o, ancora più malauguratamente, di trovarsele in casa a propria insaputa.

Oggi, 5 gennaio, è venuta a casa la signora Rasa.

Ha scelto il giorno e l’ora che di solito sono da Gelsomina, la mia parrucchiera, a fare la messa in piega.

Si è fatta accompagnare da due donne. 

Gelsomina non ha aperto il salone, il figlio è caduto dalle scale, si è rotto la testa e l’ha dovuto accompagnare al pronto soccorso.

Sono tornata a casa. Ho girato la chiave nella toppa.

Ho sentito un’allegra musichetta e un vociare sommesso proveniente dallo studio di mio marito.

Ero sicura che mi stesse preparando una sorpresa.

Sono andata a spiare senza farmi vedere.

Ho visto la signora Rasa in mutande.

Il suo culo sembrava un pallone aerostatico e dalla parte opposta le pendevano due bisacce che mi ricordavano meloni molli, quelli che il mio giardiniere dà ai porci.

Due donne, non meno sgraziate di lei, ballavano seminude intorno a mio marito e lui sorridente metteva dieci mila lire nelle loro mutande.

Quando mi hanno notato, hanno cercato di rassettarsi gli abiti sgualciti e sollevati fino al collo.

Ho preso la scopa e ho cacciato quelle vipere fuori dalla porta.

Mio marito cercava di addurre inutili giustificazioni.

Non l’ho ascoltato, ma gli ho dato l’illusione di farlo.

Ha sfibrato la nostra relazione, che probabilmente si deteriorerà senza soluzione. Questo succede quando uno pensa solo a sé e non più all’altro, e al fatto che la mancanza di rispetto lo potrebbe far soffrire davvero tanto. 

E così ha perso la mia fiducia, ed è diventato un estraneo. 

Sento come un colpo al cuore!  Da questo momento credo sia iniziata la mia malattia”.

Il pensiero ventisette, ‘o cantero: “Tutto ciò che è chiuso, o marcisce, o puzza, come questo vecchio vaso da notte.

Sento la stessa puzza nell’armadio di mio marito.

Odori che ricordano il passato e i momenti bui.

Per questo ho deciso di aprire le finestre e le porte per far arieggiare e cambiare aria. Lo stesso vale per la mente se non voglio che anch’essa puzzi e si imputridisca.

Qui dentro sento una puzza insopportabile di cadaveri e di vasi da notte”.

Il pensiero diciassette, ‘a disgrazia: “Sono mesi che non riesco a scrivere nulla e nemmeno più a pensare.

Mi va tutto largo e oltre al peso ho perso tutte forze.

Il luminario del Cardarelli mi ha detto che non sa se potrò riprendermi e che devo mangiare molte verdure e bere succo di arancia per la mia malattia.

Mi sforzo a fare tutto quello che dice, ma non vedo nessun miglioramento.

Ho continui mal di testa, dolori in tutto il corpo, ogni giorno divento più debole e ho la sensazione di diventare invisibile.

Oggi la signora Venezia è venuta a trovarmi e ha pianto tutto il tempo urlando: «Che disgrazia!».

Sono capace di valutare la mia situazione e so che non mi resta troppo tempo.

Il disagio non mi preoccupa, lo conosco e già ci ho fatto i conti.

Allora abbraccio l’incertezza e scelgo di vivere in modo libero”.

Il pensiero numero trentasette, ‘o monaco: “Oggi il monaco collettore, venuto da Gerusalemme, mi ha detto che la fede è un dono: rende lieve ogni dolore e alimenta la speranza.

Non è oppio ma aiuto concreto, ti riconosce, sa del tuo dolore e ti aiuta, ed è con te per rendertelo più leggero. 

È la mano che ti solleva quando cadi.

Non ci sono miracoli, l’unico che possiamo fare è quello su di noi, di non vedere sempre il nero, il terribile».

«Non è più nero» interruppi. «Albeggia e avverto la carezza della luce mattutina, fra poco verranno a prelevarci. Il camion ha già svuotato il cassonetto dell’organica sotto di me. Al prossimo giro sarà il nostro turno».

«Non c’è più puzza, inizio a respirare e, anzi, sento un buon odore di caffè».

«Sono io caro diario, te l’ho detto, mi hanno gettata ancora mezza piena di caffè».

Poche gocce di caffè caddero sui fogli del quaderno formando il numero quarantadue.

«Grazie, amico quaderno, per essere stata anche per te il tuo ultimo pensiero» dissi.

«Grazie a te, caffettiera, per avermi regalato il profumo della tua sincera amicizia.

La vita è una catena in cui il più forte mangia il più debole e allora non si può far altro che accettare la fine affidandosi “al buon Dio”. 

Vedrai che ci rincontreremo sotto una nuova forma e continueremo ad “esserci”.

I miei fogli diventeranno petali di una rosa gialla e tu diventerai il suo profumo. Apparterremo sempre a una “Rosa” ma tu dovrai essere molto attento per vedermi.

Ti manderò un saluto, tu mi riconoscerai e mi sorriderai e io ne sarò felice e ti riconoscerò.

Saremo meravigliosi anche se saremo qualcos’altro. 

Allora non aver paura, facciamo il nostro ultimo respiro, chiudiamo gli occhi e poi si va via, sarà come quando ci si addormenta per il pisolino pomeridiano.

La nostra vita si spegnerà, ma la vita intorno a noi continuerà come sempre.

Che la nostra prossima vita possa essere migliore della precedente. Addio, amica mio».

I due amici si lasciarono così.

La loro fantasia li aveva portati via da quel luogo squallido verso nuovi orizzonti.

I sogni erano diventati per loro improvvisamente reali, tanto da non fare nemmeno più caso al camioncino della nettezza urbana che li stava prelevando per smaltirli nella discarica.

LA ROSA GIALLA è un racconto di Maria Tedeschi

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