L’UOMO SBAGLAITO di Ludovico Bruno

«Cosa c’è?» mi chiese Giulia, mia moglie.
Si era svegliata all’improvviso per il mio snervante e continuo movimento nella parte destra del letto, di fianco a lei.
Non riuscivo ad addormentarmi.
«Rifletto! Non mi è concesso neanche questo?» le risposi con tono brusco.
Ero già stizzito di mio per il mancato riposo.
Mi alzai, mi vestii frettolosamente ed uscii di casa, lasciandomi alle spalle le sue sgradevoli urla richiedenti dove accidenti andassi.
La cosa si ripeteva ormai da così tanto tempo che quasi la sua voce non la udivo più.
Come quando al mezzodì pranzavamo con l’assordante e frenetico suono dei clacson proveniente dalle auto, che a quell’ora erano incessantemente in coda. All’inizio era insopportabile, dopo un po’ diveniva quasi come parte essenziale del pranzo. Era come impugnare una forchetta o versarsi del vino. Ormai non gliene davo più importanza.
Mi affrettai, dunque, a percorrere le scale per uscire.
Come al solito, mi ritrovai in Piazza Centrale, dove mi aspettava la rigida e fredda panchina di sempre.
Erano così tante le notti che mi aveva tenuto compagnia che mi ci ero affezionato!
Quasi più di quanto fossi affezionato a Giulia, mia moglie.
Giulia!
Certo non un nome comune qui a Navona.
Pensandoci richiamai alla mente un vecchio detto.
A Navona si diceva: “Tant’è inconsueto il nome, tanto più chi lo possiede”.
In effetti, Giulia in tutto poteva eccellere tranne che in naturalezza.
Un giorno portava i capelli lisci, un giorno ricci.
Un giorno indossava abiti succinti, un altro era sobria come una suora.
Un dì comprensiva e allegra, un altro rigida, suscettibile, egocentrica.
Certo, direte voi, chi non lo è!
Un giorno puoi amarla, l’altro ti rende la vita impossibile. E non accada mai che lei abbia la luna storta quando mi capita una giornata pesante! A casa fa un putiferio!
Ultimamente, ho pensato che sia diventata così perché non ha un impiego …
Che se lo cercasse!……
Questa è Giulia, mia moglie.
Dunque, direte ora voi, che accidenti l’hai sposata a fare?
Già!
Vi sottoscrivo, allora, ciò che ha di buono.
Giulia è unica!
Sì, unica!
Ma non solo per il suo lato lunatico.
Giulia è anche una donna che è in grado di amare un uomo come egli desidera; che si preoccupa sempre di dimostrarti il suo amore, la sua passione; che ha sempre e in ogni momento voglia di stare con te, anche se ciò significa fare ogni giorno le stesse cose.
Giungiamo, ora, al problema vero.
Erano troppe le ore, troppi i giorni in cui non ci si intendeva più.
Non c’erano più momenti di pace, di carineria.
Al mattino io ero al lavoro. Facevo il detective, se non l’avessi ancora precisato.
Entrambi eravamo in casa solo al mezzodì e, ormai, quasi non ci si parlava più.
Durante il giorno pensavo al lavoro, ai casi che mi venivano assegnati, anche se non avevano per me poi così importanza. Era come fare lo spazzino, il manager, il presidente.
Solo un lavoro.
Durante la notte mi recavo in piazza. Forse perché non riuscivo a starle accanto.
L’unico momento di vicinanza fisica tra noi era quando andavamo a letto insieme, prima di dormire. Ma ciò corrispondeva sempre al momento in cui i dubbi si impadronivano della mia labile psiche. E così sentivo un’estenuante esigenza di evadere.
Vi starete chiedendo quali fossero tali dubbi.
Ho, forse, omesso questo passo?
Beh, si sa, prima c’è il “dovere” di descrivervi mia moglie; e poi c’è il “piacere” di parlare delle mie incertezze!
Cominciamo da qui.
Sono Jackson Holsen, detective del dipartimento di polizia di Navona.
Mia moglie aveva fatto parte di me in ogni momento della mia vita.
Erano dieci anni che eravamo sposati.
Ci sposammo che avevamo vent’anni, lo stesso giorno del mio compleanno.
Ed era ancora la notte precedente il giorno del mio trentesimo compleanno, quando iniziai ad essere preda dei miei sgomenti e delle mie paure, seduto sulla mia bella panchina che mi faceva compagnia.
Da ragazzo, tutto ciò che desideravo era una donna di cui potessi fidarmi completamente.
Mi resi conto ben presto, però, come ciò corrispondesse solamente ad un’utopia.
Concepii che, in termini di probabilità, la fiducia assoluta fosse solamente immaginabile e non realizzabile.
Chissà cos’avrà fatto a quella festa in cui mancai? Quel giorno di scuola? Quel viaggio? Quell’uscita con le sue amiche? Quell’inaugurazione? Quei giorni in cui non siamo usciti insieme? Chissà? ….
Quel chissà, però, potrebbe darvi un’impressione diminutiva!
La mia era una vera e propria ossessione!
Lei era la mia ossessione!
Ciò che pretendevo era la consapevolezza assoluta di potermi abbandonare all’idea di essere stato e di essere l’unico uomo nella vita di Giulia.
Nessuna scappatella, nessun bacio, nessuna carezza, nulla che non riguardasse me, in sintesi.
Come potevo saperlo?
Un dilemma di cui non conoscevo la soluzione!
Ero preda, dunque, delle mie infinite elucubrazioni notturne, seduto sulla “mia panchina”, quando la suoneria del mio cellulare si mise a gracchiare.
Era il cellulare di servizio; una comunicazione a quell’ora della notte non poteva non riguardare un nuovo caso o nuovi sviluppi di uno in corso!
Come mi aspettavo!
«Jackson, prendi la tua auto e precipitati qui!»
«Arrivo capo.»
Mi precipitai in ufficio.
Il capo aveva la stessa aria di quando abbiamo urgenza di trovare qualcuno.
«Allora Jackson, il nostro uomo è Peter Downer, ha ucciso tre donne, tra cui la moglie del tuo collega Klarkson. È un killer professionista, le vittime a cui è stato collegato riguardano le mogli di altri due detective. Sembra che abbia un’ossessione nei vostri confronti. È stato visto poche ore fa nelle vicinanze del parcheggio di Chanson Street, vai a dare un’occhiata!»
«Accidenti, la moglie di Klarkson …. non si preoccupi, me ne occuperò io.»
Dovevo trovare quell’uomo prima che combinasse altri guai.
Tornai indietro e presi la mia auto.
In pochi minuti giunsi a destinazione.
Chanson Street, ricordo che ci venivo da bambino a giocare. Un posto schifoso, come del resto l’intera città. Il parcheggio era enorme, quasi sempre al completo.
Quella notte, come sempre, non trovai un posto libero dove parcheggiare la mia Renault.
Diamine, ero un detective, potevo lasciarla in doppia fila.
Scesi dalla mia auto, perlustrai la zona velocemente.
Non c’era nessuno.
«Sto sprecando il mio tempo.» mi dissi, pensando che fosse il caso di tornarmene a casa.
Ma mentre tornavo alla mia auto, sentii dei rumori.
Mi voltai, c’era un uomo.
Appena mi vide voltarmi cominciò a correre verso l’ospedale.
«Fermo!», gli urlai con tutto il fiato che avevo, mentre tiravo fuori dal fodero il mio revolver e la torcia.
Cercai di raggiungerlo.
Correva, correva veloce, quasi non riuscivo a tenergli il passo.
Poi entrò nell’edificio più avanti, a destra dell’ospedale.
Lo conoscevo bene, era un vecchio deposito senza uscite secondarie.
Era in trappola.
Decisi di procedere cautamente, sia per non farmi cogliere in distrazione, sia per riprendermi dall’affanno, concedendo ai miei polmoni un po’ di sano e puro ossigeno.
Mi squillò il cellulare.
Era di nuovo il mio capo, ma stavolta decisi di non rispondere.
Una distrazione poteva essere fatale.
Compivo pochi e lenti passi alla volta, mi guardavo intorno impugnando la torcia e la pistola, puntandola dove mi pareva di vedere qualcosa.
Downer si era nascosto per bene.
D’un tratto scorsi una sagoma dietro un grosso scatolone.
«Ti ho beccato Downer! Adesso vieni avanti lentamente, non fare scherzi!»
«E va bene Jackson, mi arrendo.»
Cominciò ad avvicinarsi.
L’ombra divenne sempre più chiara, così che dopo pochi attimi potei guardarlo finalmente negli occhi.
Ebbi d’un tratto un flashback… Conoscevo già quell’uomo.
«Tu! Io ti ho già visto! Un anno fa ti ho quasi sparato, stavi cercando di entrare in casa mia!»
Nel frattempo, il mio dannato cellulare continuava a suonare.
«Spiacente Jackson, sei caduto in trappola! Da questa situazione io ne uscirò tutto intero, libero, mentre tu, caro mio, arriverai troppo tardi. Vedi, Jackson? Non vedi che il tuo cellulare squilla? Rispondi!»
Tirai fuori il cellulare dalla tasca, era il mio capo, come avevo previsto.
«Pronto? Capo?»
«Jackson, dannazione … dove accidenti sei?»
«Capo stia tranquillo, è tutto sotto controllo, sono con Downer, l’ho neutralizzato.»
«No Jackson! No! Quello non è Peter, Downer ha un gemello! Non ne sapevamo nulla. Abbiamo ricevuto una segnalazione, Peter è stato visto intorno casa tua, …. corri Jackson! Potrebbe aver puntato tua moglie!»
Troncai la telefonata mentre il gemello di Downer se la rideva.
«Hai visto Jackson? Avevo ragione io! Corri da tua moglie ora, su, corri!»
Persi il controllo.
«Non prima di averti fatto fuori!»
Sparai.
L’assordante eco dello sparo si disperse nel buio.
«Giulia, dannazione!»
Mi precipitai nell’auto ed accelerai più forte che potevo. D’un tratto ero come insensibile. Quasi non avvertivo l’aria gelida che mi batteva sul viso, che si infilava nell’abitacolo dal finestrino mezzo aperto.
Arrivai.
Sbattei la porta d’ingresso, mi diressi il più velocemente possibile nella camera da letto.
Entrai nella camera da letto, sprofondando nello stesso istante in un immenso dolore.
Giulia era morta!
Mi sedetti sul nostro letto, di fianco a lei.
Rimasi lì a guardarla, pensando a come l’avevo trattata negli ultimi tempi, a quanto poco amore le avessi dimostrato, e a quanto tempo avessi sprecato, a quelle notti in cui l’avevo lasciata sola per le mie paranoie ossessive e prive di senso per quei dubbi, gli stessi che adesso si dissolvevano tra le mie lacrime di sofferenza e di dolore.
Lei era morta, nulla aveva più senso.

Tirai su la mano sinistra, in cui stringevo ancora il mio revolver, e mi ricongiunsi a lei!

L’uomo sbagliato è un racconto di Ludovico Bruno

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