UNA STELLA E UNA FARFALLA di Ernesto Benini

Possiamo essere tutto
se cerchiamo di fare tutto
Saremo nulla
se avremo paura di fare nulla

UNA BRUTTA PASQUETTA

Quel prato vicino Via Emilia ben visibile durante il giorno, senza illuminazione la notte, diventa un ottimo posto per agire praticamente indisturbati.
Sicuramente un posto adatto al massacro.
Quel massacro ritrovato casualmente da un cane, che alle cinque accompagnava il padrone nella sua corsetta mattutina.
Lo spettacolo davanti ai loro occhi non lasciava molto spazio alle interpretazioni. Bastava guardare dentro l’auto dallo sportello lasciato spalancato per accorgersi della situazione: una donna seminuda, con i vestiti a brandelli, le gambe a penzoloni fuori dall’auto, lo sguardo fisso con un flebile lamento che le usciva dalla bocca, immersa nel suo sangue.
Ciò che avevano visto li lasciò esterrefatti.
Il cane era stato sicuramente il primo a rendersi conto di quello che avrebbero dovuto fare, perché si era messo ad abbaiare all’impazzata con il muso rivolto all’auto, girandosi ogni tanto verso il suo padrone che era rimasto come pietrificato.
Sembrava proprio che gli stesse dicendo, attraverso il suo abbaiare, di chiamare la polizia. E dopo un paio di minuti proprio questo aveva fatto.
La volante che si era portata sul posto per verificare cosa diavolo ci fosse di vero in quella chiamata confusa al 113, non si aspettava di certo di trovare una donna così conciata. Insanguinata e stracciata. Sicuramente violentata in modo bestiale. Ma anche il volto, i capelli, il corpo portavano i segni di una violenza feroce ben oltre il sesso.
L’ambulanza poi l’aveva portata via a sirene spiegate. Forse neanche pensando di poterla salvare per come l’avevano ridotta.
Dopo poco, sulla scena del crimine, anche i colleghi della scientifica e quelli dell’investigativa si erano messi all’opera per i rilevamenti necessari. E inaspettatamente, all’interno del cofano portabagagli, avevano ritrovato il cadavere di un uomo che aveva evidentemente almeno la testa fracassata. Nel suo sangue rappreso una mazza da baseball anch’essa completamente insanguinata.
Sul posto erano arrivati l’ispettore di polizia Stefano Antenucci con la collega Katia Pollica, che lo assisteva sempre nelle indagini.
Una coppia a prima vista male assortita, ma che aveva un particolare feeling nel lavoro. Tanto decisionista lui quanto dubbiosa lei, tanto superficiale lui quanto scrupolosa lei.
In pratica, lei apportava brillantezza e lui concretezza, ottenendo alla fine un risultato professionalmente valido.
Fisicamente però la diversità restava evidente. L’ispettore era un quarantenne molto attento alla cura del corpo e dell’immagine, senza un filo di grasso, atletico senza essere un palestrato, sempre in tiro con giacca e cravatta di marca, accompagnate però da camicie troppo sgargianti per avere quell’eleganza che lui aveva l’intenzione di mostrare. Insomma, una persona sempre in tiro ma con qualche gusto discutibile. Non riscontrava con le donne il successo che si aspettava di avere, rimanendo praticamente sempre solo.
Katia invece era una ragazza giovane, spigliata, di neanche trent’anni che vestiva preferibilmente in jeans, camicetta e maglioncino o felpa, senza neanche molta cura nel trucco del viso. Era evidente che amasse mangiare, così che di lei si poteva dire che era simpatica, anche carina forse, ma sicuramente non snella, soprattutto perché la sua altezza di un metro e sessantacinque circa, non faceva altro che farla apparire ancora più cicciottella di quello che in realtà fosse.
Insomma, due persone diverse, unite dal lavoro e dalla solitudine nella vita privata. Una solitudine che a Katia non pesava più di tanto, perché lei era ancora accasata con i genitori. Stefano invece aveva un proprio appartamento che teneva ben curato e con mobili in stile, che però non riusciva a mostrare, perché a casa sua non ci era andato quasi mai nessuno.
«Brutta fine» aveva commentato l’ispettore.
«Che brutta Pasqua!» aveva ironizzato invece lei.
«Per noi o per lui?» aveva risposto lui.
«La Pasqua per lui, per noi la Pasquetta che invece di farci una bella grigliata stiamo a lavorare in questo posto orribile» aveva sottolineato lei.
«Perché orribile?»
«Intanto per questo canale che scorre tra noi e la strada, che lo rende pieno di zanzare e di mosche che continuano a ronzare qua intorno, attirate anche dalle macchie di sangue rappreso. Poi perché siamo vicini a Via Emilia, ma sotto il suo livello. Si sente il rumore e la puzza delle auto anche se non si vedono… ogni tanto si intravede solo la parte superiore dei tir, e ci ricorda che cosa sta sopra di noi. E poi si soffoca con questo caldo senza un alito di vento. Ho quasi una sensazione claustrofobica…»
«L’avevo notato anch’io, come solo dal bordo della strada, si vedesse tutto lo spiazzo dove ci troviamo e che basta fare due passi indietro per non vedere più nulla. Per questo penso che sia un posto ideale per una coppietta. Che ne pensi Katia?»
La collega aveva annuito, ma aveva anche scosso la testa.
«Cosa non ti convince?!» aveva chiesto l’ispettore.
«Beh, violenza sessuale su una coppietta che si era appartata è ormai un classico… ma la mazza da baseball? Con quella di solito ci rompono i cristalli per entrare in macchina, ma qui i vetri sono sani. Poi normalmente le coppiette vengono attaccate principalmente per essere rapinate. La violenza sessuale è solo un corollario, se capita, se si ha tempo. Ma l’auto invece è ancora qui, non l’hanno portata via…»
Sbirciato dentro l’auto intravedendo addirittura un cellulare sotto il sedile anteriore destro. Lo aveva preso con le cautele del caso e messo nella bustina di plastica dove si preservano le prove.
«Guarda Stefano è un Galaxy S10, uno degli ultimi modelli… molto costoso! Rapina non penso proprio. Allora? L’uomo nel bagagliaio ha evidenti segni di una violenza esagerata. Cosa ci potrebbe essere dietro non lo so, o almeno la cosa non la trovo così lampante.»
“Cosa diavolo era mai potuto succedere?” domanda che per mestiere si doveva porre Stefano, ma era evidentemente distratto, senza la voglia di concentrarsi. Ma per tutt’altre ragioni.
L’inizio di quella sua Pasquetta era stato veramente pessimo per lui.
La sera precedente dopo tanto insistere, era finalmente riuscito a portare Caterina, ovvero la più bella collega che avesse mai conosciuto, in giro per le discoteche di Riccione, e tra alcool e locali aveva creato decisamente il clima giusto tra loro, con le giuste intenzioni e conclusione della serata a casa sua. Nel suo letto molto probabilmente, o almeno così aveva presunto lui.
Ma come un fulmine a ciel sereno la sua avventura era stata interrotta sul più bello. La telefonata del commissariato di Rimini gli imponeva di intervenire per un caso di omicidio. Aveva anche cercato di darsi un contegno verso Caterina scuotendo il capo dispiaciuto ma sorridente. Ma la collega era stata cinica, diretta, mentre candidamente gli aveva detto che la colpa era solo sua.
«Mio caro Stefano l’hai portata troppo per le lunghe; io ci sarei stata volentieri già da un paio d’ore, ma ormai tutto è svanito…»
“Porca puttana, che idiota!” era stato il suo unico pensiero da quando l’aveva lasciata sotto casa sua fino a ritrovarsi di fronte a quel bello spettacolo.
Insomma, non lo poteva dire apertamente a Katia, ma aveva proprio pensato che per colpa di questi due che si erano fatti fottere in quel modo, anche lui alla fine era stato fottuto.
Con Caterina era stato come risvegliarsi da un bel sogno, per scoprire che era stato solamente un sogno, per l’appunto.
L’agente della volante che era intervenuta, aveva già avvertito la scientifica, ma nella sua testa aveva anche già tracciato la sua solita sentenza di stampo razzista.
«Ispettore, questi zingari non si sopportano più… doveva vedere come hanno conciato quella povera donna!».
Stefano l’aveva squadrato sorpreso «Zingari?!»
«Perché lei non pensa che siano stati loro?»
Lui aveva alzato le spalle allontanandosi senza rispondere e si era riavvicinato all’auto, che nel frattempo Katia continuava ad esaminare.
«Strano…» gli aveva detto lei.
«Cosa?»
«Qui è tutto strano. Non quadra proprio nulla…»
«In che senso?»
«Non si riesce a fare un’ipotesi. Da come era ridotta la donna ho pensato anche a una tortura, cercando di carpire chissà quali informazioni, ma non regge… Perché torturare solo la donna? E perché dentro un’auto all’aperto? Ma anche se fosse, quegli schizzi di sangue fuori dall’auto e sul prato di chi sono?»
Poi aveva continuato nelle sue ipotesi mentre Stefano la seguiva con scarsa attenzione. «E perché uccidere l’uomo se non c’entrava nulla o se volevano solo violentare la donna, allora perché non l’hanno solo immobilizzato? Non ci sono segni sui polsi o sulle braccia, al massimo qualche segno di colluttazione che potrebbe giustificare le tracce sul terreno intorno al sangue. Quindi forse si è ribellato, ha cercato di difendersi ed è stato ucciso con una mazza da baseball. Si vede il segno di un colpo secco al centro della testa che gli ha sfondato la fronte. Perciò era in piedi quando è stato colpito…» Aveva concluso esprimendo a Stefano ulteriori dubbi «Ma perché dopo averlo ucciso, lasciare in vita la donna, che poteva diventare una testimone? E non solo, perché metterlo nel bagagliaio con tutta la mazza? Ma ancora, i colleghi mi hanno detto che gli infermieri dell’autoambulanza che ha portato via la donna, vedendola in quello stato hanno supposto che fosse stata violentata proprio con quella mazza per avere tali conseguenze… ma se l’hanno messo là dentro con la mazza, allora la donna è stata violentata prima di ucciderlo?»
Antenucci era come al solito stupito dal modo di ragionare della collega. Ma era anche scocciato.
Se ne voleva andare da là e invece Katia era come un fiume in piena. Aveva quindi cercato di tagliare corto «Perché? Perché? I perché sono troppi e troppo presto per chiederseli. La prima cosa che si deve sapere sono le identità. Di chi è quest’auto? Chi è quest’uomo? E la donna?»
Katia aveva abbassato lo sguardo, aveva riconosciuto il tono ed era un poco intimidita.
Quel modo perentorio Stefano lo usava quando voleva porre un vero e proprio altolà alle sue elucubrazioni. In fondo lui era sempre il suo diretto superiore. E quindi aveva ammesso remissiva «Giusto…»
Le risposte a Stefano erano però arrivate più presto di quanto pensasse. I documenti dell’auto, ritrovati regolarmente nel cruscotto, dicevano chiaramente come fosse di proprietà di Manuel Conti.
Mentre in un angolo del sedile posteriore, era stato rinvenuto il “marsupiotto” della donna, con dentro la sua patente, a nome di Greta Maykovic, di origini chiaramente slave.
Quindi per Stefano, l’uomo nel bagagliaio doveva per forza essere il signor Conti, e probabilmente la donna si era appartata con lui, rispolverando così l’ipotesi della rapina o della semplice violenza sessuale, comunque finite male.
«Tutto chiaro allora?» aveva chiesto a Katia dopo averle espresso queste sue deduzioni.
Ma lei non aveva avuto neanche il tempo di rispondere che dal loro commissariato era arrivata una segnalazione spiazzante, che indicava come le prime notizie sulle identità fossero completamente contradditorie tra loro.
Manuel Conti era vivo!
In quel momento si trovava proprio al commissariato per fare una denuncia di furto della propria auto, rubata al parcheggio della discoteca Desert Moon, e quindi non poteva proprio essere il morto.
Inoltre quello era anche uno di quei locali dove la notte l’ispettore era stato con Caterina, ricordandogli ulteriormente la sua avventura sessuale sfumata.
«E che cazzo!» aveva esclamato Stefano «Proprio la ciliegina su questa torta di merda che è questa Pasquetta! Adesso ci tocca pure andare a interrogarlo. Con il macello che abbiamo trovato nella sua auto non può certo andarsene con una semplice denuncia.»
«Già…» aveva confermato Katia, cercando in tutti modi di celare il sorrisino di soddisfazione beffardo, che le era spuntato sul volto. Se avesse potuto gli avrebbe sicuramente fatto notare, che lei lo aveva detto, che non era tutto così semplice come aveva cercato di convincerla l’ispettore.

Una stella e una farfalla è un romanzo di Ernesto Benini

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