VILLA MARTINI di Riccardo Martellini

Nella vecchia villa di Martini regnava la calma.

La notte aveva ingoiato il robusto cancello di ferro ribattuto ma non riverniciato, era passata poi al giardino, ampio e spoglio di alberi per finire al tozzo portone blindato. In cambio aveva digerito un silenzio assordante.

Le finestre inferriate e chiuse, assomigliavano più a tante cassette di sicurezza incassate nel muro che a spazi in cui far entrare la luce. Più che far entrare, sembrava dovessero impedire di fuggire.

La villa era squadrata e nera. Un dente marcio che sbucava da un terreno brullo infestando con la sua carie anche il vicinato. Le poche case nei dintorni si tenevano a debita distanza da quel fortino nel cui isolato neanche i grilli osavano cantare.

“Perché proprio lì dentro?” chiese Topo arricciando il naso.

“Non l’hai vista? È praticamente un forziere pieno di tesori pronto per essere aperto.”

Cranio, il capo, ci aveva messo gli occhi addosso da qualche mese. Ci aveva flirtato, l’aveva studiata, e quella sera voleva arrivare in casa base. Era stanco di preliminari.

“A me non piace Cranio, non ci pisciano neanche i cani quando ci passano davanti.”

“Sta zitto imbecille, che se non era per me saresti stato ancora a rubare le offerte in chiesa.”

Topo squittì un risolino nervoso e storse la bocca gettando uno sguardo alla villa Martini. Da dietro il muro in mattoni della vecchia fabbrica di scarpe la magione appariva ancora più tetra e misteriosa.

“Tu che ne dici Lonfo?”

Lonfo tenne fede al suo soprannome e continuò a controllare lo zaino che teneva saldo tra la pancia e un ginocchio.

SBAM!

Una torcia cadde in terrà sparando un bengala di luce nella schiena del ladro accovacciato.

“Manidimerda!” Topo sussultò.

“Scusate…”

“Scusate un cazzo, ormai…”

“Datti una calmata Topo, ho studiato il piano, andrà tutto bene.”

Cranio era fisso sulla villa. Respirava piano, controllando il flusso in entrata e in uscita. Lui  se ne faceva beffe delle paure. Visualizzava il risultato credendoci al cento per cento e lavorando duro per arrivarci. Nessun dubbio, solo certezze. Era quello il suo mantra e la sua proficua esperienza di scassinatore ne confermava le doti.

“Topo, te l’ho già spiegato: il tuo peggior nemico sarà sempre la tua mente, non solo perché conosce le tue debolezze ma perché, soprattutto, le crea. La mente va addomesticata.”

Manidimerda e Topo si lanciarono uno sguardo ebete. Cranio, con quei suoi monologhi cringe creava spesso un imbarazzo nell’ascolto simile al sentire i propri genitori accoppiarsi in camera da letto. Lui era certamente un leader, ma non si trovava su un LandindCraft alla testa di un plotone in pieno sbarco a Omaha Beach. Era a capo di un ragazzotto ruba mance appena avviato alla professione, un idiota disattento e un taciturno ciccione con l’allergia al bagno.

“Hai portato il cloroformio?”

“Certo capo! Era addirittura in sconto alla Lidl!”

“Bene.”

Topo si diede una grattata al cavallo, un po’ per scaramanzia, un po’ per prurito, un po’ per assicurarsi di averle ancora al loro posto. Quello era il colpo più grosso a cui avesse mai partecipato ed era elettrizzato. O forse spaventato, non sapeva bene distinguerli. Però era la sua occasione. Se quello che aveva detto Cranio fosse stato vero avrebbe smesso con i furti e avrebbe messo su un ferramenta con suo fratello.

Guardò l’orologio, le due e trenta. Respirò l’aria secca e rimase a corto di fiato.

Lonfo alzò un pollice verso Cranio. Manidimerda le infilò in tasca come suggerito più volte. Cranio indossò la sua berretta nera fatta ad uncinetto da sua zia Mildred.

Erano pronti.

“Vado io per primo.”

Una mano affusolata lo bloccò all’altezza del plesso solare.

Cranio, il volto scalpellato nel legno, lo fulminò.

Era lo sguardo che caratterizzava tutti quelli delle vecchie generazioni quando guardavano i giovani con quella loro stupida, insolente pretesa di volersi far strada da qualche parte nella vita.

“Il capo sono io, stai al tuo posto Topo.”

Cranio si staccò dal muro come un’ombra coagulata che prese vita nella notte. I suoi compari lo seguirono silenziosi.

Assicuratosi che non passasse nessuno avanzarono fino al muro di cinta della villa. Un vecchio, solido muro metastatizzato d’erbacce. Lo scalarono e in nemmeno un giro di orologio erano nel giardino.

“Nessun sistema perimetrale?”

“No.”

Manidimerda annusò l’aria.

“Sensori di movimento? Telecamere?”

“No.”

Cranio zigzagò nel prato poco curato pestando erbacce, ben attento a stare basso. Gli altri lo tallonarono.

Il passo strascicato di Lonfo sovrastava lo sgambettare di Topo che precedeva Manidimerda. Le orecchie erano allerta, assordate dal martellare del cuore.

Nella villa regnava il silenzio. Ma una strana aura malevola la circondava come una specie di scudo invisibile.

Passarono sotto la pensilina che costeggiava come una gonna tutto l’edificio e si accostarono ad una delle finestre.

Topo notò che l’erba del giardino arrivava a qualche metro dalla veranda, come se da un qualche impercettibile punto in poi avesse paura di crescere.

“Cranio…non ti sembra tutto un po’ troppo semplice?”

Manidimerda sudava come un kebab sul girarrosto.

“Lo è! Secondo te perché mi sono portato dietro il tuo culo maldestro e il novellino?” con un autostop indicò Topo, acquattato poco distante ma non tanto da non sentire.

“Sono mesi che la osservo. Ci abita una coppia di vecchi, nessun amico o famigliare. Sono soli soletti. La villa è praticamente un carrarmato con la porta, dentro devono tenere nascosta una fortuna.”

“Vecchi taccagni” sentenziò Topo sfregandosi le mani.

“Nessun allarme, nessun cane da guardia, …” Cranio bussò piano su una finestra “…e nessun sensore agli infissi!”

“Vecchi dementi” biascicò Manidimerda quasi dispiaciuto per il furto che avrebbero compiuto.

Scivolarono davanti al massiccio portone.

Cranio si inginocchiò davanti alla serratura, ai lati Lonfo e Topo. Manidimerda faceva il palo.

“Passami le chiavi.”

Lonfo lanciò un’occhiata a Topo.

“Le ho date a Manidimerda.”

Cranio si voltò scuro in volto osservando il palo mentre ballava uno strano Tuca Tuca alla ricerca delle chiavi.

“Ehm…mi saranno cadute nel giardino.”

Topo osservò il capo cercando di capire il proprio futuro dall’espressione della sua faccia. Non era contento. E se non era contento Cranio non lo sarebbe stato nemmeno lui.

“Ho rischiato il culo per una copia di quelle chiavi e tu le dai a Manidimerda?!” la voce era un growl basso.

Topo si era rimpicciolito alle dimensioni di una mela, o almeno credette di esserlo. Smanioso come un ragazzino con un disperato bisogno di pisciare.

“Secondo te perché lo chiamano così? Perché non usa la carta igienica?”

Lonfo tirò fuori dalla borsa un grimaldello sbuffando.

“Per fortuna che almeno uno di voi sa fare il proprio mestiere…”

Topo espirò. Era stato con il fiato sospeso per il tempo di un record olimpico.

“…comunque metà della tua parte va a Lonfo” Cranio lo disse come se avesse constatato il prezzo all’ingrosso delle patate.

Topo bestemmiò sottovoce. Vide la ferramenta allontanarsi in un turbinio di cacciaviti, brugole e tasselli.

‘Il pesce inizia a puzzare dalla testa’ pensò, ma la lingua rimase al suo posto.

Dopo qualche sferragliamento il portone cedette. Lonfo si asciugò il sudore dalla fronte con la manica del giubbotto nero.

Cranio si fece avanti.

“Dentro.”

I quattro si riversarono nell’atrio.

Topo sentiva la pelle prudere sotto il parka, con la testa leggera e i piedi pesanti. Ormai era troppo tardi per farsi indietro.

La casa era enorme. Da fuori non si sarebbe mai detto. Quadri con vecchie mappe ingiallite addobbavano le pareti. Madie tarlate occupavano il restante spazio sottostante quasi annegando in un gigantesco tappeto lavorato.

Lonfo fissò la porta con del nastro adesivo in modo da avere una via di fuga pronta. Cranio fece un gesto con due dita a mò di benedizione vescovale ed il gruppetto prese le scale. Dovevano mettere fuori gioco i vecchi così da avere tutto il tempo per ripulire la casa.

“Manidimerda, non toccare niente.”

I gradini cigolavano il loro disprezzo mentre i quattro salivano.

CRASH!

Un vaso era caduto dal suo piedistallo nell’angolo a metà scala. Manidimerda restò paralizzano con ancora il gomito nell’area dove pochi istanti prima c’era il vaso.

“Cazzo” fu la prima parola di Lonfo, e sarebbe stata probabilmente anche l’ultima come uomo libero.

Silenzio. La villa non partorì neanche un sibilo.

Passati pochi istanti che sembrarono settimane i quattro ripresero un colorito conforme alla vita.

Cranio fece un balzo di tre gradini e diede un ceffone e Manidimerda.

“Metà della tua parte diventa mia.”

“Certo che i vecchi hanno il sonno pesante.”

“Sta zitto Topo!”

Arrivarono al piano superiore, un lungo corridoio spoglio che dava alle camere. Ognuno ne perlustrò una.

“Qui!”

La camera padronale era soffocata dalle tenebre, quasi si faticava a riconoscerne i lineamenti. Solo un leggero, regolare respiro confermava che la coppia stava dormendo in quel buio.

“Avanti con il cloroformio.”

Manidimerda estrasse dalla borsa una bombolinaad aria compressa da immersione e la puntò verso l’origine del russare. Dopo una prima nebulizzata si avvicinò per accertarsi di aver drogato per bene i padroni di casa.

STUM!

Manidimerda steso come una pelle di orso di fianco al letto.

“Quell’idiota” Cranio fece un gesto. Gli rispose uno sbuffo.

Lonfo, con un fazzoletto a copertura di naso e bocca, trascinò il compagno addormentato fuori dalla camera.

Cranio non perse l’occasione per assestargli due schiaffoni, Manidimerda si svegliò. Altri due schiaffi per sicurezza.

Topo se ne stava come un ragno, quasi appeso alla parete.

“Aspettiamo.”

Il respiro si fece regolare: i due vecchi dormivano della grossa.

“Bene.”

I quattro si sparpagliarono ai punti cardinali.

Topo entrò in quello che doveva essere lo studio. Librerie stracolme di libri, un’ampia scrivania con fermacarte. Un tappeto nero a pelo corto. Nessuna traccia di casseforti.

Alle sue spalle poteva sentire il rovistare pigro ma cadenzato di Lonfo nella stanza adiacente.

Fasci luminosi delle torce si incrociavano come spade laser mentre passi si spostavano da un armadio all’altro, da un cassetto all’altro.

“Chi va là?”

Topo saltò sulla scrivania allo stesso modo in cui il suo cuore gli saltò alla gola.

“Manidimerda!”

Dell’altro spray venne nebulizzato nella stanza e il vecchio tornò a dormire.

Lasciato il tempo al cuore di ricomporsi i tre uscirono dai loro nascondigli improvvisati.

“Vallo a prendere.”

Lonfo trascinò Manidimerda narcotizzato al centro del corridoio.

Questa volta non si presero neppure la bega di schiaffeggiarlo. Cranio lo rianimò direttamente a calci.

“Che cazzo di narcotico hai usato? Non il classico cloroformio?”

“No capo, questa è una sostanza segreta. Me l’ha data mio cugino.”

“Protossido di azoto? Cloruro di etile?”

“Alotano?”

“Nono, è un miscuglio segreto!”

“Basta che faccia il suo lavoro idiota! È mai possibile svaligiare una casa con i proprietari mezzi svegli e pronti a chiamare la polizia?!”

“Non succederà più capo! Questa volta li ho stesi” ammiccò Manidimerda.

I quattro tornarono a frugare tranquillizzati.

Topo non poté fare a meno di notare quanto il vecchio proprietario fosse appassionato di occultismo e magia. Oltre a libri sull’argomento lo studio nascondeva statuette, maschere in legno, candele di sego mezze bruciate, pestelli, strani talismani e cassettine. Ad ogni stramberia che la torcia illuminava l’umore di Topo si abbassava. Era un vecchio davvero strano.

La sua curiosità fu attratta da una strana figura al centro dello studio. Proprio sopra la scrivania era appesa una specie di bambola voodoo grande come un gatto ma cucita interamente a mano. Si avvicinò per sfiorarla…

“Hey! C’è qualcuno in casa? Chiamo la polizia!”

Topo per poco non svenne. Riuscì a sentire un rumore di passi veloci che si fiondavano nella stanza e il suono della bomboletta che per l’ennesima volta spruzzava la sostanza segreta di Manidimerda.

STUD!

“Questa volta lasciamolo lì, non ne vale più la pena.”

“Cazzo.”

“Se me lo riportate qui davanti giuro che lo ammazzo.”

“Dobbiamo essere uniti” Cranio afferrò il corpo per la terza volta privo di sensi di Manidimerda e lo trascinò nello studio. “Metà della sua parte me la prendo io però”.

Lo appoggiarono alla scrivania e Cranio ritornò nella camera da letto degli anziani. Spruzzò tutta la bomboletta e rincarò la dose con del protossido di azoto che si era portato per queste evenienze.

Topo tornò a dedicarsi alla strana bambola mentre Lonfo svegliava Manidimerda.

Quello, tirandosi su, si appoggiò alla scrivania e, inavvertitamente, spinse un interruttore posto sotto di essa. Una libreria si scostò dalla parete rivelando una porta nascosta.

I tre ladri spalancarono gli occhi increduli.

“Cranio! Cranio vieni a vedere presto!”

Il capo non arrivava.

Manidimerda fece qualche passo immediatamente fermato da Lonfo.

“Aspettiamo Cranio.”

“Non sarà mica svenuto come…”

“Ragazzi, venite qui presto!” la voce di Cranio era squillante, due ottave sopra il solito. E tremava.

I tre saltarono il corridoio ed entrarono allarmati nella camera padronale.

Cranio era in piedi e puntava il fascio tremolante della torcia sui coniugi addormentati.

“Che cazzo di prodotto hai usato Manidimerda?”

“Perché?”

“Sono morti.”

Il silenzio si fece ancora più assordante. Topo vomitò di fianco al comò. Lonfo si avvicinò ai corpi e posizionò due dita ai lati del collo di entrambi.

“Cazzo.”

“Che facciamo? Che facciamo? Siamo degli assassini! Ci daranno la sedia elettrica! Come…”

“Stai zitto idiota! Qui non c’è la pena di morte.”

I quattro osservarono gli ex padroni di casa. I lineamenti ossuti, una volta tesi, erano rilassati. La bocca lievemente socchiusa e lo strano fenomeno della totale immobilità. Sembrava di guardare due materassini gonfiabili a forma umana.

‘Respira’. ‘Respira’. ‘Avanti, una bella boccata’. Tentava di pensare Topo. Poi gli salì un altro grumo di claustrofobia. Nessun respiro. Solo pace.

Se esisteva un inferno doveva essere quello: diventare estranei a sé stessi. Trasformarsi in qualcos’altro. Per poi accorgersi che il Grande Giudice non arriva. Non esiste se non dentro di noi. Non c’è alcun podio, nessuna medaglia, alcun riconoscimento o stretta di mano. Non contano i soldi, o il successo, o le donne. Quel che resta è la fine di tutto.

“Io…io penso che…”

“Dovremmo andarcene subito.”

“Io credo che il tuo pensiero non vale una cicca schiacciata nella merda sotto la scarpa in un giorno di pioggia” Cranio si riprese dal suo stato catatonico. Era il capo e doveva mantenere il culo stretto e la testa lucida.

“Sono due vecchi, sono morti nel sonno. Nessun problema. Avete sempre usato i guanti e tutte le altre protezioni vero?” chiese puntando gli occhi a Manidimerda.

“Sì capo.”

“Sì.”

“Sì.”

“Bene, finiamo il lavoro e andiamocene. Nessuno ci ha visto entrare. Non ci prenderanno mai.”

Topo non riusciva a scorgergli il viso ma percepiva un certo malcelato compiacimento.

“Anzi, adesso abbiamo un problema in meno!”

Cranio vide gli sguardi dei suoi compagni farsi cupi e meditabondi. Come grassi topi che si erano fatti troppo arroganti e avevano provato a sfidare il gatto.

“E non statevene lì impalati imbecilli! C’è del lavoro da fare!”

La truppa rientrò nei ranghi. Cercando di ricomporsi Topo squadrò il suo compagno di fronte a lui, dall’altra parte del letto. Lonfo fece spallucce.

Manidimerda continuava a osservare i due cadaveri nel letto. Lei girata di lato sembrava ancora dormire. Al ladro venne in mente sua nonna Caterina, era da troppo tempo che non le andava a far visita.

“Datti una mossa pezzo d’asino!” Cranio voleva finire il lavoro al più presto possibile. Anche se non voleva ammetterlo la situazione non gli piaceva per niente. La berretta era uno straccio di sudore e il sangue in circolo aveva la consistenza del dentifricio.

“Asino è un’offesa se sei vestito, un complimento se sei nudo. Me lo diceva sempre mia nonna”

Manidimerda era ancora con la mente lontano. Uno scappellotto lo fece ripiombare al presente. Scrollò il muso e sentì leggerezza in quello spazio atto a dividere le orecchie. Solita, vecchia sensazione.

“Capo, vieni a vedere cosa abbiamo trovato!”

Topo si sentiva come se avesse bevuto due bottiglie di vino la sera precedente. E lui era astemio. Seguì gli altri nello studio che ora appariva meno ombroso di prima.

Cranio vide la porta e i suoi duri lineamenti legnosi si piallarono in un sorriso malefico.

“Ottimo lavoro” accarezzò la testa di Manidimerda come fosse un cucciolo che aveva riportato il bastoncino.

“Il Caveau.”

La porta non aveva una maniglia e nessuna serratura. Liscia e dura sembrava una colonna sulla quale poggiava tutta la villa. Tutti restarono a contemplarla immaginando quali ricchezze potesse contenere.

Lonfo non attese ordini, sapeva il fatto suo. Come da manuale provò prima a spingere, poi a tirare. Le basi. La porta non si mosse.

“Come si apre?”

“Prova ‘apriti sesamo’.”

Provarono in tutti i modi, piede di porco, martello, tentativi di sfondamento ma la porta rimase inamovibile. Topo, nel frattempo aveva curiosato per la stanza. La bambola lo osservava ottusa dal muro sopra la scrivania e proprio lì che il ladro notò qualcosa di insolito. Un fermacarte dalla forma insolita, familiare.

“Qui c’è una manopola per la combinazione meccanica!”

“Bravo Topino! Fammi dare un’occhiata.”

Cranio si fece largo spingendo Manidimerda. Questo si riversò sulla scrivania, ad una spanna dal congegno. La manopola era in ottone e probabilmente più vecchia di sua nonna Caterina.

“Lonfo, sei tu l’esperto.”

Il ladro incaricato sbuffò e si mise al lavoro ruotando la manopola in senso orario ed antiorario.

Topo continuò a curiosare per la stanza e si ritrovò ad osservare fuori. Era ancora notte. Sembrava passata una settimana da quando erano entrati in quella casa.

La villa era affogata nelle tenebre. Le luci dei lampioni erano lontane e fioche. Neanche un rumore. Le finestre erano blindate come oblò di una navicella spaziale o di un sottomarino. Gli sembrò per un attimo di trovarsi dentro una bolla fuori dallo spazio e dal tempo. Una realtà diversa e rallentata. Una tomba.

Brividi lo fecero sussultare. A una decina di passi da lui due cadaveri si stavano raffreddando lasciando questo mondo per l’eternità. Sentì le labbra torcersi verso il basso e gli occhi caricarsi di lacrime. Lui aveva seppellito entrambi i genitori, ed una parte di lui era morto con loro. Come quegli anziani che potevano aver avuto figli, nipoti. Come avrebbero preso la notizia? Si mise a piangere. Piangeva per loro, per i suoi genitori. Perché li aveva persi, perché non erano più lì con lui. Scrutò nella notte quasi a sperare in un segno della loro presenza. Dove erano andati? Un posto migliore di questo? Allora perché piangeva se la loro nuova casa era migliore di questa terrena? E gli anziani? Anche loro erano volati nello stesso posto? Di notte non c’è nessuna via di mezzo. Di notte i pensieri o ti cullano, o ti distruggono.

“Stiamo guardando solo una faccia della medaglia. Noi possiamo vedere solo il lato oscuro della morte.”

Topo si voltò e vide Manidimerda che osservava l’oscurità di fianco a lui.

“Non stiamo vedendo il luogo di luce in cui si trovano, però lo possiamo sentire. Ho capito che non devo guardare la morte come la fine di tutto ma come una seconda nascita. Una seconda nascita che passeremo tutti.”

Prese Topo per le spalle e lo fissò dritto negli occhi.

“Non morire con i tuoi morti, rendi loro onore vivendo con la tua autenticità verso te stesso.”

“Manidimerda…”

“Mi chiamo Guido…”

CLACK!

“Uff” Lonfo si asciugò il sudore della fronte con la manica del giubbotto.

“Ottimo lavoro!”

I quattro si accalcarono davanti alla porta che si aprì stridendo la sua protesta.

Cranio si fece avanti con la torcia puntata. Fece un passo dentro e il piede sentì il vuoto. La sensazione del gradino mancato.

“Ma che cazzo…” quattro fasci di luce illuminarono l’interno.

Lo spazio aldilà della porta era spropositato ed immerso nel buio. Topo poteva avvertire la profondità di quel luogo dall’aria che vorticava immobile davanti a lui. La sensazione di trovarsi di fronte al vuoto, come sopra un dirupo o dinnanzi una depressione oceanica. Le luci delle torce si smarrivano nel buio colossale, divorate dall’immensità di quel luogo abissale.

“Cosa cazzo è?”

“Dov’è il tesoro?”

Cranio si sporse sul nero e lasciò cadere la torcia vuoto di sotto. Quella cadde illuminando il nulla, roteando come in una caduta infinita e perdendosi tra le ombre. I quattro raggelarono.

“Capo cos’è?”

“Andiamo via Cranio.”

“Deve essere un ‘Pozzo dell’inferno’ o una cosa simile.”

“Che facciamo capo?”

“Restate calmi. Non so cosa sia questo posto e non mi piace. Chiudiamo la porta e cerchiamo da un’altra parte.”

“Che sia una specie di grotta?”

Manidimerda si affacciò nello spazio infinito e la torcia gli cadde di mano.

“Brutto imbecille, ho già provato a…” le parole gli morirono in bocca.

Nel precipitare il fascio illuminò per un istante una figura colossale. Per la velocità dell’abbaglio non gli diede il tempo per identificarla. Ma Cranio la vide. Smisurato, più grande di qualsiasi cosa avesse mai visto o di cui avesse sentito parlare. Adesso anche gli altri lo avvertirono. Un qualcosa grande come una montagna, un continente, anzi forse come la Terra stessa si stava avvicinando. Topo si sentì come un granello di sabbia davanti alla furia del mare. Nessun suono proveniva dal nulla, solo una presenza sempre più vicina.

Cranio strappò la torcia a Lonfo e la puntò. La cosa era sempre più vicina, informe ed eccezionalmente vasta. Sembrava non avere una sagoma definita. La luce che proveniva dal salotto rendeva la figura della porta come una stella lontanissima in uno spazio cosmico nero. Un’altra dimensione di nulla.

Manidimerda fece due passi indietro e cadde a sedere sul pavimento. Topo singhiozzò e tentò di muoversi ma le gambe non avevano intenzione di collaborare. Lonfo sbuffò. Un pezzo di ghiaccio caldo e sudato.

Uno sfiato provenne dal vuoto. Profondo e gorgogliante.

“Correte!”

Lonfo partì di scatto sbilanciando Cranio. Quello tentò di aggrapparsi a qualcosa ma non vi era nulla a salvarlo. Cadde urlando nella notte eterna. Come una goccia di pioggia che si immerge nell’oceano e si fuse con l’enorme niente senza aver mai desiderato altro nella sua breve, inutile vita.

Topo, incredulo lanciò un urlo gutturale e seguì Lonfo fuori dalla stanza.

Mentre svoltava lanciò uno sguardo dietro di sé e vide Manidimerda scivolare sul tappeto e cadere in terra. Sotto al tappeto incisioni rosse di simboli antichi.

Sbattendo contro lo stipite della porta saltò la prima rampa di scale e si ritrovò nel pianerottolo.

Il grido di Manidimerda si spense mezzo piano più su. Volò lungo i gradini rimanenti tenendosi ai corrimani balzando come un ginnasta alle parallele fino a ritrovarsi al piano terra.

Nell’atterraggio si storse una caviglia ruzzolando in terra. Il dolore lo pugnalò su nella gamba fino a piantarsi nel cervello.  Rotolandosi in terra vide Lonfo che cercava di scassinare una finestra senza risultato. Tirava e calciava completamente folle di paura.

“Questa casa non è stata costruita in questo modo per evitare che i ladri entrino…”

Si voltò verso il ragazzo riverso a terra. Il volto paonazzo madido di sudore.

“…ma per evitare che qualcosa esca!”

Topo per un attimo vide tutto grigio. I polmoni sembravano essersi dimenticati di respirare, si costrinse contro la sua volontà.

Con l’ultimo briciolo di sanità mentale si ricordò della porta principale lasciata aperta dal nastro adesivo. Strisciò come un soldato fino all’ingresso.

Con un dolore lancinante si aggrappò alla maniglia e strappò il nastro che teneva socchiusa l’unica via di fuga da quell’incubo.

Sentì per un istante l’aria dell’esterno, fresca e golosa. Intravide il profilo di una casa lontana, pensò ai suoi abitanti che nel giro di qualche ora si sarebbero svegliati per iniziare una nuova giornata.

Topo pensò che se potesse esistere un ‘mai più’ era proprio questo. Quei conti da fare con sé stessi: come si era vissuta la propria vita? L’insanabile tormento del ‘vorrei averlo fatto’, il desiderio di aver voluto dar via tutto per poter tornare indietro e seguire nuovi percorsi.

Chiuse la porta, blindando quella cosa al suo interno, con sé stesso. Con la sua vita.

Si voltò verso il suo destino ridendo del suo coraggio, della sua buona azione.

Ma fu un pensiero che si sciolse nel tempo, nel silenzio di quell’ultimo respiro.

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