IL BASTARDO di Monia Minnucci

Ero sempre stato una testa calda, una testa di cazzo che mentre ti accoltella sorride.

La mia filosofia di vita non contemplava debolezza e se in un affare avevo solo il sentore dell’altrui malafede, bene… l’altro era bello che morto.

Il mio nome è “No one”, che tradotto significa “Nessuno”.

Quando entrai nel giro scelsi subito questo nomignolo, forse perché nessuno m’aveva mai calcolato davvero o, più semplicemente, mi piaceva l’idea che anche un Signor Nessuno potesse diventare qualcuno.

La mia strada era già tutta spianata, nessuna esitazione, nessun rimorso, un DNA da criminale, sin da quando pisciavo contro i muri o mi divertivo a minacciare gli intrusi che inavvertitamente mettevano i loro lordi piedi nel mio quartiere.

Mia madre era una puttana grassa e acida e mio padre un alcolizzato puzzolente che di certo non andava a domandarsi da dove venissero i soldi che gli rifilavo per la bottiglia. No, non mi picchiava! Gliele davo io! Solo per vederlo battere la grossa mamma-vacca. Non avevo pietà, non avevo mai provato un sentimento degno del suo nome.

Gironzolavo per il quartiere con i miei compari a spacciare droga: anfetamina, metanfetamina, eroina, ketamina, e chi più ne ha più ne metta.  Ritiravamo le consegne agli aeroporti, minacciavamo i commercianti e ci divertivamo a sfottere le puttane del quartiere, dopo averle rapinate.

Per i miei amici ero un dio, per tutti gli altri… una minaccia.

Del resto, ero solo, nessuno mi aveva mai degnato di una carezza o di uno sguardo amorevole, tranne Patty.

Patty era stata la mia ragazza. L’avevo conosciuta al secondo anno di liceo, prima di lasciare sia lei che gli studi ed entrare nel giro. C’eravamo amati. Mi piaceva stare con lei, non aveva quell’odore stantio delle altre ragazze, era intelligente e simpatica.

Quando seppe dei miei esordi bastardi, provò a tirarmi fuori, ma non ci riuscì. Il suo amore pressante mi infastidiva. Cominciai a scacciarla. Ma, come biasimarmi? Nessuno m’aveva mai amato.

La gradevolezza dell’inizio si risolse in oppressione e Patty, come avevo voluto, andò via.

Sono passati tanti anni, sono molto diverso da allora, ma il suo nome lo ricordo bene.

Si trasferì lontano… lontano da me.

La carriera d’un angelo caduto è roba di lusso. Tutti si incuriosiscono davanti al “Signore del reato”, i media praticamente ci devono il lavoro e le casalinghe frustrate i pettegolezzi, mentre il resto del mondo ci deve un prezzo per vivere in pace.

Cos’era quel prezzo da pagare lo capii puntando la mia “DesertEagle”, semiautomatica, modello ultimo, giù per la gola di uno sbirro che s’era montato la testa. Prima che gli facessi schizzare le cervella, lo vidi sbiancare come un fantasma, il suo volto si liquefece in lacrime e sudore… Si cagò pure addosso. Non provai alcun moto, riposi l’arma nel taschino del panciotto e andai a farmi una birra con Tony Marciano.

Eravamo i signori del mondo, non di tutto il mondo, ma di quello a noi conosciuto.

La città era quasi del tutto coperta dalla nostra rete di traffici, avevamo fatto fuori ogni sorta di testa di cazzo che ci s’era piantato innanzi e puntavamo all’espansione oltre confine.

Mi stavo pulendo le scarpe, quando il macellaio che lavorava dirimpetto casa mia arrivò trafelato e cominciò a balbettare qualcosa riguardo un suo nipote tossico, trovato morto nella zona sud del paese. Disse che all’autopsia avevano rilevato una sostanza nuova e terribile, dal nome assurdo… sicuramente non l’avevamo smerciata noi.

Con i miei ragazzi facemmo un giro di ispezione nel luogo indicatoci, notammo lo strano atteggiamento di chi voleva evitarci. I tossici voltavano le spalle o guardavano in terra e le puttane ci sorridevano di quel sorriso:

«Non so nulla, tesoro!»

Un altro paio di decessi per overdose ci fece drizzare le antenne.

Andammo a cercare un nostro informatore che dopo aver pianto, pregato e tentato una fuga impossibile, ci avvisò di una nuova organizzazione, tutti giovani dai venti ai trent’anni che s’erano arrogati il diritto di vendere droga senza pagarci un cazzo di diritti sulla zona.

Li beccammo.

Morirono tutti, male e molto lentamente.

Quel massacro sarebbe valso d’esempio a chiunque avesse inteso ripetere l’operazione. Quando lasciammo quel cumulo di cadaveri, mi sorpresi a pensare all’iride verde del ragazzo col panciotto rosso: occhi bellissimi a mandorla.

“Un ragazzo con quegli occhi non dovrebbe morire così!” pensai.

Dopo quella carneficina decisi di averne abbastanza e mi ritirai nella casa d’infanzia dalla quale continuai ad impartire ordini alla mia fottuta Gang.

Era mattina, faceva caldo, un caldo bestiale, quelle stramaledette zanzare continuavano a pungermi fra le dita dei piedi. Andai in bagno a rinfrescarmi, attendevo gli operai per ristrutturare l’ala nord della vecchia casa che cadeva a pezzi, sapeva di muffa e morte.

Il campanello suonò. Un paio di trilli.

Quando aprii, mi trovai di fronte una donna. Doveva essere sulla quarantina, ben vestita, truccata, capelli perfetti.  Mi sorrideva. La guardai meglio strizzando le palpebre, … mi ricordava qualcuno, un lumicino lontano nell’antro dei ricordi archiviati.

«Ciao, non ti ricordi di me? … Sono io, Patty!» disse con voce calma quasi glaciale.

«Cazzo, Patty! … Entra! … Scusa il casino, aspetto gli operai.»

Le indicai la sala da pranzo adiacente al corridoio.

«Allora, come stai? … Come ti vanno le cose?» chiesi, versando del vino d’annata nei bicchieri di cristallo, quelli buoni.

«Beh, mi sono laureata e lavoro come psicologa in un centro di riabilitazione. Tu?»

«Sono in affari! … Sai, import-export» mi limitai a dire.

«Sposato? … Figli?»

«No!»

Le porsi il vino.

Afferrò il bicchiere e iniziò a sorseggiare con la grazia che le avevo da sempre attribuito. Parlammo per circa un’ora, mi analizzò fin negli intestini, ricordammo la nostra storia e capii di non aver mai smesso d’amarla … l’avevo solo accantonata.

Ritrovammo subito la nostra vecchia intesa.

Poi si fece seriosa. 

Aprì la piccola borsa di pelle nera ed estrasse una foto. Un neonato buffo e raggrinzito dormiva placidamente nel suo lettino.

«Carino, chi è?» domandai, fingendo interesse.

«Mio figlio Giovanni!» rispose.

«Ah, … non sapevo avessi un figlio. Sei una mamma, allora!» …. un poco mi infastidiva la faccenda.

«Guarda questa!» disse mentre mi passò un’altra foto e iniziò a rovistare nella borsetta, stavolta visibilmente nervosa.

Guardai il soggetto della foto, un ragazzo sui vent’anni, capelli ricci, altezza media, occhi verdi …  “Un ragazzo con quegli occhi non dovrebbe morire così!”

Era lui! Il giovane che avevo fatto fuori in Mather Street.

Sollevai lo sguardo. Patty mi stava davanti e mi puntava addosso una Revolver Colt.

La guardai inebetito.

«È tuo figlio?» domandai.

Non avevo paura di morire, ma di quel suo sguardo sì.

«No, è il tuo! … Ero incinta quando ti lasciai! Voleva essere come te, voleva somigliarti! Voleva … che tu fossi fiero di lui!»

Una risata stridula, isterica le esplose dalle viscere di quel dolore.

Poi si infilò la canna in bocca e fece fuoco.

Rimasi lì a guardare Patty nella pozza del suo sangue.

Mi scolai la bottiglia di Whisky. Raccolsi la foto del giovane e carezzai le chiome di lei, zuppe dei miei peccati.

Ascoltai in lontananza le sirene delle volanti che accorrevano.

Non avevo molto tempo.

Restavo, comunque, un bastardo, di quelli che pensano a salvarsi il culo. Rimasi congelato ad ascoltare le mille pulsazioni che mi ridettero un cuore. A questo punto, avevo due possibilità: infilarmi la Revolver Colt su per il culo o redimermi.

IL BASTARDO è un racconto di Monia Minnucci

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