IL VECCHIO MONACO E IL DIAVOLO di Alberto Arecchi

Foto di Comfreak da Pixabay

La neve schizzava sotto gli zoccoli dei cavalli, sbriciolandosi in mille minuscole schegge, cristalli di quarzo e d’argento.

Il sole invernale s’era levato da poco dalla cresta della montagna e traeva mille bagliori luminosi da ogni spruzzo sollevato, da ogni cristallo trasportato negli sbuffi del vento gelido.

La carrozza, trainata da quattro puledri bianchi, saliva a fatica nella neve ancora intatta e stava per raggiungere il passo del Penice, tra le cime dell’Appennino che qualcuno chiama pavese, qualcun altro ligure.

Era scortata da dodici nobili cavalieri armati di lancia, spada e scudo rotondo, tutti coperti d’armature fatte di scaglie dorate, con l’aspetto di pelli di pesce, dai riflessi lucenti.

Sugli elmi dei cavalieri sventolavano alti pennacchi di colori vivaci, rossi e blu. Il corteo era preceduto dagli stendardi regali: un lungo drappo, su cui era effigiata la vipera blu, animale protettore delle tradizioni longobarde, e il palio di San Giovanni Battista, protettore personale della Regina Teodolinda e dei suoi armati. Un terzo alfiere innalzava una croce col bastone pastorale, a segnalare la presenza d’un importante uomo di Chiesa.

Erano gli ultimi giorni dell’anno 600 dell’Era cristiana.

Sulla vetta del monte Penice, nei tempi antichi, i legionari di Roma avevano eretto un tempio pagano.

Quella era stata una frontiera di lunghe guerre fratricide: solo cent’anni prima, i Goti avevano combattuto contro i Greci Bizantini, proprio tra quelle balze.

L’altezzosa regina di stirpe bavarese, bella e bionda, nel fiore dei suoi trent’anni, suscitava affetto e ammirazione nei nobili a lei fedeli e nella scorta. Cristiana “integralista”, come diremmo noi oggi, aveva invitato alla sua corte il monaco Colombano, che proveniva dalla Francia e stava attraversando il regno longobardo per andare a render visita a Roma alle tombe degli Apostoli.

Nel Medioevo, tutti i conflitti di potere si ammantavano di questioni teologiche e coloro che soccombevano erano, inevitabilmente, bollati con il termine di “eretici”. Colombano era riuscito a dirimere un aspro confronto in materia religiosa tra la regina (spalleggiata da suo marito, il re) e il pontefice romano.

Ora la regina intendeva manifestare la propria gratitudine offrendo in dono al monaco, che l’accompagnava, un vasto territorio, a cavallo delle montagne.

Sarebbe stato il primo “Stato della Chiesa”, ai confini delle regioni che conosciamo con i nomi di Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia e Toscana, ma soprattutto avrebbe assicurato, come uno stato-cuscinetto, un passaggio sicuro sempre garantito verso il mare per i re longobardi e per le loro truppe.

Giunta sul crinale del passo, la carrozza sostò. La scorta circondò lo spiazzo, i cavalieri abbassarono le lance e gli stendardi furono piantati nella neve. Un servitore si mise a battere accuratamente la neve e apprestò una specie di stuoia ai piedi della carrozza.

La Regina dei Longobardi scese, maestosa, coperta da un lungo mantello bianco, con passo sicuro e gesti eleganti, e si rivolse all’anziano monaco irlandese, dal saio rosso, per pregarlo di seguirla.

Ultrasettantennne, ma ancora arzillo, Colombano si appoggiò al suo bastone, si guardò intorno, mosse alcuni passi nella neve in direzione del sole e scrutò pensoso la valle che si apriva di fronte, mentre il vento, che traeva spruzzi bianchi dai crinali, sollevava folate di neve intorno a lui e gli scompigliava capelli, candidi anch’essi come neve.

Proprio mentre scrivo queste frasi, un poco imbarazzato, mi rendo conto che anch’io, oggi, ho raggiunto l’età del “vecchio monaco arzillo”. Come lui, il continuo vagabondare d’una vita ha contribuito a temprarmi, senza fiaccare la vivacità degli anni giovanili.

Non esistevano allora, in quel luogo, le alte antenne di trasmissione della televisione, che oggi caratterizzano il luogo e si vedono sino a grandi distanze.

La giornata era limpida e verso nord lo sguardo spaziava libero, nel cielo nitido, sino alle cime innevate delle Alpi.

Sembrava quasi che Colombano volesse spiccare il volo, per toccare con mano l’intero borgo di Bobbio, con i suoi camini fumanti, laggiù nel fondovalle.

Un poco in disparte, si notava laggiù una chiesetta in abbandono, quasi diroccata. La regina dei Longobardi intendeva donare quella chiesa, col borgo intero e molte terre intorno, a Colombano ed alla Chiesa, per fondarvi un centro di diffusione pacifica della fede cristiana. La regina volle concedere al monastero persino alcune preziose boccette d’olio santo, ricevute in dono dal papa Gregorio.

Colombano era un monaco celtico, erede degli antichi Druidi. Si era installato nelle isole che si trovano nello stretto tra l’Inghilterra e l’Irlanda, per fondare le prime comunità monastiche dell’Occidente cristiano. Aveva poi speso gran parte della sua vita a fondare monasteri, nel Paese dei Franchi, e infine, a causa del suo carattere, i confratelli se ne erano sbarazzati.

Così, era partito in pellegrinaggio per recarsi a Roma, ma i re longobardi l’avevano fatto fermare presso di loro e gli avevano offerto la fondazione d’un nuovo monastero, tutto per lui, sulle cime dell’Appennino italiano.

Il vecchio monaco era commosso all’idea d’un nuovo nido di religione, di meditazione e di saggezza, che potesse nascere grazie alla sua opera. Raccolse intorno a sé alcuni giovani volonterosi e chiamò altri monaci dalle lontane isole d’Occidente. Restaurò la chiesetta diroccata, consacrata a San Pietro, costruì le prime celle per sé e i suoi discepoli e impose severe regole di vita.

Nella quaresima dell’anno seguente, quando la primavera cominciò a sciogliere le nevi e fece fiorire i prati, s’incamminò su per la montagna e si ritirò in meditazione e penitenza in un eremo, dedicato a San Michele. Ritornava al monastero soltanto la domenica, per celebrare la messa e trascorrere la giornata festiva con i confratelli.

Colombano visse lassù, tra quei monti, gli ultimi anni della sua vita, affrontando fatiche e rischi, che le tradizioni locali raccontano ancora in chiave fantastica.

Come tutti gli eremiti, ebbe duri e continui scontri con il diavolo. Vogliono le leggende che le tracce di quelle battaglie si trovino ai Sassi Neri. Un’antichissima colata lavica scende in un vallone e crea forme paurose, anfratti, enormi massi dall’aspetto tetro. Secondo la tradizione quelle rocce conservano le tracce carbonizzate degli strali demoniaci e forse, guardando bene, si distinguerà ancora il diavolo stesso, rimasto pietrificato per le preghiere del santo.

Si dice che, quando Colombano andò a meditare in solitudine, il demonio lo seguisse. Incontrarono una donna che aveva del riso nel grembiule. Senza pronunciare una parola, Colombano ne prese una manciata e la lanciò contro il suo persecutore. Per miracolo, i granelli di riso, al toccare il demonio, si trasformavano in sassi neri e formavano grotte spaventose, in una gigantesca frana, quasi una cascata diabolica.

Un’altra leggenda narra che il diavolo avesse realizzato una bellissima inferriata. Molti fabbri cercavano d’imitarla, ma l’opera era unica ed esclusiva.

Colombano, invece, costruì un mulino bellissimo, bianco, trasparente, fatto di ghiaccio. Il demonio si unì ai curiosi e andò a vederlo. Gli piacque molto e disse al Santo:

«Se mi dai il tuo mulino, ti ricambierò con la mia inferriata che nessun fabbro riuscirà mai ad imitare!»

Colombano, che la desiderava da tempo, annuì ed il contratto fu concluso. In quel momento si alzò un vento caldo, il mulino di ghiaccio si sciolse e crollò.

Il diavolo, sdegnato, gridò ghignando al monaco:

«Ti lascerò ugualmente la mia inferriata, se sarai capace di trasportarla col solo aiuto del tuo asino!»

Si trattava di un’inferriata gigantesca, molto pesante, fatta tutta d’un pezzo, ma il santo la piegò miracolosamente in quattro parti e, senza fatica, la caricò sulla groppa del suo paziente somaro.

Strada facendo, Colombano s’imbatté in un vecchio contadino che stava seminando piselli. Lo guardò con benevolenza, gli chiuse gli occhi in un sonno profondo, fece maturare rapidamente i piselli e proseguì tranquillo il proprio cammino.

Il demonio, intanto, seguiva con crescente irritazione le orme dell’asino, ma batteva una strada falsa, giacché il santo, per far perdere le sue tracce, aveva girato al contrario i ferri al somaro, in modo da fargli credere che andasse nella direzione opposta.

A un certo punto, tuttavia, il diavolo, accortosi dell’inganno, tornò sui suoi passi e, accecato dall’ira, si mise a correre. Incontrò il vecchio contadino.

«Avete visto» gli chiese «un uomo con un asino, carico di un’inferriata?»

«L’ho visto» gli rispose «quando seminavo questi piselli!» e con compiacimento, gli indicava che erano già maturi.

Il diavolo, per correre meglio, gettò rabbiosamente sul luogo del miracolo i grossi sassi neri, che aveva portato per scagliarli contro Colombano, sperando di raggiungerlo e di strappargli l’inferriata con la forza.

Il diavolo non venne a capo di nulla, poiché la leggendaria inferriata era stata religiosamente nascosta nella cripta sotterranea dell’Abbazia, ove si trova tuttora.

Mi piace e mi diverte immaginare il monaco settantenne che si scatenava in una giga frenetica, al suono delle cornamuse, indirizzando sberleffi al diavolo beffato.

Fu allora che Colombano pronunciò una profezia solenne e terribile:

«Sino a quando i monaci del mio Ordine saranno ben stabiliti su questi monti, e sino a che questa inferriata rimarrà nella mia chiesa, nessuna forza diabolica potrà prevalere sulla religione cristiana.»

Possiamo vedere ancor oggi l’inferriata di San Colombano, nella cripta dell’Abbazia di Bobbio. È un’opera medievale che incanta per la sua bellezza.

I monaci dell’Ordine di Colombano non ci sono più. L’Abbazia oggi, in parte, è trasformata in scuole, in un’ala ospita un museo aperto al pubblico, e la chiesa è in mano al clero secolare, ma potete vedere ancora le impronte del demonio profondamente incise in vari luoghi delle montagne circostanti, intorno al borgo antico e alle cappelle fondate dai frati sui Sassi Neri. La tradizione vuole che si tratti dei segni lasciati dal maligno durante le sue scorribande notturne, ancora e sempre alla ricerca della celebre inferriata.

IL VECCHIO MONACO E IL DIAVOLO è un racconto di Alberto Arecchi

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