IMPIEGATA NUMERO 13 di Viviana De Cecco

Nell’ufficio deserto non si udiva nient’altro che il ritmo martellante della stampante laser.

Maddalena, che era stata costretta a fare due ore di straordinario, era in piedi accanto a quel mostro che rigurgitava documenti con la stessa velocità con cui il suo cuore batteva all’impazzata.

Quel suono, che non sembrava avere mai sosta, si dilatava nel silenzio della stanza.

La luce tagliente che illuminava il corridoio, uccideva le ombre e trasformava l’ampio studio commerciale in un palcoscenico vuoto e inanimato.

Era toccato a lei, l’ultima arrivata, prostrarsi a una serata di lavoro senza fine. Quell’incarico di archivista e addetta alle fotocopie non le piaceva più e si era resa conto che qualcosa di indefinito la terrorizzava.

L’avevano assunta da una settimana, grazie alle insistenze della sua migliore amica. Eleonora era stata sua compagna di adolescenza e aveva quasi sposato l’uomo che, poi, era stata Maddalena a condurre all’altare.

Per qualche mese c’era stato tra loro un violento rancore, ma ora Eleonora le aveva dimostrato quanto tenesse alla loro amicizia.

Conoscendola meglio di chiunque altro, sapeva che la sua personalità ansiosa le avrebbe impedito di trovare un’occupazione poco tranquilla e che il suo ideale sarebbe stato una mansione priva di stravolgenti avventure.

Maddy, come la chiamava, una ragazza timida, riservata e abitudinaria. C’erano giorni in cui non riusciva a gestire la sua vita senza uno schema prestabilito. Al colloquio, quando il capo di Eleonora, nonché suo fidanzato quasi ufficiale, le aveva comunicato di averla introdotta nello staff, lei aveva esultato in silenzio. Dietro una scrivania, sarebbe stata al sicuro.

Eleonora le aveva stretto la mano e si era congratulata per il suo piccolo successo.

«È tutto merito tuo», le aveva risposto Maddalena con un filo di voce.

«Certo che no, mia cara. Se non avessi le qualità giuste, Marco non ti avrebbe fatto nemmeno vedere la porta di quest’ufficio!»

Adesso, che era sola e pensava a quello che le stava accadendo, cominciava a pentirsi della sua decisione.

Benché avesse ringraziato l’amica, non aveva il coraggio di confessarle che aveva paura. Erano giorni che la sua mente era in preda a un delirio superstizioso. Lei era l’impiegata numero tredici.

Nel garage del palazzo, al suo parcheggio, era stato assegnato il numero tredici. Per sua fortuna, non era accaduto con la sua stanza, in fondo al lungo corridoio vicino alla tromba delle scale.

Era soltanto la numero dodici.

Il fatto che fosse di fronte a quella di Eleonora la rassicurava almeno in parte.

Ogni tanto, sedute da un lato all’altro dell’andito, si lanciavano occhiate distratte e brevi sorrisi di conforto. Eleonora le portava il caffè e chiacchierava con lei per una pausa velocissima.

Era arrivata al punto di voler rimanere a casa, nell’abbraccio sicuro di Gabriele. Quell’edificio a vetri, in centro città, era una trappola che l’avrebbe imprigionata senza speranza.

Ogni volta che premeva il freno per inserire la sua macchina tra le due linee gialle che delimitavano il suo spazio, percepiva una corrente malefica spirare da quell’enorme numero dipinto sul cemento. Le dava quasi l’impressione che una voce sottile si levasse da sotto il ventre del Suv, che suo marito le aveva prestato, e che recitasse un invito a fuggire finché ne avesse avuto l’occasione.

E poi, c’erano quei dettagli che richiamavano la sua attenzione.

Tredici.

Quella mattina, Eleonora le aveva assegnato tredici fascicoli da catalogare. Tredici graffette erano rimaste inutilizzate nella scatolina appoggiata sulla sua scrivania. Possibile che dovesse farsi sempre condizionare da quelle assurde teorie sulle atrocità del destino?

Quando ne aveva parlato con Giada, una delle colleghe più anziane, l’aveva osservata quasi con una sorta di compassione.

Devo smetterla di fissarmi, si disse.

Ma nell’attesa che la stampa finisse quel sadico gioco di rumori e cartucce inesauribili, iniziò a contare per gioco le tazzine di caffè che lei ed Eleonora avevano bevuto nel corso dell’intera giornata. Sussultò come se una freccia l’avesse colpita in pieno petto.

Mio Dio, pensò.

Tredici.

Le contò nuovamente. No, non si era sbagliata.

La signora che puliva l’ufficio si era dimenticata di svuotare il suo cestino.

Maledizione. Ma che le stava succedendo? Doveva calmarsi e tutto sarebbe andato per il meglio.

Si sentiva smarrita. Quel silenzio era opprimente. Nello studio Ricciardi non c’era anima viva e lei non faceva che pensare a quel numero che si era insinuato nella sua vita.

Tredici.

Se ci fosse stato suo marito Gabriele, ne avrebbe riso con aria di superiorità. Era lui quello razionale e ancora si chiedeva perché l’avesse preferita a Eleonora.

La sua amica era meno fragile, più bella e assolutamente portata alle relazioni sociali.

Lei si sentiva spesso come una foglia in balia del vento impetuoso delle sue angosce. La paura era scritta nel suo DNA. L’aveva ereditata da sua madre e non c’era alcuna speranza che il suo carattere mutasse direzione. Era un marchio indelebile.

Tredici.

Quel numero la gettava in una spirale di panico. Perché non riusciva a essere forte? Perché? Forse Gabriele l’aveva scelta per quella ragione. Lei era obbediente e mansueta, solitaria e fedele. Ottime qualità per una moglie devota.

Eleonora, invece, era fatta di una pasta attraente, ma pericolosa. In lei, tutto era un esplosivo pronto a esplodere. Era una donna senza timori e viaggiava dritta verso la meta prefissata.

Mentre rifletteva, Maddalena colse con gli occhi un’ombra.

Nel corridoio.

No, sto sognando. Impossibile.

Tredici.

I suoi pensieri volavano verso quel numero. E se le fosse davvero accaduto qualcosa di orribile?

La stampante continuava a produrre un esercito di fogli, ma lei non ne stava raccogliendo neppure uno. Le sue mani tremavano. Sulla scrivania, il cellulare iniziò a squillare. Era Gabriele.

L’ombra era là fuori. Sulla parete si disegnava un profilo indistinto. Maddalena sentì le tempie pulsare. Il suo istinto aveva ragione. Quella sera, quando Eleonora le aveva chiesto di restare, avrebbe dovuto dar retta al suo stomaco in subbuglio. Come poteva l’impiegata numero tredici restare sola in quel luogo? Ma non aveva fiatato per non apparire ridicola.

Riportò lo sguardo verso la porta aperta.

Il cellulare smise di squillare.

Niente.

Soltanto silenzio e bianco. Il candore accecante del neon. Fuori dalla finestra, invece, il buio premeva sulla città.

Si decise a lasciare quel posto. Era stata sicuramente una suggestione, ma sentiva che la sfortuna alitava sul suo collo esile. Abbandonò i fogli sul pavimento, spense la stampante e raccolse telefono, borsa e cappotto per uscire da lì.

L’ascensore era troppo lontano per rischiare di raggiungerlo senza protezione.

Le scale.

Erano a due passi da lei.

Si guardò intorno con circospezione, ma non vide nulla di strano. Il suo corpo era un fascio di nervi elettrificati. Strinse al petto la borsa, come se volesse convincersi che potesse attutire il rimbombo del suo cuore.

Avanzò lentamente, ma quando raggiunse la soglia della porta che conduceva alle scale, si fermò con gli occhi stravolti. Sul battente in legno, che era sopravvissuto alle recenti ristrutturazioni, era ancora attaccata la targhetta con il numero di quel vecchio stanzone da cui era stata ricavata la tromba delle scale.

Tredici.

Era la porta numero tredici.

Maddalena gridò e alle sue spalle si udì il fragore della stampante che si rimetteva in movimento.

Si voltò di scatto e finalmente l’ombra si abbatté su di lei. La spinse con una tale forza che la fece indietreggiare verso la rampa. La afferrò per le spalle e, consapevole che Maddalena era in preda alla sua paralisi superstiziosa, la aggredì con tale violenza che riuscì a condurla sull’orlo di quel baratro.

Maddalena cadde nel vuoto, con lo sguardo terrorizzato e la bocca che avrebbe voluto gridare soltanto una cosa.

Tredici.

Lo stesso numero che, in quel preciso istante, Eleonora osservava compiaciuta.

Il suo piano era perfettamente riuscito.

In ufficio tutti sapevano di quanto fosse fragile la mente di Maddalena.

Ancor prima di essere stata assunta, Eleonora aveva spiegato che non sarebbe stata una buona idea darle quella stanza. Ma il suo capo-fidanzato ne aveva riso di gusto, così come l’aveva fatto Gabriele nella loro ultima telefonata. Era stato quello a convincerla che nessuno avrebbe sospettato che lei, la povera amica, buona e altruista, aveva tentato di aiutarla.

Nessuno poteva immaginare quanto odio avesse covato per quella donna insignificante che le aveva rubato l’uomo che amava con tutta sé stessa.

Nessuno avrebbe indagato su di lei.

La fortuna era cieca e questa volta si era realmente abbattuta sulla mente malata di Maddalena fino a spingerla al suicidio.

Sì, sarebbe stata un’ottima spiegazione. La sua vendetta, di donna e amica tradita, sarebbe rimasta nascosta per sempre dietro la superstizione dell’impiegata numero tredici. Quella di cui, tutti, avrebbero parlato con un misto di orrore e scetticismo. Era stata lei a disseminare quei vari numeri tredici per l’ufficio.

Le tazze di caffè, le graffette, i fogli.

Quando Marco l’aveva sfidata a vedere quanto avesse avuto ragione sulla sua amica, si era sentita pienamente soddisfatta.

Marco aveva ingenuamente scommesso sulla salvezza di Maddalena, senza sapere che sarebbe morta. Non certo per mano di quella credenza, ma sarebbe stato divertente assistere allo stupore dei colleghi non appena avessero trovato il suo corpo. Tutti avrebbero di certo creduto a un incidente.

Osservò con un ghigno il cadavere che giaceva ai piedi dell’ultimo gradino e cominciò a scendere le scale per accertarsi che fosse morta.

Il volto era una perla cerea che si stagliava nel buio.

Evitò di accendere la luce per non ricordare quella pozza di sangue che si allargava in mezzo ai capelli biondi di Maddalena.

Le sfiorò un braccio con la punta delle scarpe.

Nessun movimento.

Il suo era l’unico respiro che aleggiava nell’oscurità.

«Addio, cara,» disse, maligna.

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