DOMINIUM DEI di Ivo Mej (prima parte)

Anima di Cristo, santificami. Corpo di Cristo,

salvami. Sangue di Cristo, inebriami.

Acqua del costato di Cristo, lavami.

 Passione di Cristo, confortami. O buon Gesù,  

 Esaudiscimi. Nelle tue piaghe, nascondimi.

Non permettere che io mi separi da te.

Dal nemico maligno difendimi. Nell’ora della mia                                

Morte chiamami e comandami di venire a te

A lodarti con i tuoi santi

nei secoli dei secoli.

Amen!

Fingendole, le storie arrivano a essere più vere dei fatti veri che raccontano.

O nulla o tutto si dovrà credere; non si deve creder tutto: dunque nulla si crede.

L’autodafé del 21 settembre 1761 fu uno dei più meravigliosi che si fossero mai visti.

Per il giorno del supplizio vennero costruite delle logge intorno alla piazza del Roçio: la Cavalleria e la Fanteria dall’estremità della piazza si distendevano fino alla porta del Convento dei Domenicani.

Ciascun soldato venne provvisto di otto cartocci affinché il cibo non mancasse e il palco sul quale venne pronunziata la sentenza «a’ rei» era stato allestito in anfiteatro, e riccamente addobbato.

Donna Marianna, la Regina, non fu presente all’autodafé: ben tre salassi le praticarono malgrado pregna del seme del nostro Sovrano e grandemente la debolezza la colpì in questa giornata. Onorò invece della sua presenza il volgo e nobilitò questo consesso di giustizia il Governatore del Regno, Sua Eccellenza Sebastiano Giuseppe de Carvalho e Mello, il quale molto si spese in questi ultimi anni acciocché gli eretici e i nemici della Corona avessero la loro dovuta ricompensa.

Non era qui il Re, Sua Maestà Giuseppe il Riformatore, provato negli ultimi giorni da ripetute e indicibili doglie del ventre con conseguenti imbarazzanti flatulenze che fin troppo lo distrassero dalle incombenze di governo. Per la qual cosa il Re giunse perfino a chiedere la confessione che, congiunta alle cure dei cerusici, lo condussero finalmente ad evacuare le sue pene. Pur tuttavia – sebbene in assenza del Re – quello fu giorno di allegria generale. La città intera affollava le vie di Lisbona, di fresco ricostruita dopo il cataclisma, le folle si riversavano per strade e piazze, giungevano dalle campagne, scendevano dalle colline e tutte si riunirono al Roçio per vedere la giustizia colpire gli eretici confessi, le streghe, i sodomiti, gli ebrei.

Padre Giulio Cordara era ignaro del nefasto destino che lo attendeva.

Entrò nella sala da lettura della Biblioteca Gregoriana esattamente alle 22.30. Un privilegio che solo i Padri della Compagnia avevano. Per tutti gli altri la biblioteca era chiusa da almeno quattro ore.

A Giulio non piaceva il clergyman, era un prete all’antica. Non lasciava mai la sua tonaca nera fino ai piedi, neanche in estate. Era orgoglioso della sua veste desueta e della sua diversità sociale. Giulio Cordara era un prete, un sacerdote, un’élite.

Era colui che giudica e assolve, ascoltando i segreti di tutti.

Fissò ammirato gli otto pilastri color avorio che sorreggevano quel tempio del sapere non immaginando che sarebbe stata l’ultima volta.

Andò nella sala di lettura più antica, ignorando quella nuova, molto più grande. Era circondata da due strette passerelle metalliche che ricordavano i ponti di una nave e che permettevano l’accesso diretto agli scaffali. Si sedette ad uno dei ventiquattro grandi tavoli rettangolari verdi, antichi quanto la stessa Università. Erano sistemati su tre file. Ne scelse uno d’angolo alla estremità ovest della biblioteca e vi sistemò un blocco di appunti e una costosa penna a sfera.

Si alzò di nuovo, raggiungendo il maestoso schedario metallico e – tra le migliaia presenti – da un piccolo cassetto estrasse una scheda di cartoncino grigio dall’odore di carta umida e stantia.

Si aggiustò i piccoli occhiali rotondi sul naso per leggere la collocazione del libro; quindi, attraversò longitudinalmente tutta la sala per salire la scala di ferro stile déco che lo portò alla seconda passerella della biblioteca.

Scrutava i libri in fila, assorto, senza avvedersi, al piano terra, di un fugace movimento appena accennato, felino.

Finalmente, la ricerca culminò nella scelta di un volume. Era piccolo, non più grande di un quadernetto, e rivestito di cartapecora.

Il titolo impresso sopra era Il Cristianesimo felice nelle missioni dei Padri della Compagnia di Gesù nel Paraguay.

Giulio lo prese in mano e se lo portò davanti alla bocca affascinato dall’odore dell’antico materiale organico quindi, tenendolo con cura, scese le scalette, girò a destra per andare a sedersi al tavolo da lettura.

Era ancora ingombro di alcuni libri non riposti da chi avrebbe dovuto farlo ma quello che aveva scelto lui era così minuto che non aveva bisogno di molto spazio per la consultazione. Accese una delle ricurve lampade da lettura del primo ‘900, finora la più brillante fonte luminosa della biblioteca, nella luce flebile delle azzurre lampadine notturne.

Con soddisfazione accostò di nuovo il viso al libro, alzò gli occhiali beandosi ancora della carta umida, macerata dal tempo.

Tra una pagina e l’altra, con la coda dell’occhio, colse come l’impressione di qualcosa in rapido movimento.

Non seppe mai cosa fosse.

Un uncino da macello gli trapassò la testa, entrando dall’occhio destro e uscendo dalla nuca.

Padre Cordara non urlò.

Emise solo un “Oh!”, più di sorpresa che di dolore e in un attimo raggiunse quel Paradiso nel quale aveva sempre proclamato di credere.

Cadde sul tavolo come se la realtà si fosse improvvisamente rallentata, mentre il suo sangue esplodeva da entrambi i fori creati nella sua testa, pompato dagli impulsi del suo cuore, a mano a mano più deboli.

Una piccola mano sfilò il libretto – miracolosamente pulito – da sotto il busto del prete.

Sul tavolo, la densa pozza di sangue si allargava come un lago purpureo cresciuto dallo scioglimento repentino di un ghiacciaio.

Quel giorno al Sovrastante Michele Rondine sembrava proprio una giornata morta. In ufficio era solo. Sudava. Si annoiava molto. Una mosca non smetteva di ronzargli attorno, accrescendo il suo stato di ansia inattiva. Dopo l’ennesimo tentativo di spiaccicarla con un giornale, sconsolato, si aprì la finestra al primo piano che dava sul retro del Passetto e si affacciò.

Il sole era quello romano di aprile, arancione sui palazzi secenteschi. Il solito viavai di pazzi si affollava attorno a Piazza San Pietro. Oltre ai credenti, beninteso.

L’attenzione del gendarme venne attirata da un suono di campanacci sguaiati, confuso tra i rintocchi delle molte nobili campane circostanti.

Un uomo, basso, grasso e molto sporco agitava il suo nugolo di richiami da vacca, tale e quale ad un predicatore medievale.

“È vestito come uno di Brancaleone alle Crociate”, pensò il Sovrastante.

Nel frattempo, indifferenti al vaccaro, un gruppo di adolescenti asiatiche in camicetta bianca e minigonna plissé blu, con lunghi calzettoni in tinta sulle gambe nude, incrociava su strisce pedonali quasi invisibili per la consunzione un drappello di suore indiane o bengalesi dal manto candido. I due gruppi, le monache e le adolescenti, non si degnarono di uno sguardo, né degnarono di uno sguardo il rumoroso vaccaro, a riprova che sia le suore, sia le minorenni asiatiche, in vita loro ne hanno già viste così tante, che un tipo strano in più attorno a San Pietro, che vuoi che sia.

Il Sovrastante Rondine osservava divertito la scena dall’alto asciugandosi il sudore con il fazzoletto di stoffa che aveva sempre in tasca e stava valutando la possibilità di collocare un paio di quelle giovinette coreane o giapponesi nel suo personale immaginario erotico pomeridiano quando, improvvisamente, il telefono squillò.

Le grosse scarpe nere gemevano sui sampietrini sotto il suo peso non indifferente. Ormai quella smorfia di disgusto della gente la poteva riconoscere a cento metri di distanza. “Ecco, si avvicina, un porco. Guarda che faccia da pedofilo”, immaginava di leggere nel pensiero dei passanti che lo osservavano.

John Marlon si riteneva un gesuita moderno, ma il suo aspetto non gli era certo d’aiuto. La sua chierica, ampia, svelava una cute perennemente unticcia, gli occhiali erano fuori moda, rettangolari, pesanti, con lenti a fondo di bottiglia. L’addome prominente veniva a stento coperto dalla camicia antracite, tirandone tutti i bottoni. Il clergyman era sempre stazzonato e quelle scarpe nere, coi lacci, dalla punta quadrata e la suola di gomma spessa erano perennemente impolverate.

Ogni particolare faceva di lui un “prete”.

Quella minuscola croce appuntata sul bavero, poi, era come l’emblema di un potere tracotante che indicava una orgogliosa appartenenza e pretendeva la deferenza di una casta sacerdotale.

Dieci, venti anni prima, forse, qualcuno lo avrebbe ancora guardato con rispetto. Oggi no. Al giorno d’oggi i preti erano considerati soltanto superstiti di assurdi privilegi fuori tempo, di impunità inconciliabili con la democrazia.

Per chi ci credeva ancora, alla democrazia.

La gente li odiava. Esclusi i credenti, che però erano sempre di meno.

Un’occhiata compassionevole gli venne solo da un gruppo di suore filippine. Lo fissarono, senza sorridere, inchinando lievemente la testa in segno di saluto, anzi di rispettosa deferenza per il maschio talare, superiore a loro per decreto pontificio.

Infilò frettoloso i vicoli di Borgo Pio, quel mucchio di case che restavano del quartiere sventrato dal Fascismo per fare posto alla tronfia retorica architettonica di via della Conciliazione. Doveva arrivare alla Gregoriana il prima possibile.

“Giulio mi ha promesso una rivelazione importante”, era il suo pensiero fisso.

Rondine sobbalzò sulla poltroncina economica della sua modesta scrivania da funzionario. Deglutì nervoso fissando le pareti appena riverniciate del classico beige sporco delle caserme, «Sì, sono io. Cosa? Ma quando è successo?»

La voce all’altro capo del filo era concitata ma autorevole, quasi imperiosa.

“È sempre così”, pensò, “Quando deve succedere qualcosa, è sempre il giorno prima delle ferie.” Rondine era furioso, «Porco di quel…», esclamò ad alta voce, per riprendersi immediatamente, “Proprio io non posso”, pensò quasi contrito, “Sono un gendarme vaticano, mi paga il Principale!”

L’ultima volta era successo nel 2007. Si era arruolato da tre anni.

Antonio, entrato col suo stesso corso allievi, si era piazzato una palla in testa nel bagno della caserma. Roba grossa. Pare che si scopasse la moglie del Comandante. Forse anche il Comandante. Forse li ricattava.

«E chi doveva andare in ferie il giorno dopo? Io, puttana Eva, che qui ci sta proprio bene…»

Toccò a lui fare tutto: rilievi, ipotesi, indagini, avvertire le famiglie. Le ferie, andate.

«E meno male che non mi hanno anche fatto pulire i cessi da tutto quel sangue.»

Il Papa fece sapere di essere vicino alla famiglia e ai membri della Gendarmeria, “Ma col cazzo che mi restituì le mie ferie.”

«Non si preoccupi, Rondine, le ferie gliele monetizziamo», assicurò il Vice Ispettore Generale, Paolucci, «E poi la facciamo entrare nel GIR. Sarà meglio di due misere settimane di ferie, no?»

Già, il Gir. Il “Gruppo di Intervento Rapido”, ma per Rondine era sinonimo di “Grande Inculata Ripetuta”.

Ogni volta che si presentava una rogna, arrivava a lui, con la scusa che doveva entrare a far parte del Gir.

Questa volta a tirare le cuoia, era stato un cazzo di gesuita. Uno di quelli che puoi odiare senza rimpianti, sempre in tonaca lunga, un marziano che si vestiva ancora come duecento anni fa.

“Se me la mettessi io quella sottana”, pensò, “Mi radierebbero immediatamente, anzi mi richiuderebbero in un CIM. Questi invece, più si acconciano strani e più dimostrano di essere diversi da tutti gli altri, di essere i prediletti di dio!”

«Beh, a questo hanno fatto un bel buco, Sovrastante», i pensieri del gendarme vennero interrotti dalle parole del medico legale.

La constatazione si rivelò ottimistica, parlando di un buco in testa.

In effetti, quello che si vedeva era più uno squarcio, bello e buono, come se avessero roteato un punteruolo dentro un’orbita. Una cosa che si poteva immaginare solo in un film horror.

Rondine avvicinò il viso a pochi centimetri da quello del morto. L’acuto odore del sangue pervase le sue narici, alimentando in lui una inaspettata lieve ebbrezza.

Piccoli schizzi di cervello circondavano per un’area di un paio di metri il corpo di…

«Già, e chi è ‘sto poveraccio?», chiese il gendarme.

«Chi era, Sovrastante», rispose il medico, «Lo abbiamo identificato come Giulio Cordara, un gesuita, uno storico della Chiesa. La Curia per questo caso ha chiesto massima attenzione e… massima discrezione.»

Discrezione, sì… Ormai in Vaticano dovrebbero sapere che è inutile chiederla. Per i gendarmi vaticani, qualunque cosa accada in territorio pontificio deve rimanere “tra di noi”.

«Naturalmente, dottor Scaglietti. Come sempre, da duemila anni…», rispose Rondine senza trattenere l’ironia.

John si precipitò a salire lo scalone facendo i gradini a due a due ma al secondo passo aveva già il fiatone. Del resto, i suoi 123 chili si facevano sentire.

«Devo decidermi a fare quella dieta famosa…», disse tra sé e sé, «Dulan, Dufan, Duran, come si chiama? Si mangia un sacco di carne e a me la carne piace, specie al sangue.»

Ansimava e macchiava di sudore le ascelle della sua camicia nera. Goccioline apparivano persino sul collarino bianco.

Non aveva mai sentito Giulio tanto agitato al telefono, lui che era la tranquillità fatta persona. Del resto, era difficile vedere un gesuita agitato.

Merito degli Esercizi di Sant’Ignazio, forse.

Stavolta, però, era diverso. Giulio era veramente preoccupato.

E perché mai, poi?

“Questo cazzo di scalone elicoidale della Gregoriana è interminabile!”, pensò contrariato e ansimante.

Arrivò, finalmente.

“Oh, cazzo!”

Ciò che vide nella biblioteca lo lasciò senza parole…

All’altezza del secondo pilastro di sinistra, sul sesto tavolino entrando, in mezzo ad una squadernatura disordinata di libri, giaceva accasciato un grosso fagotto nero, tutto circondato da un colore rosso, liquido.

“È Giulio!”, pensò il prete.

O, meglio, era Giulio. La sua testa, reclinata sul tavolino, era illuminata di taglio da una delle antiche lampade di antimonio.

Ricordava vagamente la sopraffina istantanea del quadro Giuditta e Oloferne di Caravaggio. Il volto era innaturalmente voltato verso il grande schedario metallico.

Alcuni schizzi di sangue erano arrivati addirittura fino là. L’odore dolciastro e metallico dell’emoglobina aveva intriso la grande sala di lettura: sembrava quasi materializzarsi in un fumo, in un etere, in un fantasma che fluttuava e impregnava le migliaia di libri rari e gli stessi tavoli ottocenteschi.

Uno dei bottoni centrali della tonaca giaceva, staccato, a terra.

Attorno a Giulio si affaccendavano tre gendarmi e un quarto personaggio con una borsa, probabilmente un medico legale.

Uno dei gendarmi scattava foto, un altro esaminava dettagli spostando delicatamente con le mani coperte da guanti chirurgici azzurri parti del cadavere e del suo vestito.

Il terzo osservava tutti e tutto.

Alla vista di quel corpo il prete tirò un grosso respiro per reprimere un violento conato di vomito. Eppure, “dove c’è un morto, c’è un prete”, si dice.

Quello che li consola è solo la certezza del ritorno alla casa del Padre…

Certo che quel morto c’era tornato proprio malconcio.

Il terzo gendarme, quello che sembrava non fare nulla, aveva il fisico che avrebbe voluto lui: alto e robusto, torace ampio e vita stretta, folti capelli bruni, rasati dietro alla maniera militare. I muscoli delle braccia gli tiravano la stoffa della camicia. Si capiva che frequentava palestre, mica sagrestie…

«Padre… scusi, come ha fatto ad entrare?», chiese Rondine, appena lo notò.

“È evidente che costui non conosce la struttura simmetrico-circolare della Gregoriana”,pensò il prete.

«Non ho avuto grande difficoltà, visto che sono qui. Ma cosa è successo a Padre Cordara?»

«Lei che ne dice? È un po’ morto. E non di morte naturale, pare.»

«Gendarme, Padre Giulio Cordara era un mio amico e vorrei sapere qualcosa di più, se non le dispiace.»

«Considerando che lei non dovrebbe neanche essere qui, Padre…?»

Lo sbirro si preparò ad annotare il nome su un taccuino.

«Sono Padre Marlon. John Marlon. E lei è il gendarme…?»

«Il Sovrastante, Padre, Sovrastante Antonio Rondine. Ora le dispiace spiegarmi perché si trova qui e proprio ora?»

In una frazione di secondo il cervello del prete venne attraversato da una serie affastellata di pensieri. Come avrebbe spiegato a un poliziotto che si ritrovava sulla scena di un delitto perché Giulio lo aveva chiamato per fargli delle rivelazioni su qualcosa di cui non aveva la più pallida idea?

Da bravo prete, riusciva già a percepire l’ostilità dello sbirro che avrebbe potuto persino ipotizzare un suo coinvolgimento in quel delitto.

Oltretutto, era riuscito ad arrivare fino lì malgrado i blocchi che evidentemente la gendarmeria doveva avere già istituito all’Università.

«Non vedo l’ora di farlo, Sovrastante», la voce gli uscì strozzata e Marlon cercò di rendersi subito più credibile schiarendosi la gola, «Vede, Padre Cordara ed io eravamo molto amici e già compagni di seminario… Ma non possiamo parlarne in un posto meno lugubre?», Marlon fece il plateale gesto di benedire la salma, «A parte il rispetto che si deve alla morte, l’odore di sangue qui è insopportabile e immagino che anche il dottore avrà il suo daffare. Non vorrei dare fastidio…»

Rondine non poté fare a meno di pensare che si trovava in presenza del solito prete paraculo e che – ci avrebbe giurato – entro un minuto avrebbe proclamato la sua amicizia con il Promotore di Giustizia del Vaticano.

Non fece in tempo a pensarlo che Marlon disse, «Sovrastante Rondine, se non le dispiace, vorrei informare di quanto accaduto il cappellano della vostra gendarmeria, Monsignor Viviano. Anche lui conosceva bene Padre Cordara.».

Rondine squadrò il prete con sospetto misto a disprezzo. Tutti sapevano che il cappellano era culo e camicia con il Promotore e questo tizio ci teneva a sottolineare che era un suo amico…

«Ma certo, Padre Marlon», rispose con malcelata ironia, «Lo informeremo non appena avremo esaurito alcune formalità. Per esempio, mi vorrebbe cortesemente spiegare perché lei si trova qui proprio adesso?»

Istintivamente, come una preda braccata, Marlon fece due passi indietro, «Sono stato chiamato con urgenza da Padre Cordara. Aveva detto di volermi fare una rivelazione ma…»

«Ma?», incalzò Rondine.

«Sovrastante, io non so molto di quello che aveva da dirmi, tranne che potrebbe avere a che fare con la storia del Padre Gabriele Malagrida.»

«Malagrida? Mai sentito! In quale Casa Generalizia si trova?»

«Si trovava, Sovrastante. Malagrida era un gesuita del diciottesimo secolo. Anche lui, guarda caso, morto ammazzato.»

«Gabrielee! Gabrielee, insomma! Vuoi venire o no? Corri che è già in tavola! Vai a lavarti le mani. E mettiti le scarpe, una buona volta!»

È questa voce il mio ricordo più lontano. Mia madre che mi chiama, dalla cascina della mia casa giallastra, due piani e mezzo, sempre sbreccata, e io che corro, corro libero e scalzo sulle rive del lago di Como.

Ho otto, forse nove anni, e so tutto del mio lago.

So dove vanno a nascondersi le papere la sera e dove le trote si fermano là, a mezz’acqua, a bocca aperta, aspettando da mangiare che arriva da solo, con la corrente.

Queste cose le so perché vado tutto il giorno in giro a piedi con mio padre medico condotto, fino alle Alpi della Svizzera…

So anche dove la Rosina, la moglie del panettiere, va a giocare col parroco, don Pio: dietro all’olmo grande, nel boschetto appena fuori dal borgo. L’ho vista che infila la testa sotto la tonaca e si muove tutta, mentre lui rimane lì, fermo come una statua e resiste al solletico. Poi, ad un certo punto, non ce la fa più e da una specie di sbuffo trattenuto, come quando ti fanno il solletico, appunto, e non ce la fai più a trattenerlo.

«Ancora quel disgraziato di Gabriele! Ci ha visto, Rosina, che sia maledetto!»

«Ma che vuole che capisca, don Pio? È troppo piccino, per capire…»

«Troppo piccolo o no, non ci deve vedere! È pericoloso! Ti rendi conto che se ci scoprono siamo entrambi rovinati?»

Mi ricordo anche del grande camino al centro della casa all’angolo della strada, gialla, dei tetti a cassettoni affrescati sopra il letto a baldacchino di papà e mamma, del grande sole dipinto che mi guarda dal soffitto. E mi parla.

Sento anche la sua voce, mentre corro. Io corro sempre e non mi stanco mai. Mio padre mi chiama “il piccolo lampo.

«Piccolo lampo, va’ a vedere cosa succede sulla sponda del lago!» Io vado e – to’ – ci trovo una famiglia di testuggini in fila; oppure un cerbiatto che si sta abbeverando; oppure uno scoiattolo che raccoglie una ghianda; altre volte guardo nell’acqua e vedo i gamberetti bianchi che si affastellano come se mi aspettassero.

Un giorno anche Dio decise di parlare con Gabriele, il piccolo lampo.

Almeno questo è ciò che disse lui al parroco, a quel don Pio, circa due anni dopo che Rosina, la moglie del panettiere, se ne era andata in cielo, tra gli angeli, come gli diceva don Pio.

«Hai parlato con Dio?! Ma cosa ti inventi ora, Gabriele?», rispose pazientemente il prete.

«Sì, sì! Era proprio lui. Anzi, era Gesù. Ma sono la stessa cosa, no? Me lo avete spiegato voi, a catechismo che c’è anche lo Spirito Santo con loro, che sono tre, ma che sono tutti la stessa cosa…»

Lo Spirito Santo, o Dio, o Gesù Cristo, tutti e tre, dicevano comunque una sola cosa a Gabriele: «Vieni con me e andiamo a diffondere la mia voce nel mondo!»

E lo spiegai in modo così convincente e appassionato a don Pio e con tanta insistenza e per tante settimane che anche una tonaca dura ma non pura come quella di un parroco di paese si commosse, finendo col credere alla mia sincera vocazione cristiana, anche se non ero neanche adolescente.

Così, una domenica d’estate, don Pio pronunciò la formula di rito, «In nome del Signore, se una sola anima di Menaggio conosce un motivo di vergogna o ha una singola prova di scarso spirito cristiano del presente ragazzo Gabriele, lo dica adesso, prima che questa Santa Messa sia terminata!»

Per tre domeniche di fila don Pio ripeté la medesima domanda al popolo di Dio a lui affidato e non in Latino, ma in dialetto, nella lingua che capivano tutti.

Nessuno ebbe a ridire nulla contro la mia vocazione.

Così, la settimana successiva, con l’arrivo di un nuovo anno e di un nuovo secolo, venni inviato in seminario, al Collegio Gallio dei Padri Somaschi, a Como.

«Capisci, John? Siamo nella seconda metà del 1700. Questo missionario gesuita, sebbene imprigionato nelle galere dell’Inquisizione di Lisbona, al buio e senza alcuno strumento di scrittura avrebbe redatto nientemeno che due libri. Il primo si intitolava Vida heróica e admirável da gloriosa Santa Ana, mãe de Maria Santíssima ditada pela mesma santa com a ajuda, aprovação e cooperação da mesma Senhora Soberana e seu Santissimo Filho (titolo essenziale, eh?), il secondo, Tradato sobre a vida e o imperio do Anticristo, cioè addirittura un “Trattato sulla vita e sul Regno dell’Anticristo”.»

La stanza del Collegio era scarna e piccola proprio come ti aspetti la cella di un monaco. Una microscopica scrivania, anzi più un banco di scuola, una libreria bianca del truciolato più economico, larga una cinquantina di centimetri colma di libri di tutte le epoche, un lettuccio più adatto a un bambino che ad un adulto. La finestra, stretta, quasi una feritoia, affacciava a nord e già alle cinque del pomeriggio la luce che vi proveniva era pochissima. Una modesta lampada da tavolo inizio ‘900 illuminava un libriccino aperto.

Giulio Cordara sembrava proprio un tipico predicatore della tv. Alto, bruno, elegante nella sua perenne sottana nera, con una barba brizzolata, consistente ma appena accennata e curatissima. Atletico e con degli occhi azzurri che ti fissavano dentro attraverso le piccole lenti rotonde. Non c’era nulla nella sua figura elegante e aristocratica che si intonasse a quell’ambiente.

«È a causa di questi due libri, e di nessun’altra accusa, che Malagrida venne condannato a morte, garrotato e quindi “arso fino alla cenere” sulla Praça do Roçio il 21 settembre del 1761», il prete era eccitato nel parlare, quasi dovesse sostenere lui stesso la difesa di quel suo confratello tanto lontano nel tempo, «Eresia, fu la sentenza. Ma in realtà era stato arrestato per tutt’altro: addirittura quale mandante di un attentato contro il Re Giuseppe del Portogallo.» Come sempre, la cultura di Cordara abbagliava il suo interlocutore.

Giulio conosceva in dettaglio avvenimenti storici dei quali Marlon non aveva neanche mai sentito parlare.

Del resto, già da quando erano piccoli, Giulio Cordara era sempre stato un punto di riferimento per tutti i compagni.

Con John si conoscevano dalle elementari.

Era Giulio quello che riusciva a mettere in difficoltà maestre e professori.

Aveva sempre l’ultima parola. Leggeva di tutto, parlava bene, perché sapeva pensare bene e – può apparire strano – ma era sempre riuscito a mettere il suo più grande entusiasmo in una delle materie che, secondo Marlon, erano tra le più lontane a suscitarne: la Storia.

Nel 2002 – erano ancora in seminario – fu tra i primi a sostenere che il presunto “ossario di Gesù Cristo” scoperto quell’anno a Gerusalemme era un falso, mentre tutto il mondo accademico già esaltava la “prima prova concreta” dell’esistenza di Gesù. Soltanto lui e un archeologo israeliano rilevarono anomalie nella iscrizione che attribuiva l’ossario a Giacomo, fratello di Gesù. I loro dubbi influirono in modo determinante alla effettuazione di un esame molto più accurato che fece comprendere di essere di fronte ad un falso clamoroso.

«Immagino quindi che questi due fantomatici libri debbano essere molto interessanti per uno storico come te.»

 «Lo sarebbero senz’altro, se esistessero.»

«Come, se esistessero? Non ha detto che condannarono Padre Malagrida per eresia, sulla base di quanto c’era scritto? Devono pur esistere, no?», chiese Marlon emettendo piccoli schizzi di saliva sugli occhiali dell’amico.

«E invece, parrebbe di no. L’Inquisizione li avrebbe fatti bruciare insieme al loro autore.» Cordara si tolse gli occhiali per asciugarli con un lembo della tonaca.

«Perdonami, ma se i libri erano le prove della sua eresia, come possono averli bruciati? Distruggere le prove materiali della sua colpa? Giuridicamente non ha senso!», esclamò Marlon pensando di avere detto finalmente una cosa intelligente, alla altezza del suo amico.

«Complimenti!», Giulio sorrise sardonico, e non avveniva spesso di vederlo sorridere, «Hai capito tutto! Nel diciottesimo secolo il sistema giuridico del Portogallo non era certo quello moderno, ma questi due libri non possono averli bruciati, se non in effige, altrimenti tutto l’impianto accusatorio sarebbe decaduto. La sentenza non sarebbe stata più valida, senza prove fattuali!», esclamò con misurato entusiasmo Cordara.

«E allora, non farmi stare sulle spine. Se mi stai dicendo tutto questo, tu hai trovato sicuramente qualcosa!»

«Forse», rispose Giulio, «Per adesso, mi sto ancora documentando. Devo finire di consultare questa edizione originale della sentenza di condanna di Malagrida», appoggiando la mano sul libriccino sul tavolo, e poi andrò a cercare un libro di Padre Ludovico Antonio Muratori, Il Cristianesimo felice nelle missioni dei Padri della Compagnia di Gesù nel Paraguay, un testo che lo stesso Malagrida aveva sempre con sé da quando era tornato a vivere in Portogallo.

Giulio Cordara tormentava i bottoni della tonaca, un gesto per lui consueto, quando era in procinto di fare delle scoperte.

La sua personale leggenda diceva che arrivasse al risultato desiderato nel momento in cui uno dei bottoni avesse ceduto al tormento delle sue dita.

«Da quello che ricordo dagli studi», continuò Marlon, «Muratori è quello che descriveva nel dettaglio le cosiddette “riduzioni” gesuitiche, quelle concentrazioni degli indios in villaggi protetti, una sorta di riserve indiane organizzate dalla nostra Compagnia in un modo che oggi potremmo definire una società protosocialista. Ognuno era proprietario di quello che riusciva a produrre.»

 «È proprio così. Nel diciassettesimo secolo, quando i Gesuiti s’insediarono in Paraguay, tra le altre cose, scoprirono la Yerba, un vegetale che i Guaranì usavano da sempre per preparare un’infusione che oggi conosciamo, come “mate”. È per questo che oggi il “mate” viene anche chiamato “tè dei Gesuiti” o “oro verde”. Penso che questo libro potrebbe aiutarmi a venire a capo di uno dei più infami delitti compiuti ai danni della Compagnia: l’ultima condanna dell’Inquisizione.»

Marlon non avrebbe mai pensato che un ingegno così vivo e razionale come quello di Giulio avesse potuto trovare la vocazione. In seminario era diventato un fanatico dell’estensione della potenza Ecclesiastica nei secoli.

Ne era così orgoglioso, da trovare sempre un nesso tra questa e i grandi poteri succedutisi nelle varie ere storiche. E non soltanto nel passaggio dall’Impero Romano al dominio temporale del Papa sullo Stato Pontificio. Secondo Giulio, il radicamento del Cristianesimo nell’umanità trovava fondamento addirittura nell’alba dell’uomo.

Naturalmente, quando hai vent’anni, anche se studi teologia e storia, anche se stai per diventare prete, non hai tanta voglia di pensare soltanto a queste cose.

Se sei gay, per esempio, il seminario può diventare il paradiso in terra.

Ma da etero, può capitare che allunghi ancora l’occhio su qualche gonnella o addirittura le mani su qualche novizia, prima che arrivino i voti.

Giulio non era né l’uno, né l’altro. Apparteneva alla rada schiera degli “indifferenti” al sesso.

Nel mondo secolare quelli come lui li chiamerebbero trivialmente “capponi”, ma in realtà è soprattutto grazie a questi individui che la Chiesa e le sue scienze hanno prosperato nei secoli.

Uno dei pochi idoli di Giulio era Padre Athanasius Kircher, il gesuita genio scientifico del ‘600, autoproclamatosi primo decifratore dei geroglifici egizi.

Al suo tempo, venne acclamato in tutto il mondo come un immenso traduttore ma, duecento anni dopo, Champollion gli avrebbe mandato tutto in vacca, decifrando sul serio i geroglifici, grazie alla scoperta della stele di Rosetta.

Cordara diceva che, in ogni caso, Kircher, insieme ad un altro gesuita vissuto cento anni dopo, Padre Ruggero Boscovich, aveva spianato la strada al dominio culturale della Compagnia all’interno della Chiesa e in tutta Europa.

Secondo lui, gli scritti di queste due menti eccelse non erano ancora stati studiati abbastanza e, forse, neanche tutti ritrovati.

L’anno dopo il rogo del povero Malagrida, nel 1762, proprio Boscovich approdò a Costantinopoli, ufficialmente per osservare Venere e confermare la teoria della gravitazione di Newton.

Secondo Giulio ci sarebbe stata una relazione molto stretta tra i due gesuiti, iniziata per motivi scientifici molti anni prima e forse Boscovich scappò in bocca al Sultano Mustafà III non tanto per amor della scienza, quanto per evitare che l’Inquisizione lo arrostisse come il suo confratello in Portogallo.

Cordara proseguì nella sua spiegazione, infervorato come se stesse avendo una visione mistica, «Boscovich era stato appena nominato membro della Royal Society di Londra. Che motivo avrebbe avuto per non rimanere in Europa a godersi gli onori della carica? Sembra che a dargli il consiglio di lasciare l’Europa molto in fretta sia stato addirittura Benjamin Franklin.».

«Franklin? Ma Franklin non era un mangiapreti?», chiese sorpreso John, «Perché avrebbe dovuto aiutare un gesuita? Non era quello che scriveva: i fari sono più utili delle chiese”?»

Giulio fece una pausa, fissando l’amico con tenerezza, «Franklin scrisse anche: “Capisco come si possa guardare la terra ed essere atei, ma non capisco come si possa guardare il cielo di notte e non credere in Dio”. Franklin non era ateo, ma frammassone. C’è una bella differenza. Il suo amore per la verità e per il genio lo portò ad aiutare tanti preti-scienziati del suo tempo, specialmente gesuiti, visto che venivano perseguitati in tutta Europa. Per quanto riguarda Malagrida, tranne i pochi dettagli riportati nella sentenza di condanna dell’Inquisizione, nessuno sa cosa abbia davvero scritto sull’Anticristo. Sempre che il libro esista, naturalmente.»

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