LA ROSA NERA di Ida Daneri

Il libraio
La giovane spalancò gli occhi, incredula: i suoi passi l’avevano condotta, per la terza volta, nel recesso più buio del mercato dello sperduto paesino dei Carpazi.
La bancarella era apparsa dal nulla, sovraccarica di libri accatastati in più strati.
Il venditore non c’era.
Sollevò lo sguardo alla volta dei portici che riparavano solo l’ultimo angolo di mercato, più tetro e confuso del resto, nel crepuscolo incombente del gelido tredici dicembre.
La piazza era illuminata dai pochi raggi di sole che ancora riuscivano a infiltrarsi tra nuvole scure, gonfie di pioggia.
Non c’erano altri porticati, salvo lo sgretolato arco d’ingresso del mercato stesso.
Spinta dall’impulso che l’aveva guidata, Elina si avvicinò con piccoli passi cauti, attenta a non urtare il banco traballante. Si allungò sui volumi malconci. Le punte dei capelli biondi, sfuggendo dal colbacco, scendevano ad accarezzare
con rispetto le pagine ingiallite rese fragili dal tempo. Una folata d’aria s’insinuò gelida tra le colonne ed Elina strinse il bavero di pelliccia.
«Che trina elegante!» sussurrò il vecchio, indicando con un dito ossuto l’elaborato pizzo nero che orlava il bordo di pelo e risaltava sul tessuto turchese del cappotto. «Sembra un decoro d’altri tempi!»
Elina si raddrizzò in un sobbalzo: da dove era spuntato?
Abbozzò un sorriso, turbata dall’inatteso complimento e fissò il mercante che scrutava con interesse un punto tra i libri. Il volto era una fine ragnatela di rughe e la pelle brillava nivea nella penombra dell’arcata; un lungo crine bianco cadeva sulle spalle curve, sparpagliandosi rado sul mantello nero, troppo signorile per un modesto libraio.
Il venditore sollevò lento il viso e la sua espressione la trafisse: invece di iridi acquose, scolorite dall’età, incrociò uno sguardo diretto, nero e penetrante, che per un istante sembrò leggerle l’anima. Un’esclamazione stupefatta le sfuggì dalle labbra e distolse gli occhi. Percepì un insolito timore nel cuore. Quando rialzò lo sguardo, l’ambulante le volgeva noncurante le spalle. La sua cappa carezzava lieve il terreno.
Lo sguardo di Elina seguì quello del vecchio. Una consunta custodia di pelle, annerita dal tempo, faceva bella mostra di sé sopra i libri. Un nastro di seta scura e sfilacciata a chiuderla di lato.
Non riuscì a trattenere il gesto. La mano sfiorò appena lo spesso fodero dai bordi decorati con fatiscenti cuciture. Del filo, un tempo dorato, rimaneva solo un vago ricordo inciso nella pelle.
Qualcosa pulsava tra le fragili pagine color sabbia, dai bordi logori e irregolari, attirandola in modo irresistibile. Dopo un’ultima, delicata carezza, raccolse con cura la custodia, l’avvicinò al volto aspirandone il profumo antico e infine sciolse piano il fiocco tirando un capo del nastro.
Il cuore le batteva forte, ma naturalmente non accadde nulla e la guaina scura rimase inanimata tra le sue mani. Sollevò la copertina. C’erano cartoline d’epoca e stampe sbiadite dal tempo. L’immagine seppiata di un chiostro la colpì: esili colonne sostenevano aggraziati archi a sesto acuto e, al centro, un ammasso di rovi annerito dalle nuvole che offuscavano la luna.
Qualcosa, ancora, reclamava la sua attenzione tra le pagine: l’immagine confusa e stinta di un drappo nero, forse un raffinato e avvolgente mantello; e la figura di una rosa, anch’essa nera, che stillava sangue. Quel sangue, tetro nella raffigurazione, appariva vividamente rosso nell’immaginazione di Elina.
Richiuse di scatto la custodia, la schiena percorsa da un brivido, e si avvide che l’anziano libraio era scomparso.
Lesse il prezzo: era regalata!
Fece per posare la banconota sul tavolo, ma la mano increspata del venditore, apparso di nuovo dal nulla, la precedette offrendole in silenzio un pendente con un singolare cammeo.
Elina scosse il capo, ma il vecchio insistette.
Le mostrò la fine catenella d’argento, luccicante nel crepuscolo tinto di grigio dalla fredda nebbia invernale, indicando l’esile collo della giovane.
Rifiutò ancora, irritata.
Il libraio la fissò per un lungo istante con lo sguardo penetrante delle iridi nere.
Schiuse, poi, appena le labbra in un sorriso enigmatico, guardandola come se la conoscesse da sempre, e inserì la catenina tra le immagini del fodero.
«Ė in vendita solo con il medaglione!» esclamò, in un soffio roco, con lo sguardo che ancora la scrutava in profondità, quasi volesse rubarle l’anima.
«Quanto costa?» chiese Elina in un sospiro, distogliendo il volto, a disagio.
«È un omaggio!» mormorò il libraio accennando un inchino, le labbra sempre atteggiate nel misterioso sorriso «Per ricordare, per comprendere, per cogliere al volo la salvezza!»
Elina sgranò gli occhi, ma il vecchio continuò:
«Ricevi la salvezza per donarla!» spiegò, in un criptico sussurro, con l’indecifrabile sorriso ancora adagiato sulle labbra sottili e le iridi nere che scintillavano, nonostante nessuna luce le illuminasse.
La giovane sfuggì di nuovo al confronto abbassando il viso.
Quando lo rialzò, percepì l’ondeggiare leggero del mantello; ma del libraio non vi era più traccia.

La lettera misteriosa

In albergo, Elina slacciò subito il fodero.
C’era un foglio ripiegato in quattro. Lo aprì attenta a non sgualcire la carta ingiallita della lettera: quattordici dicembre; l’anno era indecifrabile.
C’era una larga macchia scura. Non era inchiostro, sembrava quasi…
«Sangue!» la parola le sfuggì più veloce del pensiero.
Scosse la testa e forzò una stridula risata per stemperare l’inspiegabile sensazione che la turbava da quando l’anziano libraio l’aveva fissata con gli incredibili e scintillanti occhi neri. Era stato uno sguardo intenso, che era sembrato, al tempo stesso, carezzarla dolcemente e violare la sua intimità; come se quell’uomo conoscesse ogni suo segreto.
«Quattordici dicembre, anno illeggibile. Alba.» lesse ad alta voce.
Vista la calligrafia delicata e svolazzante, probabilmente si trattava di una donna.
«A te, che leggi e non credi, che hai dimenticato i tuoi sogni di bimba.» continuò a leggere con voce sussurrata.
Si fermò, esitante. Davvero non credeva più? Aveva scordato tutti i suoi sogni?
Tornò a immergersi nella lettura.
Il suo animo romantico ne fu rapito.
Raccontava di un amore appassionato, osteggiato dalle famiglie: lei, bella e di nobili natali; lui fin troppo serio e intelligente, studioso e grande amante dei libri.
«Ovvio!» esclamò Elina ironica.
I due si erano ribellati alle convenzioni e avevano pianificato la disperata fuga d’amore.
Il racconto era confuso e irreale, la lettura difficoltosa per le macchie cupe che celavano le parole rendendo incomprensibile il senso di alcune frasi.
Non poteva essere sangue.
Elina rigettò il dubbio con decisione: non intendeva cadere nella solita trappola delle leggende transilvaniche.
Il pericolo gravava sui giovani come un’ombra opprimente. La ragazza sembrava essere stata catturata…
«….dall’ombra famelica di un vampiro!» esclamò Elina con uno sbuffo stizzito: tutti i racconti finivano sempre tragicamente tra i denti aguzzi d’immortali esseri inesistenti!
Il giovane amante aveva lottato; e per salvare l’amata aveva scelto di sacrificarsi. Con un lungo spino, strappato ai rovi, si era lacerato a fondo la pelle del polso, offrendo la propria vita al vampiro.
La lettera narrava di una splendida rosa nera fiorita al bacio delicato della luna, proprio la notte del quattordici dicembre.
Elina immaginò di vederla sbocciare rigogliosa nelle tenebre, illuminata dai candidi raggi lunari, ergersi a baluardo contro l’ombra del male.
Giunse alla fine della pagina.
La girò frenetica.
Era bianca.
Cercò affannata nella custodia, tra le cartoline.
Niente!
Cos’era accaduto al giovane? Era sopravvissuto? O il vampiro ne aveva spremuto la rigogliosa vita bevendo fino all’ultima stilla la sua rossa linfa vitale? O l’aveva trasformato in una creatura della notte dannandolo a un’eterna non vita?
All’improvviso ricordò il medaglione.
Osservò meglio il cammeo. Rappresentava un viso somigliante al suo: lineamenti delicati, ovale piccolo, grandi occhi, sopracciglia fini, labbra ben modellate, lunghi capelli trattenuti a lato da un complesso fermaglio.
Avvicinò il monile agli occhi; e la distinse: una rosa tratteneva la capigliatura!
Scosse la testa, agitata. Fece scattare l’apertura del pendente per rivelare la miniatura interna: un giovane dal volto pallido incorniciato da capelli corvini.
S’intravedeva il bavero di un mantello scuro. L’espressione era imperscrutabile, forse un’ombra di tristezza, le labbra sottili appena dischiuse in un sorriso misterioso. La attirarono più di tutto gli occhi: erano neri e scintillanti.
Ebbe la singolare impressione di averlo già visto.
«È Impossibile!» esclamò Elina risoluta.
Il giovane tra le lunghe dita affusolate stringeva una rosa nera: era un fiore sciupato, appassito, morente, con i petali indeboliti e prossimi alla caduta.
Un lampo improvviso le attraversò la mente.
Aveva capito.
Trandafir era il nome del paesino in cui si trovava!
E Trandafir, in rumeno, significava rosa!
No, nulla aveva senso in quella notte fredda!
La nebbia era scesa come un velo silenzioso sul paese.
Era la notte del quattordici dicembre: la più lunga dell’anno, secondo la tradizione del luogo.
Un interrogativo, però, vorticava insistente nella sua mente.
Che cosa significavano le ultime parole che il vecchio libraio dalle luminose iridi nere le aveva rivolto?
«Ricevi la salvezza per donarla!» aveva detto.
Un altro mistero!

La rosa nera

Elina si svegliò all’improvviso dopo mezzanotte.
Aveva nella mente l’immagine offuscata di un sogno affascinante. Ne percepiva, però, solamente un precario ricordo.
Si alzò con uno sbuffo infastidito.
La lettera era ancora là, insieme al medaglione, entrambi testimoni di una romantica storia impossibile.
Accarezzò l’effige del cammeo.
Decise all’improvviso, senza ragionare.
Afferrò il cappotto e lo indossò. Era caldo e imbottito, lungo quasi fino alle caviglie. Sotto di esso indossava ancora la camicia da notte bianca che si intravedeva per una spanna.
Era un’evidente follia, un’inaccettabile assurdità, un’azione che avrebbe potuto essere commessa solamente da giovani e ingenue eroine dei film.
Era trascinata da un irresistibile impulso che la obbligava ad uscire.
Era la notte del quattordici dicembre: una notte buia e nebbiosa, tinta appena del chiarore di una luna lattiginosa e sfocata.
Fu accolta da una folata d’aria ghiacciata.
La via era scarsamente illuminata da lampioni appannati che Irradiavano una fievole luce gialla. Tra il precario cono di luce sotto ciascun lampione e quello successivo, c’erano profonde chiazze d’ombra. Un fumo caliginoso saliva in lente volute verso il cielo.
Fece pochi passi.
La nebbia la avviluppò, densa e accecante, silenziosa e avvolgente.
Percepì un’ombra alle spalle. Accelerò il passo.
Non si accorse di essersi allontanata, con sciagurata imperizia, dalla sicurezza dell’albergo.
Si voltò indietro e si sentì perduta.
Dov’era la porta da cui era appena uscita?
Un ululato squarciò il silenzio della notte.
Elina sentì il cuore balzarle in petto e corse indietro.
Il portone non esisteva più.
C’era solo nebbia, fredda e cupa.
E quell’ululato!
Risuonava attutito; ma ovunque, incombente intorno a lei.
Poi vide l’ombra.
Enorme, tenebrosa e angosciante.
Minacciosa e spaventosa.
Schizzò indietro e riprese a correre.
All’improvviso, le apparve la forma di un arco.
Era quello del mercato che si alzava, slanciato, nei vapori grigi della bruma.
Strinse il medaglione tra le mani e corse a perdifiato.
Oltrepassò l’arco; ma il mercato non c’era.
Solo un antico chiostro illuminato da una luna pallida ed evanescente.
Riconobbe l’immagine della stampa rappresentata nel libro che aveva acquistato: il chiostro con la massa di rovi scuri al centro e il porticato elegante, con le sottili colonne chiare a sostenere gli archi gotici.
Continuò a correre.
Aveva la bocca secca e il respiro corto.
Dalla massa di rovi si allungarono, maligni, dei rami a modo di scheletriche dita.
Incespicò, vacillò, picchiò un ginocchio a terra; si rialzò; sentiva l’ombra tenebrosa sempre più vicina, opprimente e agghiacciante.
Si sentì ghermire alle spalle.
Si sottrasse alla presa abbandonando, con sforzo, il cappotto.
L’aria gelida la avvolse ancora; e una raffica di vento le scompigliò i capelli.
Elina urlò, invocando aiuto.
Strillò, nel nulla della notte, mentre l’ombra prendeva forma davanti a lei, enorme.
Era un’immagine terrificante.
La guardò con un ghigno diabolico mentre mostrava lunghi canini affilati.
Lei invertì ancora la direzione.
Aveva il cuore in gola e il respiro spezzato. Davanti c’era solo un cumulo di rovi. Crescevano e crescevano; e si protendevano verso di lei.
La raggiunsero.
Si coprì il viso per preservarlo dai graffi che, invece, le rigarono le mani e le braccia.
Si ritrasse con uno scatto di lato; ma le spine erano arrivate alle sue caviglie.
Cadde di nuovo sulle ginocchia.
Il medaglione finì e tra gli aculei.
Cercò di riprenderlo.
Con la punta delle dita sfiorò il cammeo.
Questi si aprì; e apparve l’immagine del giovane dalla pallida carnagione. Le iridi nere scintillavano nella notte; sembravano riflettere i raggi della luna.
Elina per l’ultima volta implorò aiuto.
L’ombra scendeva implacabile a ghermirla.
Serrò le palpebre; emise un ultimo disperato urlo.
Un urlo che attraversò le nuvole e si perse nel cielo.
Poi fu solo silenzio.
Il volto del giovane era scomparso. I suoi occhi erano stati inglobati dall’oscurità.
Tutto era fermo. Solamente un’aria glaciale muoveva, come uno spiro di morte, i suoi lisci capelli biondi.
Un lungo e prepotente spino era sgorgato dal terreno.
Lentamente riaprì gli occhi. La sua bocca cercava l’aria tra brevi singulti.
Una nuova luce rischiarava il terreno.
L’ombra spaventosa era svanita.
Dallo spino era sbocciata una rosa nera.
Il suo stelo mostrava una macchia di sangue, mentre i suoi petali ricevevano il bacio sensuale della luna.
Elina era rimasta con indosso la sola camicia da notte e rabbrividì nell’aria gelida diventata tersa.
Un mantello nero la avvolse. Ebbe la sensazione di una dolce carezza che si trasformò in un abbraccio forte, a riscaldare la pelle intirizzita; e si abbandonò in un delicato amplesso.

La rosa nera è un romanzo di Ida Daneri

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