SOLO IL MARE SAPRÀ di Daniela Trovato

“La vita di una persona consiste in un insieme di avvenimenti di cui l’ultimo potrebbe anche cambiare il senso di tutto l’insieme”

Italo Calvino

la rosa dei venti

2019

Mi chiamo Gaetano e ho ventiquattro anni.

Alcuni anni fa, mio nonno Tano, che ora non c’è più, iniziò a raccontarmi una storia; la lunga storia del suo amico Neddu. All’epoca avevo appena dodici anni e mi sembrava che stesse per narrare una fiaba anche se, da subito, notai il suo atteggiamento serioso e composto. Pian piano cominciai ad appassionarmi al racconto, lasciando che le parole si amalgamassero alle immagini, tanto ne fui colpito. Dopo tanti ripensamenti, ho deciso di far conoscere la storia di quest’uomo, rispettando il suo ricordo e quello delle persone di cui parlerò. Ho raccolto i pensieri di mio nonno in un blocchetto che porto sempre con me, come se fosse una reliquia. Dentro, le parole, le emozioni, le vicissitudini di Neddu e di mio nonno. Un rapporto di profonda e sincera amicizia il loro, un legame che si trasformò in un’unione quasi simbiotica.

La storia potrebbe sembrare il frutto della fantasia di un adolescente ma è tutto vero. Ricordo quando mio nonno, ormai anziano, mi portava in riva al mare e, guardando la distesa immensa, cominciava a parlare; ricordo i suoi gesti, le sue parole, le emozioni che trasparivano dai suoi occhi. Restavo ad ascoltarlo estasiato, preso da un fremito di curiosità. Ogni capitolo della storia, se così posso chiamarlo, era una nuova sorpresa, piena di timori, di ansie, di gioie; un brulicare di episodi che nostalgicamente riemergevano. Il nonno mi diceva che Neddu era un uomo d’altri tempi, un uomo che aveva saputo affrontare ciò che la vita gli aveva messo davanti, con forza e coraggio, senza mai abbattersi. Avrei voluto conoscerlo, avrei sicuramente imparato qualcosa.

Il suo ricordo in nonno Tano era ancora vivido, tanto che mi sembrava di sentirne la voce, il respiro, e ciò che mi colpiva del racconto era il tono sempre quieto che mio nonno usava, alternando silenzi commossi a un fiume in piena di pensieri.

Nonno Tanto era un libro aperto e sfogliarne le pagine significava scoprire ogni volta qualcosa di nuovo. Era evidente che tra i due amici era esistita una profonda complicità che li aveva uniti, ognuno conservando la sua identità.

«Tutto iniziò una mattina di quasi un secolo fa» mi disse quel pomeriggio nonno Tano, recitando una poesia, delicata e semplice, ricca di sonorità e di cromatismi nelle immagini:

Filo del ricordo

Effimera certezza del ricordo

racchiusa nei meandri

di dedali contorti,

grovigli di fili

si intrecciano

tra suoni, profumi, immagini

che riemergono lenti

dal buio.

Note su righi e spazi

abbellite da trilli e bemolli,

effluvi soavi

di zagare e frangipani.

Pennelli intinti

su tavolozze di infiniti colori.

Memorie sbiadite

ricordando un passato

che non ritorna,

tracce indelebili della giovinezza

intrise di attese, di amori,

di spensieratezza.

Racconto di una vita,

incisa nel volto,

ora fluente, ora fralezza.

Un bimbo l’ascolta.

Mi ritrovo solo adesso in quel “bimbo che l’ascolta”. All’inizio non capii, troppo piccolo per comprendere le assonanze dei versi con i ricordi, vibranti e intrisi di riflessione. Quella poesia esprimeva la voglia di non perdersi, il desiderio e la speranza di non dimenticare i frammenti del tempo vissuto, la luce del mattino che inevitabilmente e lentamente scolorisce nel buio della sera. Quella poesia era una metafora sulla vita e sulla memoria. Quando ci penso, mi ritorna in mente nonno Tano che, ormai anziano, si sedeva sul terrazzino di casa e, con lo sguardo a volte assente, fissava un punto indefinito nell’orizzonte. A un tratto si alzava, prendeva un quadernetto e scriveva qualche verso. Era il suo modo per tradurre le emozioni che si alitavano nel suo cuore. E quando non riusciva a comunicarle con le parole, bastava rivolgergli lo sguardo: i suoi occhi, ancora espressivi e amorevoli, dicevano ciò che la sua bocca non era in grado di pronunciare.

prologo

1925

Mancavano poche ore all’alba del nuovo giorno.

Nella camera da letto i trispiti[1] cigolavano e sobbalzavano sotto i movimenti irrequieti e convulsi di Teresa, che non riusciva a stare ferma. Solo le donne erano presenti perché quello che stava accadendo era cosa di fimmini[2]. Gli uomini, confinati in cucina, attendevano trepidanti, soffrendo per i gemiti e le urla che provenivano dalla stanza attigua.

L’acqua continuava a bollire nei pentoloni messi sul fuoco del camino, l’asciugamano arrotolato era già legato alla testata del letto di ferro per essere stretto, scaricando così la tensione, e le forbici erano state disinfettate. Adelina, la mammana[3], era arrivata di corsa in bicicletta, avvisata dal padre della ragazza non appena le contrazioni si fecero più regolari e insopportabili. La mamma e la nonna di Teresa, insieme all’immancabile cummaredda[4] erano sedute intorno a lei e pregavano senza sosta.

Adelina era anziana ma esperta. Aveva fatto nascere anche la giovanetta qualche anno primae ora la aiutava a mettere al mondo quell’esserino, confortandola e rassicurandola durante il lungo travaglio, alleviando i suoi dolori, poggiandole panni caldi addosso e porgendole una tazza di camomilla e alloro per tranquillizzarla. Intanto, mormorando con un ritmo cadenzato, recitava una nenia, una sorta di formula magica, per esortare il nascituro a uscire dal grembo materno: «Nesci nesci cosa fitènti, ti lu cumanna Diu ‘nniputenti. Veni fora e non tardari cà a tò matri ha libirari!»[5].

Ultimi sforzi, ultime spinte e a un tratto, come un risucchio, la creatura sgusciò fuori.

«Masculu è!»[6]esultò Adelina.

Il neonato cominciò a strillare con tutto il fiato che i suoi piccoli polmoni avevano incamerato; si calmò soltanto quando fu messo nella tinozza piena d’acqua per essere lavato. Fu asciugato e ‘nfasciato[7] in una lunga striscia di stoffa bianca che lo avvolgeva completamente. Solo la testolina restò scoperta. La nonna e la madre di Teresa guardavano con infinita tenerezza il pargolo che aspettava di sentire il profumo delicato e inconfondibile della sua mamma, per poter riposare anche lui dall’immane fatica che è la nascita.

Adelina lo adagiò sul petto di Teresa, per farlo attaccare al piccolo seno. Ma lei, ormai esausta, si voltò dal lato opposto rifiutando quel contatto e, gridando, disse: «Levimmillu di ‘ncoddu. Portitillu. Nisciti tutti fora, fora! Non vogghiu vidiri a nuddu»[8]


[1]           Supporto a tre piedi.

[2]           Cosa da donne.

[3]           Ostetrica.

[4]           Comare.

[5]           «Esci, esci, essere fetente, te lo ordina Dio onnipotente. Vieni fuori e non tardare che tua madre devi liberare».

[6]           «È maschio!».

[7]           Avvolto.

[8]           «Toglimelo di dosso. Portalo via. Uscite tutti fuori, fuori! Non voglio vedere nessuno».

CONTINUA

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