UNA RAGAZZA DIFFICILE di Patrizia Birtolo

Otomo Yakamochi spinse l’uscio.
Un tanfo di lettiera stracolma lo scazzottò sul naso.
Non toccava a Clarisse?
Nei momenti no, in fondo alla coscienza si raggrumava un imbarazzato rimpianto per gli avvertimenti ricevuti, i continui
“Stai attento a chi ti tiri in casa, Otomo!” e “Perderai la tua pace, Otomo!”
Ma l’istinto non l’aveva mai tradito. E l’istinto diceva:
“Hai preso la decisione giusta!”
Ne era certo: veniva messo in guardia perché in quel quartiere gli volevano bene. Gli italiani, così affettuosi! Invidiava la loro facilità nel manifestare i sentimenti. A decenni dal suo arrivo, ne restava ancora sbalordito. All’inizio non tutto era stato facile. Gli italiani si erano straniti all’idea che l’intero paese venisse commissariato per ordine inderogabile dell’Unione Europea. Passare all’austera gestione nipponica li aveva colti di sorpresa. I portavoce vennero liquidati con scarni ragguagli:
“Siete nazioni che traboccano di anziani, poi la forte tendenza sismica…”
Per il resto non che le analogie si sprecassero. Ma ufficialmente:
“Avete tanto in comune!” suonava meno crudo di “Lo stivale s’è sfondato”, “Non vi funziona più un cazzo”.
La nipponizzazione non tardò a guadagnarsi fan, dagli appassionati di manga e anime agli estimatori di sushi. Ristoranti del sol levante spuntarono come funghi shiitake lungo gli stradoni delle città italiane a un ritmo che quello degli anni ’20 di inizio secolo a paragone faceva ridere. Ora ogni cinquanta passi un distributore automatico di uramaki sopperiva anche a languorini estemporanei.
L’Italia era proprio cambiata: opere pubbliche concluse in men che non si dica e fatte per sfidare il tempo; politici integerrimi lì a sgomitare per prendersi le responsabilità di fronte all’elettorato; rimborsi arrivati prima che ti accorgessi di averne diritto.
Sì e no accusavi un sintomo che dal nosocomio cittadino telefonavano per fissarti un’endoscopia a domicilio.
Persino nell’istruzione cambiamenti vistosi: i ragazzi filavano dritti come shinkansen, studiavano da matti e i genitori tutti zitti.
Già, e le organizzazioni criminali?
Scalzate tutte da una. Solo che si campava indisturbati, nei sondaggi la Yakuza passava per una marca vintage di vasche idromassaggio.
Un’Italia irriconoscibile.
Ma Otomo era un nostalgico: rimpiangeva i vecchi tempi, quando, in forze come psicologo per una multinazionale, il suo incarico era trasmettere una forte etica del lavoro ai dipendenti.
Come dottore? Arrivare puntuale? Se sono puntualissimo!
Si scandalizzavano impiegati con tre minuti di ritardo sul cartellino ogni santo giorno.
Un peccato non avere più i video dei colloqui, maledetta privacy. In patria trasmessi come candid camera avrebbero fatto sbellicare i suoi connazionali.
Forse non tutto andava a gonfie vele, un tempo, questo no. Però una società squinternata ti stimola elasticità mentale, resilienza, capacità di adattamento e senso d’avventura. E secondo Otomo erano vantaggi andati persi. Tante cose risolte, sì, ma il problema principale restava. I giovani. In Italia i giovani erano pochissimi.
“Come va con la tua ragazza, Tomo?”
Lo sguardo di Katzuiro gli rovistava la faccia da sopra il bordo della tazza di tè.
“Quale mia ragazza? Ho 74 anni, lei 16. Ci separano 58 anni, una dentiera e inconciliabili divergenze di vedute.” replicò.
Sì, proprio questione di vedute. Se ci fosse stato da scovare una definizione, Otomo avrebbe potuto chiamarla la mia pupilla.
“Insomma, quella.”
“È qui da sei settimane. Dalle tempo!”
“Ma la mensola? L’hai fissata bene, stavolta?” e guardò timoroso all’insù.
Sul cranio calvo sfoggiava una vistosa medicazione coccolata con disperato attaccamento. Gli era passato tutto tranne il piacere masochistico di rivangare l’episodio.
Otomo vedeva e sentiva ancora le ciotole metalliche scivolare eleganti sul piano inclinato e rovesciarsi con grazia sulla testa di Iro, una dopo l’altra, come una gragnuola di sventure concatenate fra loro. Mai sedersi sotto una mensola strapiena di campane tibetane. Una lezione di vita per cui andava ringraziata Clarisse.
Al Centro Volontari Anziani l’impiegato quel giorno si era tatuato un sorriso sulla faccia. Proteso verso Otomo oltre il bordo della scrivania, pareva volesse baciarlo in fronte.
“È un caso complicato, Sensei Otomo. Lei ci ha già dato enormi risultati con gli adolescenti.”
“Beh ecco io…”
“Non sia modesto, Sensei. Ha sbrogliato certe matasse! Pochi hanno la sua finezza, il suo intuito. Non ha mai fallito.”
Otomo lo guardò con commiserazione, sperando la scambiasse per tenerezza senile. Fallire? E come? I casi davvero intricati se li accaparravano psicologi in servizio attivo. Casi lunghi a risolversi, da lunghi diventavano lucrosi. A lui rimasugli: ragazzi afflitti da paranoie karmiche, un viaggiatore astrale compulsivo, uno spirito libero, tre giovani donne con dipendenze da trattamenti olistici e altre faccende di poco conto: hikikomori e cazzeggiatori cosmici. Per carità, qualsiasi cosa pur di tenersi occupato. Avesse previsto di annoiarsi tanto, per nulla al mondo avrebbe accettato la pensione anticipata. Quel nuovo caso non poteva esser difficile quanto ventilato, ma nell’attimo che precede lo svelamento tutto è ancora possibile. Deludimi con discrezione, pensò piantando gli occhi in faccia all’impiegato dal sorriso ebete.
“È un articolo 25!”
A Otomo le spalle si incurvarono qualche altro centimetro.
Pessimo esordio. Tutti i suoi casi li catalogavano come art. 25. Comportamenti devianti. Rogne banali, altro che devianza…

Quando un minore degli anni 18 dà manifeste prove di irregolarità della condotta e del carattere, il procuratore della repubblica, l’ufficio del servizio sociale minorile, i genitori, il tutore, gli organismi di educazione, di protezione, e di assistenza…

(insomma, tutti)

…possono riferire i fatti al Tribunale per i Minorenni, il quale (omissis) esplica approfondite indagini sulla personalità del minore e dispone con decreto motivato l’affidamento al servizio sociale.

Se serviva terapia psicologica – serviva sempre – entrava in scena lui. Se fosse occorso un adulto affidatario, sarebbe stata fatta.
Si sentiva solo.
Sì, c’era Kushakov, ma poteva riversare su quel gatto tutto il suo bisogno di dare affetto e cure? Mica voleva nevrotizzarlo!
Guardò mogio mogio l’impiegato.
“Un 25 eh?” sospirò dolente “A-ah, ma stavolta sul dossier c’è scritto con preghiera di secretazione degli atti!”
Otomo ebbe un lieve sussulto. Una fiammella di speranza gli si riaccese in petto. Una nuova sintomatologia? Una disfunzione inedita da ribattezzare? Già fantasticava su paragrafi intitolati Sindrome di Yakamochi nei manuali stampati di lì a dieci anni.
Poi si impose realismo.
Tornò a concentrarsi sull’impiegato.
“Molto strano, sa? Temono il dilagare del fenomeno, tentativi di emulazione. Se la sente di provare a trattarla?”
“Sono della vecchia scuola, ragazzo. Fare o non fare, non c’è provare” e gli fece l’occhiolino, alzandosi baldanzoso come non si sentiva più da un pezzo.
Aveva chiesto un colloquio preliminare, in un contesto neutro, per approcciarla e studiare una strategia per le sedute.
Gli era stato detto che l’incontro, purtroppo, era ai limiti del realizzabile. Sarebbe stato contattato direttamente, doveva attendere, fiducioso, tempi e modi. L’aspetto sul quale era stato più messo in guardia era che Clarisse, così si chiamava la giovane, aveva una personalità sfuggente, un carattere elusivo, e che stabilire un contatto con lei era davvero complesso.
Arrivò in un giorno di pioggia.
Secondo Otomo era buon segno. Si era mossa con la pioggia, era motivata. E poi, era passato così poco dalla convocazione al Centro. Altro buon segno. Il fatto strano fu che lei non si presentò, si intrufolò nell’appartamento e nella sua esistenza di soppiatto.
Non ne recepì subito la presenza, si avvide solo di oggetti spostati e minimi segni del passaggio di un qualcuno in casa. Cuscini sgualciti, briciole, schizzi d’acqua in bagno.
Però a un certo punto l’odore in casa cambiò. In meglio. Lo potevi chiamare “l’odore delle case dei vecchi” se votato alla sensibilità, oppure “una concentrazione più alta di 2-nonenale” se prevaleva l’impronta scientifica, ma di fatto, Kusha permettendo, la casa di Otomo prima aveva un certo odore e dopo Clarisse un altro.
Portò una zaffata di fragranze. Messe sul mercato in un unico flacone si sarebbero chiamate “Ah, la realtà, questa sconosciuta.”
Otomo non annusava le adolescenti da secoli, avevano un profumo così buono? Un misto di odore di spigo, saponetta, rossetto economico. Gomma per cancellare. Fieno appena tagliato.
Dopo averla sentita, la intravide. Niente di clamoroso, giusto fugaci impressioni carpite dalla coda dell’occhio. Se era una giornata buona, un’ombra bianca alle sue spalle nello specchio del bagno. Ma spariva subito. Oppure la sensazione che ci fosse qualcosa appoggiato sul tetto della macchina in sosta lungo il marciapiede. L’impressione di essere guardato: lo stilema di due pazienti occhi socchiusi riflesso fra le gocce di condensa sotto al coperchio di una pentola.
Come se ce l’avesse sempre dietro al collo.
Piccole cose, eppure si sentiva sulla strada giusta, doveva solo crearle l’occasione per manifestarsi. La fanciulla era timida o svogliata, occorreva incoraggiarla.
“Ce ne hai messo, vecchio mio!”
Clarisse aveva una voce calda, da donna.
Era lì davanti a lui che, assorto in meditazione, la vedeva sprofondata nel divano. Grandi occhi scuri, un caschetto di capelli lisci, neri. Lentiggini. Mani dalle dita lunghe, sottili. Tutta intabarrata in un teatrale pellicciotto rosa confetto, portava leggings beige. Quasi alta, magra: abbigliata com’era, pareva un bastoncino infilato in una nuvola di zucchero filato.
“Prendere l’iniziativa di presentarti, no?!”
“Come aver la soluzione senza leggere il problema” sbottò.
“Oh, brava, il problema. Che hai combinato? Solo il giudice ha accesso ai documenti. Spiegami tu, o non ne verremo a capo.”
“Tu mi vedi, comunque?”
“Sicuro, perché?”
“Già qualcosa. Solo ora che mediti, giusto? Mai vista in casa, in giro per il quartiere?”
“Bene così, soltanto ora.”
“Umpfh.”
“… Dunque?”
“Ok, ok. Ti dirò tutto. Ma niente prediche. Tutti sbagliamo. Alcuni sanno cavarsi dai guai da soli, altri no. Io rientro nella seconda categoria.” concluse con tono incolore, incassando le spalle nel pellicciotto.
Attaccò all’imbrunire.
Quando disse: “Ho finito. Questo è tutto” il sole bucava la foschia decisa a murare l’isolato.
Otomo soppesò il resoconto.
“Scotomizzata? Quando me l’hai detto credevo fosse tipo tagliuzzarsi le braccia o roba simile. Ti posso capire. Ora però tutto ciò che vuoi è dall’altra parte della paura.”
“Scotoma, il piccolo punto completamente cieco della retina. Otomo, devi partire da lì. Tu guarda che casino.” sorrise amara fra sé “Ho iniziato per ripicca: se non mi ascoltavano, o nessuno mi faceva caso… Beh, era un ripiego. Stavo per conto mio e quando mi era passata tornavo. Non credevo che ‘sta faccenda mi avrebbe preso la mano, giuro.”
“Con le ossessioni è così. Quando ti accorgi – se ti accorgi – che loro controllano te, le cose sono andate troppo oltre.”
“Anche io sono andata troppo oltre?”
“E chi lo sa. Dobbiamo invertire la rotta per scoprirlo. Ora basta però. Devo riposare. Stasera proverò a raggiungerti. Per ripercorrere la tua strada e riportarti qui, mi dovrò esercitare anch’io. Servirà pazienza.”
Otomo si svegliò dopo una sostanziosa dormita e iniziò ad attrezzarsi per recuperare Clarisse.
Scotoma.
Che diceva Internet? Non granché. In fondo alle nostre retine abbiamo tutti un punto cieco, d’accordo. Zero fotorecettori, quel punto non può trasmettere alcuna immagine. Un vero e proprio buco in mezzo all’occhio, ma la visione resta possibile perché il cervello va a compensare le mancanze oculari. Otomo ne aveva un vago ricordo, nozioni di anatomia perse nel mare del tempo. Tutto vagamente plausibile, pensò. Se ce l’ha fatta la ragazzina, ce la posso fare anch’io, è solo questione di allenamento.
Cominciò dal gradino più basso.
Gli esercizi dicevano:
“Chiudete l’occhio destro e guardate la croce con l’occhio sinistro da una distanza simile alla lunghezza del vostro braccio. Senza smettere di guardare la croce, avvicinatevi lentamente allo schermo fino a che il punto non scompaia…”
Ora: che scomparisse un puntolino dallo schermo del pc a Otomo non provocava gran sussulti. Qualche paziente tentativo e il giochino gli riuscì. Si divertì un altro po’: senza spargimenti di sangue fece sparire la testa di Carlo I d’Inghilterra in un’altra versione del gioco. Si trastullò ancora poi ebbe una certa vergogna di sé stesso. Ormai s’era capito il meccanismo. Il sistema visivo completava automaticamente l’immagine nel punto in cui era presente la macchia cieca, là dove ci si sarebbe aspettato un vuoto. Doveva mettersi allo specchio, angolarlo un poco e insistere fissando un punto davanti a sé, sfuggendo la normale messa a fuoco come negli stereogrammi, finché la sua immagine riflessa invece che stagliarsi in terza dimensione non si fosse annullata. Lui era piccolo, un puntolino fisicamente insignificante. Non c’avrebbe messo troppo…
L’aveva raggiunta al quinto tentativo. Sentì l’urletto gioioso di Clarisse.
“Otomo, sei passato! Ti vedo…”
“Ti vedo anch’io” le disse. In uno slancio l’abbracciò. Per una volta che si lasciava andare, se ne dovette pentire subito. Il malessere generato dal gesto lo assalì.
“Stai bene? Che c’è?”
“… Non sei concreta. Non posso stringerti. È come abbracciare una voluta di fumo! Pensavo sarebbe bastato passare da questa parte e trascinarti di là a ritroso ma tu… Hai perso consistenza! Non te ne sei accorta?”
“Eh?”
“Clarisse!”
“Ma che dici?” Clarisse si girò di scatto, si guardò intorno e puntò al tavolino basso da tè. Gli assestò una manata. Attraversò la solidità dell’oggetto come il fascio di una torcia taglia la nebbia. Si aspettava resistenza, per la sorpresa finì a sbattere col mento sull’orlo del tavolinetto. Se lo sfregò. Gli occhi le si riempirono di lacrime.
“Ti sei fatta male?”
“NO! E avrei dovuto, immagino! Cosa mi sta succedendo?”
“È un po’ peggio di come pensavo, bambina” si sedette sul cuscino accanto a lei “sei qua da troppo, ti stai disincarnando. Vivere a… Come vuoi chiamarlo questo solco della realtà? Scotomaland? Vivere qui ti sta facendo smaterializzare. Gli altri non ti vedono da troppo, a furia di non essere più percepita ti stai…”
“Dissolvendo?”
“Più o meno.”
“E adesso? Otomo ho paura. È una faccenda troppo ripida, non ce la farò mai da sola. Devi aiutarmi!”
“Come dici?” Otomo era sbiancato.
“Devi aiutarmi!” Clarisse stava per afferrargli le spalle, ma si trattenne.
“No, prima. Che hai detto prima?”
“Prima?”
“Un attimo fa… Una faccenda? Come hai detto che è la faccenda?”
“Pericolosa? Ripida? Complicata? Assurda? Che ho detto?”
“Ripida. Hai usato ripida. Clarisse, guardami. Dimmi chi vedi.”
Clarisse si bloccò. Era un ometto scialbo, temeva di offenderlo. Le serviva il suo aiuto. Devi attraversare il fiume prima di dire al coccodrillo che ha l’alito cattivo, pensò. Stai sulle generali, non infierire.
“Altezza media. Sei di corporazione minuta. Mani grandi e forti. Hai occhi scuri, un viso lungo, magro. La fronte alta, appassionata. Il naso un pochino…” Otomo aveva un che di disperato nello sguardo “magari un po’… scosceso?” sussurrò dubbiosa.
Lui si passò una mano sugli occhi.
“Figlia mia, non andiamo bene per niente. Non ci siamo proprio. Forse non te lo ricordi più, si dice corporatura minuta, non corporazione. Una fronte non è appassionata, caso mai ampia, bassa, corrugata… E nessuno al mondo definirebbe un naso scosceso.”
“Ma cosa me ne frega, Otomo? Sto scomparendo e tu mi tieni una lezione di grammatica?”
“Ascoltami e stai calma, perché se non ci riesci avremo solo altri problemi da risolvere. Stai disimparando anche il linguaggio. Sguazzare in questa zona grigia senza esercitarlo ti ha ridotto a un naufrago su un’isola linguistica disabitata.”
“Non me ne frega un cazzo, Otomo” ruggì lei, gli occhi ridotti a fessura. “Il mondo è pieno di sedicenni che usano male le parole. Loro però non stanno per sparire completamente, io sì. È peggio che morire, capisci? Dove andrò a finire?”
Tornò da lei poche ore dopo. Ragionandoci su, aveva trovato istruzioni per Clarisse. Pochi, semplici esercizi. Esercizi di realtà, li aveva chiamati lui.
Cose della vita quotidiana. Cose che capitano, e la gente sbuffa. Per riassuefarsi al reale, Clarisse doveva affrontarle. La prima lista prevedeva:
– Macchiarsi un abito, studiare la macchia a lungo.
– Trovare una cerniera lampo incastrata. Combatterci per un po’.
– Aprire sacchetti di plastica nuovi.
– Agganciarsi da sola un braccialetto.
– Schiacciare formiche minuscole.
Oh, povere! Aveva detto leggendo l’elenco.
Però si era adeguata.
C’erano anche premi: comprare al distributore all’angolo un uramaki e mangiarlo tutto, anche se non le andava; o esercizi divertenti come arrotolare e srotolare una ciocca di capelli intorno a un dito.
Lo spavento preso durante il loro primo incontro l’aveva smossa, la psicomotricità fine l’aveva stimolata molto.
Poi, come ogni adolescente che si rispetti, si era rilassata.
Ora rimandava gli incarichi fastidiosi – quale miglior bagno di realtà che pulire la lettiera di Kusha o la pattumiera? – e perdeva tempo incollata alla finestra.
Otomo vedeva le tende in soggiorno restare scostate da sole a scoprire i vetri. Faceva rapide visite a Scotomaland quasi ogni giorno, con liste nuove, pronto a interrogarla sui compiti già svolti.
Era andata a far colazione al bar di fronte? Aveva attaccato discorso con il ragazzo che faceva i caffè? Pareva di sì, perché gli era giunta voce fosse stato ricoverato. Non è da tutti la dimestichezza immediata per certi tipi di contatto.
Clarisse intanto stava migliorando a vista d’occhio, si diceva Otomo con un pizzico d’autoironia. Più socievole e sbarazzina, di quando in quando gli saltava davanti coperta da un enorme lenzuolo bianco. Era anche capace di gentilezze inattese. Riacquistata un po’ di sostanza, lo aspettava sulla strada del ritorno per prendergli di mano i sacchetti della spesa.
Ma alcune cose lo infastidivano.
Ogni tanto coglieva con la coda dell’occhio il gatto che veniva lanciato per aria e ripreso al volo, povero Kusha. E la volta che gli si era parato davanti un revenant? Bel tipo, sui vent’anni, jeans e chiodo di pelle. Otomo si era un po’ seccato. Che modi. Il giovane aveva preso a seguirlo in ogni stanza, tartagliando a occhi sbarrati:
“Allora la sai fermare l’emorragia o no?”
Era un progresso, perciò non l’aveva sgridata. Le aveva solo fatto presente che quando invitava qualcuno dei suoi amici preferiva essere avvertito prima, tutto qui.
Intuiva che Clarisse avrebbe voluto chiedergli un tentativo, ma temeva di non essere abbastanza forte da superare il ritorno alla realtà. Lui invece sperava procedesse da sola, per prove ed errori. Ci tentava tutti i giorni, nelle occhiate di sbieco che gli capitava di lanciare intorno cominciava a distinguerla sempre più nitidamente. Una tasca del pellicciotto, lunghe dita aggrappate allo stipite o un occhio carico di mascara riflesso nel vetro dello sportello del forno.
Migliorava, fra poco ce l’avrebbe fatta, ma mancava qualcosa.
Un giorno glielo chiese a bruciapelo.
“Com’è che non riesco? Mi ammazzo di esercizi e sto sempre da questa parte.”
“Clari, ci sono cose della vita che hai dimenticato. Forse ti sei scordata anche di averle dimenticate.”
“Sarebbero?”
“Per rientrare dalla mia parte di realtà, umana e tangibile in tutto e per tutto, dovresti riappropriarti dei tuoi difetti. Almeno qualche dispetto ogni tanto, senza strafare, ma ci vuole. Non saresti vera altrimenti.”
Le campane tibetane volate in testa a Iro lo avevano fatto ben sperare.
“Ogni giorno faccio porcherie e ancora niente!” si lamentava lei.
“Insisti. La costanza è fondamentale.”
Si era impegnata a fondo. Nonostante una serie di macchine rigate, lampioni rotti e panchine divelte, non riusciva a venirne fuori.
Un giorno aveva sentito l’urgenza di correre a trovarla subito.
Stava singhiozzando. Era un bel mattino primaverile, Otomo aveva spalancato l’uscio. Lungo il viale tutti i ciliegi fatti piantare dall’amministrazione comunale esplodevano in una dolce luce rosata.
“Perché non ci riesco? Perché?”
“Penso ti manchi ancora qualche parte importante. Qualcosa di grave, di tipicamente umano. Sai mentire? Un essere umano è mediamente esperto, magari soltanto nel mentire a sé stesso ma comunque esperto. Imbrogliare? Hai mai imbrogliato? O un po’ d’ingratitudine… Non so. Non vorrai arrenderti adesso, ti manca così poco!”
“Ok” rispose con un fil di voce. Pulì le righe di mascara colate sul viso. Lo abbracciò più forte del solito.
Otomo non credeva ai propri occhi. Voleva esultare. Aveva paura di esultare. Espirò profondamente.
Tornò indietro e ripeté gesto per gesto. Estrasse le chiavi, aprì il portoncino, le infilò in tasca. Camminò a passi lenti verso la porta di casa, si contenne per non precipitarsi. Tirò fuori le chiavi, tremando le infilò nella serratura. Spinse l’uscio.
L’appartamento era vuoto.
Vuoto!
Più nulla, né mobili, né oggetti.
Disse:
“Ehi!” per il gusto di sentir rimbombare quell’ “Ehi!” in tutta la stanza.
Lei ce l’aveva fatta.
Restava, intenso, il suo odore caratteristico. Cosmetici e cancelleria nuova. Fieno e spigo.
In un angolo del pavimento, l’impronta di uno stivaletto. Lì vicino, disegnato nella polvere, c’era un ghirigoro tremolante:
感謝

… “Grazie”, decifrò Otomo, non senza fatica data la grafia incerta di quei kanji. Poi gli sfuggì un sorriso.
“Ti ha ripulito proprio bene, Tomo, eh?! Come un ossobuco! Persino il gatto s’è presa! AH!” Katzuiro se la godeva un mondo. Gli occhi gli brillavano.
“Andrai a denunciarla, vero? Spero che…”
“Lo escludo.”
A Katzuiro andò di traverso una sorsata di tè. Sbrodolò sulla stuoia di fortuna che Otomo aveva steso sul pavimento.
“Come? Come no?”
“No. Pensino pure che non voglio passar da scemo, ma non banalizzerò come truffa a un anziano quello che per me invece è un grande successo. È lunga da spiegare, Iro. Ha rubato anche gli appunti sul suo caso, ma ho tutto in testa. Ho ancora contatti in Università e qualche soldo da parte: la carta di credito sta nel portafoglio, quello lo tengo sempre con me” e strizzò l’occhio.
“Contento tu!” l’altro allargò le braccia in segno di resa.
“Mai stato così contento” aggiunse Otomo, e, dopo un attimo “gli oggetti possono aiutarci lungo il viaggio, ma non sono il viaggio.”
Poggiò la tazza di polistirolo accanto al fornelletto rimediato dalla vicina. Alla sua età, quello che il mondo avrebbe giudicato un disastro era un’enorme benedizione. Desiderare cose, tenerle sotto controllo, non faceva per lui.
Ricominciare da capo, invece, sì.

Una ragazza difficile è un racconto di Patrizia Birtolo

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