IL SENSO DELLA VITA di Ernesto Benini (parte prima)

Nella mia testa è rimasto forse soltanto un ronzio. Potrebbe essere anche soltanto il rumore della metropolitana che va, corre, che mi riporta a casa, oppure una sorta di rimbombo interno. Vuoi vedere che ho anche l’Acufene? Mi mancherebbe anche quello! Tutta questa storia che chiamano vita si sta rivelando proprio una schifezza. E la domanda che mi rincorre da troppo tempo oramai è quella se sia il caso di viverla. Oppure è solo da questa mattina che me lo sto chiedendo, ma comunque è sempre troppo e devo farmi chiarezza, perché forse quel ronzio che sento non è acufene o rumore ma proprio questo dubbio che mi assilla. Devo fare chiarezza. Devo farmi chiarezza.

Potrei anche solo essermi alzato storto questa mattina, con il solito rumore della televisione del vicino a un volume eccessivo. Potrebbe essere, anche perché non ho mai sentito dentro di me quella pulsazione così forte del desiderio di ucciderlo. Ma come si fa a essere così? Glielo avrò detto mille volte, con tutte le possibili inclinazioni della voce, dalla più simpatica alla più dura, ma niente. Niente, lui continua a disturbare in questo modo e io non ne posso più. E se avessi avuto tempo penso che questa mattina l’avrei sicuramente ammazzato. Ma dovevo andare al lavoro e stavo facendo tardi.

Certo, che cazzo di ragionamento! Avrei potuto e voluto diventare un assassino e mi stavo preoccupando del ritardo al lavoro, di quei pochi minuti di ritardo che si possono tranquillamente recuperare a fine turno! Il cervello certe volte fa veramente strani scherzi. Però, quel ragionamento idiota di questa mattina che in modo automatico, quasi istintivo, mi è arrivato alla mente, è sicuramente un sintomo del mio condizionamento sociale, ovvero di essere diventato anch’io quello che ho sempre considerato deleterio, cioè una semplice e banale casella in quella sorta di arnia che chiamano esistenza. Eppure, ho sempre cercato di evitarlo, di non essere banale, solito, remissivo, ma evidentemente era tutto un imbroglio che stavo facendo a me stesso. Perché pensavo che l’essere non conformista, non leccaculo, ma ribelle e indisponente, fosse da considerare come un sintomo della mia libertà, della mia diversità. Balle. Evidentemente anche quel personaggio che interpretavo nel microcosmo del lavoro fa parte della struttura della società, magari ne è proprio una componente essenziale, una sorta di contraltare a tutti i pecoroni. E quindi il non essere mai stato a Sharm-el-Sheik e non avere mai fatto una settimana bianca, il non pagare mensilmente rate per un SUV o uno smartphone, molto probabilmente non è stata per il Sistema vera ribellione, ma al contrario, una diversità necessaria per fare sentire migliori di me quei coglioni dei miei colleghi, con quella miseria di pseudo-lusso che si potevano permettere. Probabilmente sono stato una parte integrante di quel Sistema che disprezzo senza neanche rendermene conto!

Ma forse anche quell’istinto omicida che sento pulsare dentro di me da questa mattina fa parte del gioco. E immaginarmi di entrare in ufficio con in mano un paio di pistole e sterminare tutti quanti, a iniziare dal capo, è stata l’immagine che mi ha accompagnato per tutta la giornata. E nella mia testa ho anche cercato di darmi una sequenza logica, sul come agire e su come colpire. Prima di tutto il posto del corpo dove sparare. La testa? Il cuore? I genitali? Perché anche questo è importante! Una volta che si decide di uccidere si deve cercare il maggiore gusto nel farlo. E quindi è preferibile essere sicuri di avere dispensato morte, oppure è meglio il sentire rantolare la propria vittima? Sicuramente la seconda soluzione sarebbe migliore, ma sarebbe troppo barbaro, incivile. Meglio una morte rapida e possibilmente indolore per stare a posto con la mia coscienza. Quindi è necessario essere precisi e veloci per ottenere un risultato decente. Magari fare mettere tutti in ginocchio e da dietro colpire con un proiettile alla nuca. Proprio come facevano i nazisti.

Ma io ho sempre odiato i nazisti! No, decisamente una strage fatta in quel modo non è nella mia etica. E non per la morte in sé, ma proprio per la insensatezza dell’atto. Uccidere persone senza che queste sappiano il perché della loro fine è una cosa che non ha senso. Sarebbe più giusto prenderli uno per uno, e spiegare loro quello che hanno fatto per meritare di sparire da questo mondo, quello sì che sarebbe un comportamento onesto.

Ad esempio, prendere il dottor Raffaele Nicosia, trasportarlo fuori da quel suo ufficio rinnovato solo per soddisfare la propria boria e così pesantemente costato ai contribuenti detraendo il suo costo dalle tasse, e portarlo in una cantina buia e umida e raccontargli tutte le sue piccole odiose malefatte compiute solo per affermare la sua autorità, quello sarebbe giusto. E anche soddisfacente. Perché ogni capoufficio, ogni dirigente, dovrebbe in qualche modo pagare pegno, scontare tutte le angherie fatte ai propri sottoposti solo per il gusto di farle, per il potere di farle. Senza mai pensare alle conseguenze.

Ma lui se n’è sempre fregato di ciò che poteva causare ogni sua irragionevole decisione. Perché negare un turno di lavoro adatto a una madre single con problemi di pagamenti di mutuo, che non si può permettere una babysitter al di fuori dell’orario di asilo, oltre che totalmente inutile è soprattutto iniquo. E la sequenza degli eventi forse casuale, o forse no, che aveva innescato la sua scelta di costringere al turno serale la mia collega Paola Angeli, era stata tragica e non aveva portato al dramma solo per caso. Perché lei aveva dovuto lasciare il figlio di appena due anni alla madre, che forse per l’impegno di accudire il bambino o solo perché magari esiste veramente un Dio che vive a Bruxelles che si diverte a fare i dispetti, aveva avuto un malore, un infarto, e il bambino era rimasto solo, incustodito, con una casa e i suoi mille pericoli a disposizione, ferendosi con un coltello della cucina. E solo i suoi pianti di dolore inconsolabili avevano poi fatto accorrere la portiera del palazzo che con il suo doppione delle chiavi dell’appartamento era entrata per accertare cosa fosse successo, e che quindi aveva fatto intervenire l’autoambulanza salvando di fatto la vita della nonna e del bambino. Ma se quel piccolo uomo del capoufficio avesse lasciato Paola a casa come gli aveva chiesto, sicuramente non sarebbe successo nulla di tutto questo. Almeno non in quel modo.

Ma in fondo fare pagare queste cose al carnefice senza considerare la complicità della vittima non è sicuramente corretto. Perché lei non è tornata in ufficio sbraitando e aggredendo il dottor Nicosia per quello che le era successo. No. Ha dato la colpa di tutto al fato, senza minimamente accusare il suo capo, e ringraziando persino Dio per i pericoli scampati, sostenendo che era stato lui a mettere una mano sulla testa della sua famiglia salvandola! Ma se veramente Dio si sarebbe voluto impicciare, perché non aveva fatto venire un infarto al Nicosia invece che alla madre di Paola? Che razza di essere superiore può essere uno che fa accadere tutto questo a delle persone innocenti senza fare capire al carnefice la propria cattiveria? Chi crede in questo Lui, non avrà mai il mio rispetto.

Come non lo ha Paola Angeli che dopo questo fatto, non solo non ha incolpato il capoufficio, ma ha sempre di più chinato la testa davanti a lui. Anche letteralmente, fino a farla finire dopo poco tempo proprio tra le sue gambe, forse pagando in quel modo la sua esenzione da ogni turno scomodo e avendo anche una promozione con scatto di stipendio. In pratica si è prostituita davanti a chi aveva messo in pericolo la sua intera famiglia. E non è questione di etica o di morale ma di dignità, che lei ha perso o venduta. E anche lei vorrei prendere e tirarla fuori da quella sua sessualità in vendita per farle capire che è meglio cadere combattendo che soccombere in quel modo. Dovrei proprio spararle. In mezzo alle gambe mi sembra volgare, ma non vorrei rovinare la sua faccia sparandole in testa, anche se sarebbe forse il modo migliore per colpire anche quel suo Dio che le si è insinuato nel cervello. Ma quella sua immagine mi disturba perché dopotutto è una madre che magari il figlio non vorrebbe vedere sfigurata. Almeno non adesso che è ancora piccolo.

Però tutta la determinazione alla strage che ho provato durante tutto il giorno, la sera, nel viaggio in metropolitana di ritorno a casa, si è affievolita sempre di più, perché riflettendo sulle persone che conosco, purtroppo mi viene istintivo in qualche modo di pensare alle loro esistenze che io vorrei troncare, e in tutte trovo sempre un risvolto, un rigagnolo di vita degno di essere vissuto. Anche quel bastardo del dottor Nicosia, in fondo che ha fatto di male approfittandosi della sua posizione per fottersi Paola? È pur sempre ancora una bella donna e anche a me piacerebbe che mi facesse certi servizi.

Ma che razza di ragionamento maschilista mi è venuto in mente! Certo, passare da volere essere un assassino a essere un prevaricatore sessuale è un attimo! Ti distrai un poco e ti ritrovi a trovare giusto che una donna debba essere costretta in qualche modo ad acconsentire alle tue voglie senza averne né desiderio né piacere, e in un attimo diventi la feccia dell’umanità! Io non ho mai sopportato chi prevarica, chi usa la forza o il potere per ottenere qualsiasi cosa e adesso mi è addirittura venuto in mente che sia tollerabile il costringere una donna come ha fatto Nicosia. Devo assolutamente fare chiarezza, fare chiarezza nella mia mente perché mi sembra proprio di essere confuso. Mi sembra che a forza di stare solo abbia cominciato a pensare di non sopportare più nessuna persona.

Tanto meno questi ignobili ragazzi della nuova generazione che ridono e sghignazzano nel mio vagone della metro rompendo le scatole a tutti. E mi dispiace di non avere con me la pistola perché porrei fine a questo casino in poco tempo. Quattro o cinque colpi al massimo, proprio come Charles Bronson nel Giustiziere della notte. Proprio come un vendicatore solitario. Ma che vendetta sarebbe uccidere dei quindicenni? Al massimo sarebbe una morte preventiva perché sicuramente se alla loro età sono così antisociali, chissà cosa potrebbero diventare da grandi! Prevenire non è meglio che curare? Però in questo caso non si darebbe a nessuno il diritto di sbagliare neanche da ragazzo e la possibilità di cambiare crescendo e capendo. In fondo se avessi incontrato uno come me quando avevo la loro età non sarei certamente qua perché sono sicuramente stato molto, molto peggio di loro!

Ma questa deriva tra il sentirmi un serial killer oppure uno stragista tipo college americano non credevo che mi appartenesse. E mi dà fastidio sentirmi in questo modo. Sono diventato un pericolo per me e per gli altri. Depressione, solitudine o chissà che altro mi hanno come fuso il cervello, ma ora un’idea più chiara della mia vita, della mia rabbia, dell’insoddisfazione finalmente ce l’ho. Perché ho capito che, se eliminassi me stesso sarebbe sicuramente più semplice, più diretto e forse anche più normale. Se il mondo ha preso una strada diversa dalla mia, se è diventato quello schifo che vedo ora, non posso distruggerlo completamente per salvare solo me stesso. Anche se forse sarebbe più giusto perché sono sicuro che io sia dalla parte giusta e che tutti gli altri siano da quella sbagliata. Ma non posso mica ammazzarli tutti!

Dentro lo specchio del mio appartamento mi trovo a guardarmi nella sera di questa giornata così strana e contradditoria. E mi chiedo se veramente voglio che sia l’ultima della mia vita. Mi guardo intorno, guardo le mie cose, quelle a cui sono sempre stato affezionato e penso che non mi dovrebbe interessare se si rompessero perché da morto non ci farei proprio nulla, anzi non sarei più in grado di sapere della loro esistenza. Ma se prendo in mano il doppio vinile “Made in Japan” dei Deep Purple non me la sento proprio di distruggerlo. E come potrei rompere Led Zeppelin IV con il suo inimitabile Stairway to even?

Strano come le cose a cui teniamo le diamo per scontate, come eterne, inamovibili, senza però dargli la giusta importanza fino a che non ci vengono a mancare. Saranno anni che non ascolto più quei vinili ma sento di non poterne farne a meno. Perché? Se anche non ci fossero più non me ne sarei di certo accorto perché non li uso ormai da tempo. Come da tempo non vedo Frankenstein Junior, i Blues Brothers o Animal House, Philadelphia o Soldato Blu. So soltanto che per me esistono, mentre magari i loro DVD si saranno anche smagnetizzati, chi può saperlo?

E questo pensiero mi fa decollare con la mente in voli pindarici oramai antichi, sentieri della mia mente non più battuti, come se cercassi di sapere se esistono ancora oppure se anche la mia mente non si sia in qualche modo smagnetizzata e non sia più in grado di sapere discernere il bene dal male. Il Guevarismo e il Leninismo, Marcuse e Adorno che mi sono sempre trovato a citare anche a sproposito, perché tanto chi mi ascoltava o non li conosceva o non era in grado di capire oppure neanche dava importanza alle mie parole, sono ancora un mio patrimonio oppure sono come i vinili e i DVD, impolverati e smagnetizzati senza potere essere più neanche pensati?

Questo è un bel dilemma. Come il fatto che stare con una pistola in mano pronta per essere puntata alla tempia per un atto definitivo è assolutamente contradditorio con tutto quello che sto pensando. Ma come? Non riesco a distruggere delle cose e sono pronto a distruggere la mia mente, i miei pensieri, le mie idee? Eppure, ho sempre pensato che quello fosse l’unica cosa da preservare. La capacità di discernere e di ragionare.

Improvvisamente mi sento stanco. Stanco di tutto, forse anche di vivere, di proseguire in una esistenza di giorni così uguali a sé stessi, acini di un grappolo d’uva che sembrano diversi tra loro, più grandi o più piccoli, più maturi o acerbi, ma che in fondo hanno sempre lo stesso sapore.

La bottiglia di Grappa Barricata che ho comprato anni fa è ancora quasi piena. Forse non l’ho mai toccata perché ogni volta che ci ho provato ci ho visto riflesso il sorriso di Marcella felice di avere trovato qualcosa per me che mi ricordasse delle nostre vacanze sulle Dolomiti. E non pensavo proprio di sentire questo tipo di dolore per la sua mancanza quando lei se ne è andata via insieme a Ernesto e Mara, i nostri figli. Ho anche sempre creduto che sarebbero stati solo loro a continuare a soffrire per questo distacco, incapaci di superare il dolore che gli avevo causato, ma evidentemente mi sbagliavo. Oppure no, non posso saperlo. Non so neanche se loro hanno sofferto o se continuano a soffrirne, perché mi sono messo nelle condizioni di non poterlo sapere.

Appena chiusa la porta dietro di loro avevo già la mente altrove. Un’altra città, un’altra donna, un altro lavoro nella stupida idea che quelle cose sarebbero bastate per ricominciare tutto da capo, e potere riprovare le stesse cose di quando era iniziata la mia storia con Marcella. Ma forse neanche questo è veramente sincero, perché altrimenti non si spiegherebbe perché tra le poche cose che ho conservato della mia vita precedente, abbia voluto portare con me anche questa Grappa. Che ora mi provoca. O mi aiuta. Perché stordirsi sembra proprio che sia l’unico viatico per percorrere fino in fondo la strada che penso proprio di avere intrapreso.

E per andarsene ci vuole qualcosa che aiuti, che renda questo momento unico, particolare, almeno per me che ne sono necessariamente l’unico protagonista e l’unico spettatore. E necessita oltre all’alcool anche un tappeto di musica che lo caratterizzi. Ma scegliere un vinile tra le centinaia che mi hanno accompagnato durante la mia esistenza non è certamente una scelta facile e mi accontento del caso, di quello che è rimasto sul piatto del mio Hi-fi chissà da quando. E anche se Ummagumma dei Pink Floyd non è quello che mi sarei aspettato, va bene lo stesso. Addirittura, mi è venuto da pensare che invece Careful with that axe, Eugene, sia quasi un segno del destino perché affogare uno sparo così definitivo nel famosissimo urlo che caratterizza quel pezzo è proprio quasi un’apoteosi. Così come invece Astronomy Domine che lo precede sia l’accompagnamento giusto per scolarsi quella bottiglia e lasciare la mente libera di viaggiare tra i ricordi e i rimpianti.

Che strano, dopo che mi sono convinto della bontà di questa soluzione finale, di questa scelta di farla finita che fino a questo momento non avevo mai considerato possibile, e che potrei definire senza ombra di smentita una Scelta mai Fatta e che evidentemente non potrò ripetere, mi sento come liberato da qualsiasi catena, e nella mia mente improvvisamente non trovo neanche più un rancore che mi possa avvelenare questo momento.

Non verso Marcella o verso i miei figli talmente tanto resi liberi da sentirsi liberi anche da me. Dopotutto gliel’ho insegnato proprio io il disdegnare il sentimento obbligatorio di una famiglia per quello più genuino di una scelta. Occorre amare solo chi lo merita. Giusto. Ed evidentemente per loro io non lo merito o forse non l’ho mai meritato e per questo non hanno avuto nessuna remora a prendere una strada nella loro vita che non prevedeva la mia presenza. E mi sento finalmente anche libero di dispiacermi, di sentire la loro mancanza. La Grappa e i Pink Floyd e forse anche questa pistola tra le mie mani mi stanno rendendo libero di avere un sentimento sinceramente sbagliato ma inequivocabilmente irrefrenabile che è il bene che si prova verso i figli.

Perché anche se loro non ti vogliono nella loro vita, restano però sempre carne della tua carne e l’averli messi al mondo ha fatto sì che a loro insaputa si prendessero una parte di te, e se la portassero sempre dietro. E se anche i figli magari non lo sanno, non lo vogliono, quella parte resta comunque dentro di loro, e i genitori la continueranno a percepire per sempre come propria, perché è solo una parte di loro che sta vivendo altrove.

E non provo neanche rancore verso Rita che è rimasta nella mia esistenza dopo Marcella per solo pochi sprazzi di vita, dimostrando che lei non valesse proprio la pena. Ma la colpa per la prima volta non riesco a darla a lei. E forse per la prima volta riesco ad ammettere a me stesso di avere sempre saputo che la inadeguatezza della sua immaturità non poteva sostituire la mia famiglia, che la freschezza dell’amore di Rita con il tempo non poteva valere l’amore incondizionato di Marcella. Che strano, lo sapevo, e ora so di averlo sempre saputo, e nonostante questo non ho avuto esitazioni nel fare quella scelta così sbagliata. E già! Riesco ad ammettere che nella mia vita ho sbagliato qualche volta anch’io! Creando tra l’altro anche dolore. Forse. Perché non mi sono mai curato di sapere se Marcella, Mara o Ernesto soffrano di questa nostra separazione.

E non mi sento più in grado o in diritto di sparare al vicino con la sua televisione a un volume eccessivo, né al dottor Nicosia con la sua prepotenza, e nemmeno a Paola con la sua prostituzione da ufficio che ho sempre trovato quasi blasfema, e neanche a quei ragazzi così maleducatamente indisponenti che sulla metropolitana rompevano le scatole a tutti. D’altronde chi sono io per giudicare gli altri? Adesso lo capisco quanto sia sbagliato sentirsi giudice e boia contemporaneamente. È come sentirsi Dio.

Ecco, se c’è qualcuno a cui porto ancora rancore è proprio Lui. Che neanche so se esista davvero. Anche se sono a pochi minuti dallo scoprirlo. Ma se esiste, cazzo, spero che sia abbastanza democratico da farmi dire tutte le mie ragioni! Sono proprio curioso di sentirne le risposte, sempre che Lui esista! D’altronde tra noi ci sono soltanto i pochi minuti che mancano all’urlo del pezzo dei Pink Floyd.

Ma improvvisamente si frappone anche un campanello che squilla. Proprio adesso! Non mi sembra il caso, ma dato che insiste devo interrompere questo momento, convinto però di ripeterlo immediatamente dopo. E mi viene da ridere nel pensare che quella Scelta mai fatta che doveva essere irripetibile invece la dovrò proprio rifare una seconda volta!

Dentro la porta del mio appartamento una donna, maledettamente bella e maledettamente inopportuna che con grande naturalezza mi chiede di entrare.

«Scusi?!», le chiedo.

«Di che?»

«No… nel senso che volevo chiederle chi cerca o che vuole», chiarisco io anche inutilmente visto il sorriso di sufficienza che le arriva sulle labbra.

«Non perdiamo troppo tempo!», mi dice scansandomi delicatamente ma anche decisamente da davanti a lei, entrando risoluta nel mio appartamento.

Sicuramente ho fatto una figura da sciocco restando un poco fermo sull’uscio di casa tenendo in mano la maniglia della porta aperta, ma sono rimasto più che sorpreso da questa apparizione. Con calma, per prendere tempo, mentre sto ancora cercando di capirci qualcosa, la osservo attentamente. È forse quella che assomiglia più di ogni altra al prototipo della donna che io ho sempre cercato senza mai averne riscontro, anche perché forse sono stato troppo esigente nel costruirmelo, ma d’altronde quando si sogna non costa nulla esagerare. Capelli biondi né lunghi né corti e gli occhi azzurro cielo, con un sorriso non accondiscendente, ma neanche scostante, assomiglia vagamente, ma neanche troppo vagamente, a Candice Bergen di Soldato Blu di cui da ragazzo mi sono immediatamente innamorato vedendola nel film. In realtà poi mi sono anche reso conto che non era l’attrice che mi aveva fatto quell’effetto, ma proprio il personaggio selvaggio e bellissimo di Kathy che lei interpretava, perché rivedendo l’attrice non ho più ritrovato quella sensazione che mi era rimasta stampata dentro. E questa donna che è entrata quasi a forza dentro casa mia mi ha risvegliato proprio quell’attrazione che ho provato all’epoca vedendola nel film. Anche se in effetti ha sicuramente addosso qualche chilo in più di quella Kathy, ma anche un seno molto più pronunciato, che in effetti non guasta, anzi migliora l’immagine della donna che ho dentro.

Devo comunque ragionare un poco. Ricapitoliamo, ero arrivato a un paio di minuti dallo spararmi un colpo di pistola alla tempia, e non saprò mai se avrei avuto veramente il coraggio di farlo, e adesso ho in casa una donna bellissima che neanche conosco che ha risvegliato in me una tra le sensazioni più vitali che si possono provare, cioè l’attrazione verso l’altro sesso. Non è che non lo avevo prima, anzi in realtà proprio l’assenza di una donna nella mia vita è sicuramente una concausa di quello che stavo facendo e quindi questa inaspettata e insolita presenza dentro il mio appartamento ha comunque almeno rimandato i miei propositi, perché la curiosità di capire chi sia è sicuramente stata risvegliata dentro di me. Certo, il dubbio di essere in un sogno da ubriaco oppure di essermi già sparato e stare in un qualche frangente onirico del trapasso mi è venuto, ma la sua materialità nell’esprimersi mi ha fatto capire che era un dubbio sbagliato.

«Grappa barricata…», dice in piedi davanti al divano mentre prende in mano la mia bottiglia ormai a metà, «…deve essere buona! Prendi un bicchiere anche per me prima di scolartela tutta!», aggiunge poi con tono quasi divertito mentre si siede sul divano. «Ah! E leva questa musica che non mi sembra proprio adatta all’occasione! Forse un Leonard Cohen più soffice e delicato potrebbe essere più adatto per creare un poco di atmosfera. Ma tu conosci Leonard Cohen?»

Questa domanda quasi mi offende perché non solo lo conosco ma è anche uno dei miei preferiti, ma non riesco a rispondere perché devo prima chiarire tante altre cose con questa donna sconosciuta. Prendo un bicchiere e glielo metto davanti, accanto alla bottiglia di grappa e mi siedo sulla mia poltrona proprio di fronte a lei. «Tieni. Serviti pure. Fai con comodo. Ma poi, con calma, quando hai un attimo…», le dico volutamente ironico, «…poi mi dici tu chi cazzo sei!»

«Domanda fine da fare a una donna!», esclama lei versandosi da bere. «Ma è strana questa domanda, perché sei stato proprio tu a chiamarmi… beh, non proprio me in particolare, perché noi due neanche ci conosciamo…»

«Ecco! Volevo ben dire! Io non ti conosco, non so chi tu sia!», rispondo, per poi chiederle un chiarimento essenziale. «E se non ti conosco, come cazzo avrei mai fatto a chiamarti?!»

«Hai contattato l’Agenzia in cerca di compagnia, già non te lo ricordi più?! Ma quanta grappa ti sei bevuto?»

«Ne ho bevuto… ne ho bevuto… pure tanta… ma non sono né ubriaco né rincoglionito e di certo mi ricorderei se avessi telefonato a questa Agenzia che dici, anche perché non l’ho mai fatto in vita mia. Io non ho mai pagato e non pagherò mai una donna per stare con me… perché di questo si tratta, vero? Tu sei una puttana, giusto? Una che la dà via per soldi!». Ma mi rendo conto di essere stato troppo volgare e offensivo e cerco di correggermi. «Scusa l’espressione… il fatto è che non so più come vi chiamate… escort, veline, hostess? Che ne so? Ai tempi miei si usava dire prostituta, ma…»

«Prostituta!», mi interrompe lei con tono divertito. «Era tanto che non sentivo usare più questo termine! E non mi dispiace. E il termine meno ipocrita che esiste per definire una dispensatrice di amore a pagamento come sono io. Voi uomini siete talmente ipocriti che a seconda della situazione o dell’ambiente dove vi trovate ci chiamate cagne o succhiacazzi oppure escort o accompagnatrici. La differenza di solito è la quantità di denaro che avete e quindi siete disposti a spendere con noi. A proposito, tu sai quanto costo io per una notte?»

«Nooo! Come potrei saperlo? Non so chi sei e non ti ho neanche cercato! Non so neanche di che cazzo di Agenzia tu stia parlando! Ti prego, cerca di capire!», e come per spiegarmi meglio scandisco le parole.

«IO NON TI HO CHIA-MA-TO!»

«Però ti piaccio!»

«E questo che c’entra?»

«C’entra, c’entra… perché ammesso che ci sia stato un disguido, anche se è strano, ormai che sono qui cerchiamo comunque di combinare qualcosa, no?», mi dice con sguardo ammiccante.

Questa proposta mi mette in difficoltà. Perché è vero che non l’ho chiamata e anche è vero che non sono mai andato per puttane, ma è anche vero che lei mi piace, e parecchio. E anche se va contro tutti i miei principi, in fondo, oramai, che me ne può importare? Non ne dovrò più rendere conto a nessuno, neanche a me stesso, perché tanto non ci sarò più. Quindi azzardo una domanda che mi esce anche con un leggero tremore alla voce, per quanto fuori luogo la sento. «Sentiamo, allora… quanto prendi?»

«Una notte sono tremila, ma posso anche scendere a duemila visto l’equivoco»

«Cavolo! Duemila?! Non immaginavo che potessi guadagnare così tanto!»

«Beh, una parte la devo lasciare all’Agenzia…»

«Comunque, no. Grazie per la disponibilità, ma no, non spenderei mai tutto quel denaro per una donna!». Mi rendo conto di potere essere stato ancora una volta involontariamente offensivo e quindi mi trovo ad aggiungere. «Non che tu non li valga, sei stupenda, ma io non ho proprio idea di quanto stia sul mercato quella… insomma quello che tu offri…»

«Si chiama Amore. Io porto amore»

«E porti via un sacco di soldi, però!»

«E non sono soldi spesi bene? Preferisci quelli che si spendono per le armi, forse? Ho visto, l’ho vista la pistola che hai infilata nella piega della poltrona. E quella quanto l’hai pagata? Tanto, poco? Se ti chiedessi di darmela in cambio della notte di amore con me, cosa mi risponderesti?»

«Ma nooo…»

«Vedi? Ami più le armi che il sesso. Ma il sesso fa parte della natura, è un modo di comunicare con le altre persone, di trasmettergli tenerezza e amore, mentre la pistola no. Quella sì che è contro natura! Il sesso crea vita, la pistola la toglie»

«Anche filosofa, la puttana!», mi viene da pensare, ma poi subito dopo mi trovo a darle ragione dentro di me. È proprio così, anche se non mi risulta che con una scopata o quant’altro abbiano mai bloccato uno stragista o un serial killer! Anzi, spesso è stato proprio il sesso il movente di omicidi a catena, quindi lei ha ragione, ma solo in parte. Certo, se non avessi la pistola non potrei uccidermi. O almeno non potrei farlo in modo quasi indolore, perché gettarsi dalla finestra del secondo piano, dove abito, oppure imbottirsi di pillole o anche tagliarsi le vene e mettersi dentro una vasca da bagno piena d’acqua calda, sicuramente potrebbe funzionare, ma anche no. C’è sempre qualcuno che non si fa gli affari suoi e magari ti viene a salvare. E alla fine di tutto il mio ragionamento le dico in modo anche un poco sgarbato, cercando di svicolare e di mettere fine a questo discorso. «La pistola mi serve per qualcosa che non voglio starti a spiegare!»

Lei mi guarda, sorride e mi dice con voce calda e profonda. «Non avrai mica l’intenzione di spararti un colpo in testa?»

«Ma no…»

«Sicuro?»

«E anche se fosse?»

«Beh, se fosse così mi costringeresti a restare con te per impedirtelo, a prescindere dal sesso»

«E tu faresti una cosa simile? Perché? Se neanche mi conosci? Se neanche sai come mi chiamo…», le chiedo quasi stupefatto.

«Ti chiami Tommaso»

Questa volta sento proprio un brivido lungo la schiena perché mi domando chi possa essere questa donna che sa addirittura il mio nome. «E tu come lo sai?»

«C’è scritto sul campanello»

«Già…», rispondo con tono sollevato dandomi anche dell’idiota per avere pensato chissà a quale sotterfugio per una cosa così banale. Poi torno indietro su quello che ha detto lei. «Perciò se ti dico che mi stavo suicidando tu rimani qui questa notte… gratis…»

«Senza sesso, però!»

«Ovviamente…». Poi ragionando un poco, le chiedo una cosa poco cortese. «E questa tua compagnia quanto mi viene a costare?»

«Quello che vuoi. Quanto vale la tua vita? E la tua anima?»

«Che c’entra l’anima?»

«Non credi nell’anima?», mi chiede un poco sorpresa.

«No, direi proprio di no»

«E allora perché ti dà fastidio che l’abbia nominata?»

«Perché mi sa tanto di dottor Faust»

«Al contrario, proprio il contrario! Se ti impedisco di ucciderti l’anima te la salvo, che tu ci creda oppure no, mentre il dottor Faust l’ha venduta al diavolo per avere vita e ricchezza. Quante storie ci sono state raccontate come se il diavolo ci potesse dare salvezza e invece… ricordi il Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde oppure il Fantasma del Palcoscenico di Brian De Palma? Stessa storia e stesso finale. Perdi vita e anima»

Questa donna mi sta continuando a sorprendere in continuazione. Non è volgare o ignorante, anzi dimostra una cultura che svaria in parecchie direzioni. «Ma sei anche credente, per caso? La religione non contrasta con la tua… professione, chiamiamola così»

«Contrasta? E perché? In quale passo di quale libro di quale religione si condanna chi dispensa felicità e amore?»

«Non desiderare la donna d’altri, ad esempio?»

«Ma io non sono di nessuno… quindi…»

«E non fornicare?», insisto.

«Sei più bigotto di quello che credevo! Pensi davvero che scopare solo per procreare sia l’interpretazione giusta di quel comandamento? Il sesso è un dono di Dio, qualsiasi esso sia, che ci dà la gioia della vita, che ci insegna a condividere quella felicità con gli altri. Guarda che fornicazione forse può essere la masturbazione, la ricerca della felicità solo per noi stessi. Il comandamento indica soltanto di non dare distorsioni all’amore, di non cercare di essere felice solo tu, magari usando il corpo altrui senza il consenso, derubandone l’ingenuità e la dignità. Non fornicare punisce la pedofilia e lo stupro, non il sesso consenziente… qualunque sia il tuo partner»

«Sì, vabbè! Adesso va a finire che Dio ammetta anche l’omosessualità. Non ti sembra di esagerare?», le chiedo molto titubante.

«Sei irrecuperabile! Dio è amore e, secondo te, se due persone si amano importa molto di che sesso siano? “Ama e fai quel che vuoi”, è stata la sintesi che Sant’Agostino ha dato al cristianesimo, e quindi…»

Mi fermo, ma senza pensare alle sue risposte, solo per fissarla un poco, per capire con chi ho veramente a che fare. È una puttana intelligente e acculturata, tutto il contrario dello stereotipo che ho sempre avuto nella testa per questo genere di persone. Non la capisco, ma devo ammettere che mi eccita. È da tempo che non riesco a confrontare con nessuno il mio pensiero perché ormai il mondo è diventato soltanto una reiterata ripetizione di pensieri altrui, senza neanche sapere chi e perché li abbia messi in giro. Non ero più riuscito ad arrivare al terzo concetto con nessuno senza perderne l’attenzione, e invece con questa donna è quasi mezz’ora che parlo, che mi confronto e che finalmente ascolto e che mi ascolta. E non ne so neanche il nome. Quindi azzardo una cosa che un’ora fa non mi sarei mai sognato di dire. «Ceniamo?»

«Già, è ora… ma almeno questo lo paghi tu, giusto?»

«Giusto. C’è una trattoria qua sotto dove si dovrebbe mangiare bene, anche se non ci sono andato quasi mai. Ti va?»

«E vada per la trattoria… certo che vai sempre al risparmio tu! E inoltre nelle cose più importanti della vita… il sesso e il cibo!»

«Ahó, questo posso offrirti, anche perché non conosco altro in questa zona»

«Va bene, va bene! Tra l’altro ho anche un certo appetito perché oggi ho dovuto saltare il pranzo per forza»

«Lavoro?», le chiedo subdolamente.

«In un certo senso…»

Prendo le chiavi di casa e mi avvio alla porta seguito da lei, ma prima di aprire le chiedo. «A proposito. Come ti chiami? Intendo il nome vero e non quello di battaglia

«Chiamami Eloisa, perché il mio nome ha origini orientali ed è un poco ostico», mi risponde lei con tono profondo, senza badare molto alla mia considerazione sul nome così banalmente superficiale.

«Cioè?»

«Eloah»

«Già, meglio Eloisa! Vada per Eloisa allora!»

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