SCRIVI ALLA NOTTE E NON SAPEVA SE UN SOGNO di Danilo Di Prinzio (prima parte)

Chissà cosa mi dice la testa, che forse l’avrei potuta scorgere guardando in su.

Con quella scia luminosa e gigante non sarebbe passata inosservata, eppure ho letto che questa volta a causa di polveri, di nebbie astrali, inquinamenti luminosi per le troppe persone rinchiuse in compagnia di tutto quello che uno può tenere acceso tranne quello che dovrebbe tenere acceso, in realtà per non soccombere prima del tempo, forse non avremmo avuto la fortuna di osservarla a occhio nudo.

Sessanta milioni di chilometri di distanza dalla terra sono numeri difficili da contemplare, e io che mi sono messo sulla sdraio con l’intenzione di annullare gli spazi siderali, partendo dalla blanda considerazione che un bicchiere di vino risolva ogni problema.

C’è inoltre da dire che le leggende popolari attribuissero al passaggio della cometa sventure e disgrazie, per adesso sento solo pace e tranquillità orbitarmi intorno e tanto cielo trasparente e stelle luminose, come tanti piccoli fori in una lanterna di lamiera.

Meno male che puntuale arriva il mio amico, altrimenti mi sarei perso in chissà quali altre elucubrazioni senza senso.

Siediti, gli dico, mentre mi compare come un’ombra di sequoia. Gli allungo un bicchiere pieno di vino e lui, prima mi dà una pacca sulla spalla che quasi mi ribalta dalla sedia, poi si siede abbandonandosi al tessuto che per poco si strappa, tanto il peso. È un tipo nerboruto, gigante, con lo sguardo sempre rivolto altrove, sotto il quale si nasconde una giovinezza non ancora del tutto scomparsa, nonostante il viso duro e segnato dagli innumerevoli incontri con il dio sole.

Il venerdì è un appuntamento fisso.

Lui finisce di lavorare, torna a casa, – distante un’alzata d’occhi alla mia sinistra – si fa una doccia, si prepara qualcosa da mangiare e aspetta di cominciare il fine settimana bevendo un bicchiere di vino con il suo vicino di casa, che non ha nient’altro da fare che starsene seduto in un angolo della taverna in cui vive: a bere, a preparare qualche esame e sperare che un giorno quelle due poesie scritte nei momenti di abbandono creativo possano sforare le barriere entropiche poste ai confini dell’universo.

Oggi è piuttosto silenzioso, ma sono abituato ai suoi silenzi, certe volte dimentico persino che suono abbia la sua voce. Ma al terzo bicchiere finalmente arrivano le parole in aggiunta a quelle che aveva lasciato in sospeso la settimana prima. Ricordo che parlavamo di sogni, della loro origine, del fatto che alle volte sono latori di un messaggio celeste, almeno secondo il mio modo di vedere le cose. Lui era di tutt’altro avviso, anche se alla fine sembra che in qualche modo sia riuscito a persuaderlo delle mie considerazioni.

Tornando alla sua voce, mi sembra che provenga da profondità ancora da esplorare, mi fa pensare alla voce della montagna che si staglia così bianca e imponente alle nostre spalle. Se non l’avessi avuta lì a vegliare su di noi, massiccia, decisa, irruente nella quiete della sera, forse le parole di Thomas avrebbero prodotto un altro effetto su di me.

Che poi cosa c’entrasse la montagna non lo capisco, forse c’entra in quanto rappresenta la roccia che sorregge l’ascolto, oppure perché guardandola sulla punta lì dove sorgono le antenne si ha come l’impressione che le parole tra due bicchieri rimandino sempre a qualcosa d’altro, e in effetti, Thomas, il ragazzo già uomo, massiccio come il massiccio della Majella, con quei jeans stretti, consunti, aderenti ai muscoli dei quadricipiti, infilati negli anfibi, al di sopra dei quali la sola camicia di jeans con le maniche tagliate costituiscono l’unico riparo dal freddo d’aprile, Thomas, il filosofo mancato, il maestro artigiano appoggiato allo stipite delle scelte sofferte, per non deludere quello sguardo paterno orgoglioso, quando questi gli chiese di lavorare per lui, Thomas, il muratore figlio di muratore, e ancora figlio di muratore fino alla generazione che si perdeva nel tempo, mi dice di aver sognato una donna. E io mi chiarisco le ragioni del precedente dialogo, e io mi dico che c’è sempre un soffio di vento, cenere sparsa nell’ora nuova che libera il suolo fresco e nuovo.

Beve un altro bicchiere di vino, si accende una sigaretta e mi dà il pacchetto, ne sfilo una anche io e glielo riporgo.

Insomma, hai sognato una donna e scusami, che c’è di strano in questo?

Lo so. È che sto qui a dirti di una donna che non conosco.

Piega la bocca in una specie di sorriso, penso che non sia proprio in grado di sorridere, o che abbia dimenticato da molto a farlo in un modo alquanto riconoscibile.

Certe volte accade che nei sogni compaiano persone che abbiamo incontrato durante la giornata, delle quali non abbiamo nessun ricordo, che siano passate inosservate, che non abbiamo degnato di attenzione, ma che lo stesso la coscienza ha incamerato per qualche strana ragione. Ma non è il mio pensiero, io credo a ben altro, credo alla trascendenza delle cose, alla deflagrazione dell’essere come scintilla derivante da uno schiocco tra il medio e il pollice di Dio.

Comunque, sono sicuro di non averla mai vista, almeno non credo di ricordarmela.

Ci scoliamo la bottiglia di vino e ci fumiamo quasi tutto il pacchetto di sigarette e ancora non si decide a raccontarmi il sogno. Si è arenato dietro le parole, ho sognato una donna, il resto è stato solo un modo per riordinarsi dentro e allora aspetto in silenzio, nel frattempo mi sono alzato per prendere un’altra bottiglia.

Rientro, mi avvicino alla credenza di fianco alla piccola finestrella che dà verso l’esterno dove siamo seduti e mi blocco. Da lì lo vedo alzarsi e andarsene, non esco per trattenerlo, me ne resto qui dentro con i pensieri attorcigliati intorno alla domanda, perché?

Eppure, so che l’indomani sarebbe tornato, lo ha sempre fatto e lo avrei aspettato con un’ansia nuova, come un nuovo modo per interpretare la realtà che ci circonda, come una nuova prospettiva da cui osservare le cose.

La bottiglia la stappo lo stesso, nel tornare fuori prendo il libro che sto leggendo, anche se poi in quello stato d’ebrezza di certo non sarei riuscito a leggere nemmeno un rigo, ma ho bisogno di compagnia e Faulkner ci riesce benissimo ad assolvere a questo compito. Mi scolo quasi tutta la bottiglia e a un certo punto ho persino l’impressione di averla vista quella stella che si affaccia sulla cupola del cielo una volta ogni circa settant’anni. È vero che porta con sé eventi infausti? Che sia secondo le credenze popolari una stella di cattivi auspici? La donna sognata dal mio amico rappresenta forse una scheggia staccatasi dal suo centro in rovina?

Mi volto in alto, fisso il soffitto, ne immagino la superfice al di sopra, ciò che è in alto per me, è in basso per qualcun altro, come uno schiacciamento visivo, come passi pestati sull’azzurro del cielo e mi sento di nuovo inghiottito nella melma, come una cancrena della terra, per non farmi dimenticare la dimensione concreta entro cui si muove la vita.

Quando arriva sono rannicchiato sul divano sotto una coperta stropicciata per averne usato il tessuto giocandoci stringendolo tra le dita, come per allentare la tensione, come per giocarci e basta.

Bussa alla finestra, sobbalzo, ma subito mi tranquillizzo scorgendolo al di là della vetrata.

Gli faccio cenno con la mano di entrare, tanto la finestra è sempre aperta. La porta non la uso quasi mai, anche perché dovrei passare attraverso il garage, superare un vano divisorio che consente l’accesso a un corridoio, di fronte al quale c’è il bagno, di fianco un locale lavanderia, sulla destra una gradinata che sale fino al piano dove iniziano le abitazioni di mio fratello e sulla sinistra una porta scorrevole, che si allarga sul monolocale da me occupato. Troppi luoghi, troppo impegno. La porta finestra è più accessibile. Si affaccia su un ballatoio in cemento piuttosto spazioso, protetto da un parapetto costruito in blocchi di cemento alleggerito, per non turbare la quiete delle forze strutturali, basterebbe un nulla, alterandone le dinamiche – così mi disse Thomas una volta in cui era in vena di argomentare sulle tecniche del suo lavoro – per sprofondare nel dirupo che raggiunge un dislivello di svariati metri fino in fondo alle campagne da dove poi ricomincia l’ascesa della collina prospicente la casa, tutta coltivata a olivi e vigne. Più su del ballatoio, dalla parte della casa confinante – quella di Thomas – si apre l’ingresso principale di entrambe le abitazioni, di fianco al quale si stende un piccolo sentiero serpeggiante in mezzo alla campagna.

Da qui lui compie quel cammino che lo allontana dalle ore passate a lavoro, da qui percorre il fine settimana quella distanza che lo divide dall’isola del vicino per raggiungere la sua solitudine, insieme a me.

Tanto sa benissimo di trovarmi a casa.

Ti aspettavo ieri, gli dico, mentre lo vedo passarmi davanti e piantarsi di fronte alla libreria. Non mi risponde, emette una specie di mugugno, lo considero un saluto, un ciao come stai? Un mi dispiace ma ieri ho avuto da fare con il lavoro, ma dai, gli avrei risposto, tu il sabato non lavori mai e poi, vabbè, non fa niente, adesso sei qui.

Lo guardo mentre esplora le copertine dei libri, chissà cosa starà cercando, tralascio l’aspetto fondamentale, che certe volte non cerca nulla, gli piace osservare tutti quei volumi disposti sulle mensole e basta, altre invece ne afferra qualcuno e lo prende in prestito senza chiedermi nulla.

Comunque, rispetto il suo silenzio.

A un certo punto prende un volume. Non immaginavo che tra le sue mani fosse così piccolo, nonostante le pagine, forse perché i libri rimpiccioliscono di fronte all’uomo in carne e ossa, sarà sicuramente così.

Alla fine, devo parlare, non ce la faccio più a osservarlo così preso e a non venire a conoscenza delle motivazioni che lo trattengono come uno posseduto da qualche entità indefinita, senza dire che abbiamo anche una storia da raccontare. Mi alzo e mi avvicino, mi metto di fianco e adocchio le pagine su cui si è soffermato.

Allora fai sul serio?

Eh? e si volta, il libro aperto sui palmi, i due pollici come martelli ferma pagina. Mi puoi aiutare? Mi hai detto di avere studiato per un poco in Spagna.

Per un anno, in un progetto Erasmus.

Progetto Erasmus… insomma puoi o non puoi?

Perché no.

Ieri l’ho sognata di nuovo, mi ha preso per la mano e abbiamo passeggiato in un giardino e mi ha detto che il suo nome è Isabella, del Perù.

L’ho capita benissimo. Diciamo che ho sempre avuto una certa predilezione per le lingue straniere. Poi è andata via e mi ha salutato con un sorriso e mi sono svegliato.

Il resto del pomeriggio lo trascorro bivaccando sul divano a guardare la televisione, più che altro cambiando di continuo canale, perché mi rilassa come quando fumo una sigaretta o bevo un sorso di vino.

Di studiare non se ne parla proprio. La domenica è fatta per contemplare la quiete e la pace e qualche volta anche intrattenere rapporti interpersonali di specie ludica, ma oggi la sensazione di spossatezza mentale è troppo ingombrante nei paraggi del cervello e proprio non mi va di interagire più con nessuno. Quasi quasi mi bevo un bicchiere, ma poi so già come potrebbe andare a finire, con un domani vorticoso che mi costringerebbe a saltare l’impegno con i miei studi, come se questo mi interessasse davvero.

Guardo in alto, oltre il soffitto, attraverso la vita che brulica lì sopra, evento straordinario, visto che di solito lei è sempre sola.

Alle sei era già in cantiere, una sigaretta in una mano e le chiavi del lucchetto nell’altra. Aprì il cancello, poggiò la borsa della merenda sui sacchi di cemento e si avviò al bar. Si fermò un attimo nel vano della porta, un’occhiata oltre il bancone, la fronte increspata in una specie di domanda, – Maddalena… che ci faceva lì? – ma che si trattenne dal fare, così salutò con un cenno del mento, ordinò, quindi prese il giornale e si mise sullo sgabello, il gomito poggiato sul ripiano, la testa nella mano, massiccia, nodosa, eppure ancora liscia.

Lei girò intorno al bancone e gli porse il bicchiere di cognac e il caffè. Lui spostò lo sguardo sul bicchiere, sulla tazzina, ringraziò, non si domandò come potesse sapere, si limitò a piegare il margine della bocca, in una specie di sorriso arrangiato. Quando la donna si voltò vide dal bordo dei pantaloni, appena sopra i lembi annodati del grembiule, spuntare la forma tribale di un tatuaggio. Pensò all’inconsueto, al fatto che la cosa strideva con altre immagini, come quella spesso incontrata sulla via d’ingresso in comune tra le abitazioni, lei, rigida e affilata come una lama, il viso dritto, il collo sottile che emergeva da un abito elegante lungo fin sopra le ginocchia, i capelli neri, di seta rilucente, liberi sulle spalle magre.

La seguì con lo sguardo fino al bancone, la coda dei capelli come un pendolo accelerato. Bevve tutto d’un sorso il cicchetto e poi sorseggiò il caffè, agitando la tazzina mentre vi guardava all’interno, come in cerca di un auspicio, quindi si alzò, immenso di fronte alla donna che stava in quell’istante riponendo la tazzina e il bicchiere nel vassoio. Lei gli augurò buon lavoro e lui rispose con un’alzata del mento. Uscì e si richiuse alle spalle la porta, estrasse il pacchetto di Camel dal taschino, se l’avvicinò alla bocca e strinse la sigaretta tra le labbra, la fumò trattenendosi sul davanzale a guardare il giorno che rischiarava.

Alle sette e un quarto lo raggiunse il furgone con gli altri operai, ma lui era già dentro il cantiere a preparare il materiale, a collegare i cavi, a mettere in funzione la betoniera. All’improvviso si arrestò di fianco a delle latte disposte in fila su uno scaffale, ne prese una e lesse, la rimise a posto e ne prese un’altra e rimise a posto pure quella, la terza la soppesò e la scaraventò a terra ai piedi dell’operaio incaricato d’impastare la malta e lo richiamò imbestialito: potevi dirmelo che era finito, e adesso che devo uscire solo per questo? L’operaio era un tipo allampanato, vicino alla pensione, e gli disse che non ci aveva fatto caso.

Questo è il problema che quando lavorate state sempre a dormire, adesso sbrigati a impastare e poi carica quei mattoni sul camioncino, a proposito che fine ha fatto quell’altro? Ma che avete questa mattina? Vi siete svegliati? Guardate che ci metto poco a rimandarvi a casa. Quindi si voltò avviandosi su per le scale continuando a imprecare ruotando la testa glabra. Alle sue spalle il tipo allampanato scrollò le spalle.

Dopo aver dato ulteriori disposizioni agli altri operai, andò sul terrazzo, si sporse dal muretto, i palmi pesanti come il cemento di cui era fatto.

Al di là dei tetti il mare si scorgeva in una linea sottile che si confondeva con l’orizzonte.

Guardò l’orologio. Da sotto proveniva il rumore della betoniera, le voci degli operai che si affaccendavano. Abbassò lo sguardo e vide il camioncino svoltare dalla curva e parcheggiare in prossimità dell’ingresso del cantiere. L’uomo che scese era grosso e ingombrante, tanto che il camioncino ebbe un sussulto quando questi chiuse la portiera.

Ehi, gli disse da lassù, è questa l’ora di arrivare? Sbrigati a caricare i mattoni e poi vai a scaricarli in deposito.

Si accese un’altra sigaretta, la fumò tutto in un respiro, poi tornò a fissare l’orizzonte. Si tastò la tasca dei pantaloni, afferrò un foglio tutto stropicciato, lo aprì e lesse, alla fine lo accartocciò, prese l’accendino e gli mise fuoco, sventolando le farfalle che incenerivano al vento.

Scomparve nel vano della finestra, mentre alle sue spalle la fiammella lambiva il catrame con cui era stato impermeabilizzato il massetto di fondo, lo spiffero proveniente dalle aperture dissolse il resto della carta in un soffio nero e leggero.

Una volta finito di elargire le disposizioni di lavoro prese la macchina e si avviò giù per la strada: vado dall’ingegnere disse dal finestrino al tipo allampanato.

Guidava pensando alla notte, alla ragazza del sogno, al fatto che la sera avrebbe impiegato troppo tempo ad arrivare e agli operai che aveva lasciato da soli a mandare avanti il cantiere.

Però le cose accadono indipendentemente dai propri pensieri, così giunse la sera, prima di quanto immaginasse.

Appena rincasato si avvicinò al telefono, indugiò, alla fine lo prese e compose il numero.

Non prendermi per pazzo…, disse alla voce all’altro capo del telefono, una voce che avrebbe potuto sentire affacciandosi dalla finestra, guardando oltre le siepi di alloro, oltre il viale d’ingresso comune. Eppure, quella sera preferì telefonare, anche perché era lunedì e di solito si vedevano soltanto nel fine settimana, quando chiudeva con i cantieri, con il cemento, i mattoni, con i richiami gridati agli operai, con quella quotidianità inalienabile e pesante tanto quanto il materiale utilizzato per costruire.

Riagganciò e si mise a sedere su una delle sedie di pelle nera con il telaio sinuoso in acciaio, poggiando gli avambracci sul tavolo quadrato di vetro temperato.

Ebbe un moto di ricordo, un moto che non aveva da tanto.

Quando gli accadeva cercava di ricacciarlo dentro le profondità del cervello, ma quella volta si crogiolò per un istante nel calore delle immagini sopraggiunte. Forse era stato il gesto del telefonare, oppure le circostanze che l’avevano spinto a farlo, oppure fu semplicemente il colore verde del ripiano, o quelle schegge sul bordo, fatto sta che gli venne in mente il giorno in cui avevano portato il tavolo e le sedie in casa, trasferendoli da quella dei genitori.

Qualche anno addietro, una decina? Si girò verso la vetrata alla sua sinistra, dalla quale scorgeva in fondo i profili cadenti delle colline, fino a quando tra loro e il suo sguardo non s’insinuò la forma scassata del furgone, il padre impegnato ad aiutare quel suo amico con la pelle ambrata e una folta capigliatura che gli copriva le orecchie.

Avevano aperto il portellone del furgone e avevano cominciato a scendere le sedie, poi li vide nell’atto di tirare il telaio d’acciaio del tavolo. Avvicinatolo al limite della cabina, vide il padre fargli un cenno, come per dirgli, beh, allora non vieni a darci una mano? E così lo spazio della sala posto dietro lo schienale del divano e di fianco al vano della cucina fu riempito da quel tavolo pesante, come l’eredità degli affetti lasciati in sospeso tra le crepe del cuore. Un battito interrotto, un corpo accasciato sul pavimento, e occhi increduli che frugavano di qua delle colline, tra le cose che accadono.

Si alzò e andò in cucina, aprì il rubinetto e si riempì un bicchiere d’acqua, bevve avido dal bordo spesso del vetro, bave d’acqua gli colarono sulla barba, si fecero strada attraverso quei fili rossastri fino a bagnargli il collo; quindi, posò il bicchiere e si asciugò con il dorso della mano. Tornò in sala, prese un libro e si sedette di fronte la bocca del camino, nella quale giacevano moncherini di legna carbonizzati su un letto di cenere. Alle ventidue si mise al letto.

La notte la sognò, come un appuntamento fisso da un po’ di giorni a questa parte. Lui comparve di colpo di fianco a una casa colorata di giallo, con delle imposte in legno di un marrone castagno, due piani e un terrazzo, sopra al quale da un lato saliva un tetto di tegole di un’altra casa, costruita per la gran parte di mattoni a vista o forse lasciati così a nudo, come un ricordo di quello che non si ha, o di quello che non si può. Oltre il muro di mattoni, oltre l’ammasso di case, oltre il ribollio di quelle che crescevano sul primo leggero elevarsi della terra, ondeggiavano le colline, fino a incresparsi raggiungendo l’altezza vertiginosa di una cresta imbiancata, stretta come un pugno contro il cielo.

Non è una montagna.

Si voltò di scatto, richiamato dalla voce di una donna, della donna che sperava lo raggiungesse il prima possibile, sperando di non svegliarsi prima del tempo. La capiva, perché i sogni trascendono le leggi degli uomini, immergono in acque nelle quali si respira, poiché sovvertono le categorie a cui normalmente siamo costretti a sottostare, nei sogni ci si riscopre parte del mistero, delle verità senza comprensione, nei sogni si squarcia il velo di Maja.

Si voltò aggraziato da quel suono, afferrato dal profumo che richiamava la solennità di una preghiera, forse di una rosa. Si voltò e la vide che guardava anche lei in alto, verso quel pugno che spuntava dalle viscere della terra, mentre ripeteva: Non è una semplice montagna, ma un vulcano.

Un vulcano.

Non avevi mai visto un vulcano? Di persona, intendo e sorrise, i suoi capelli raccolti dietro le spalle sorrisero, il viso che vi spuntava al centro, come la voglia di baciarla, sorrideva, sottile, come le labbra, come invece non lo erano le sopracciglia, che invece crescevano pronunciate, nere, e la pelle del colore della terracotta, ma che in quella luce appariva stranamente immacolata, come la neve adagiata sulla sommità del vulcano, come quella sulla cima della Majella che il martedì mattina si ritrovò a guardare dal tetto della casa in costruzione, nel cantiere dove stava di nuovo lavorando.

Quella sera impiegò più tempo del solito ad arrivare, aspettò che gli altri operai uscissero dai cancelli fumando una sigaretta appoggiato a un pilastro, una mano sotto l’ascella, l’altra che stringeva il filtro con l’indice e il pollice.

Li guardò passare uno per uno, che chiacchieravano, sorridenti, che si davano appuntamento al bar per una birra, l’ultimo si voltò, gli disse: Una birra?

No, grazie, rispose accennando una specie di sorriso, che quest’ultimo accettò di buon grado, allora a domani, gli disse, a domani e spense la sigaretta sotto lo scarpone, ruotando più volte la punta sul cemento.

Si avviò verso la macchina, una vecchia Fiat tutta sgangherata, di fronte allo sportello si fermò, posò la borsa sul tetto, infilò la mano nel taschino ed estrasse la chiave, la inserì nell’apertura e la ruotò mentre con la mano sinistra strattonava in avanti e indietro la maniglia, fino a quando non si aprì cigolando, riprese la borsa e sprofondò sul sedile, innalzando una nuvola di polvere che riempì l’abitacolo, poi accese e partì.

Raggiunse la casa in meno di due minuti, erano passate da poco le diciotto, parcheggiò sotto la tettoia in legno, lasciata senza vernice per più della metà delle travi che costituivano l’appoggio della copertura, spense il motore, sfilò una sigaretta dal taschino. La fumò in meno di cinque minuti, quindi uscì e si diresse direttamente da Andrea. Ma quella sera la casa era immersa nel buio.

La mattina mi sveglio che il sole è un segno sottile all’orizzonte. Mi accorgo di essermi addormentato sul divano e di avere sopra una coperta che non ricordo di aver preso. Bevo un caffè, mi fumo una sigaretta e aspetto appoggiato al parapetto che il giorno mi raggiunga con tutta la sua prepotenza esistenziale, poi mi metterò a studiare.

Così arrivano la sera e la notte e la mattina seguente, in una settimana che non vede altri toni se non quelli del giallo arancio del mattino, del grigio e bianco delle parole stampate sulle pagine, della puzza delle mie ascelle, del sapore impastato di tabacco intorno alla lingua e al palato, nella gola così riarsa e finalmente del tannino sprigionante dal montepulciano contenuto nel bicchiere del venerdì.

Apparecchio e mi preparo la cena, mezz’ora del mio tempo dedicata allo spadellare qualche bocconcino di pollo, misto a carote, cipolle, sedano, una spruzzata di salsa di soia, e un’aggiunta di mandorle precedentemente tostate. Quindi mi siedo non prima aver stappato la bottiglia di vino e inoltre aggiungo un bicchiere, nel caso lui decidesse di farmi un’improvvisata, magari in seguito a un altro sogno, magari per raccontarmi il seguito di quel sogno e di quella donna così misteriosa e sicuramente esotica.

Mi volto verso la libreria, alzo il calice e brindo a Miguel de Unamumo, e al mio amico e a Isabella e a tutte le persone capaci di far brillare la luce dello stupore. Dopo aver bevuto l’intera bottiglia di vino, sarei tentato di aprirne un’altra, ma qualcosa mi trattiene, uno spiraglio intravisto tra la porta e lo stipite, un’ombra intorno a due occhi, due pupille non abbastanza nere da essere nascoste del tutto.

Una domenica bussò sul vetro, il ragazzo gli fece cenno di entrare: Sai come si chiama il vulcano?

Quale, disse il ragazzo.

Quello che stavo guardando nel sogno e che avevo scambiato per una montagna.

Il sogno, certo…

Sai come si chiama?

Come?

Vulcano El Misti .

Vulcano El Misti. E devo immaginare che sia stata lei a dirtelo.

Lo stavo guardando, ero come rincoglionito da tanta, non so, da tanta bellezza.

Certo, da tanta bellezza e cosa è successo?

Che lei, come se avesse letto nei miei pensieri, mi dice che non è una montagna, ma un vulcano, cioè non è una montagna come la nostra. E mi sento stupido, davvero uno stupido, cazzo… si vedeva che non era una montagna, ma un vulcano, ma sai…

Thomas si avvicinò alla libreria e cominciò a fissare le copertine dei libri. Di colpo prese a sfiorarne alcune, come in attesa di un messaggio, o forse semplicemente, perché aveva voglia di farlo, ne afferrò un paio, quindi si girò di scatto.

Pensi che sia troppo tardi per imparare una lingua?

Non è mai troppo tardi, per nulla.

Andrea tu credi che stia impazzendo?

Perché hai deciso di vedere le cose in un altro modo? Direi proprio di no.

Si sedettero entrambi sul divano, Thomas con i libri poggiati sui jeans sporchi, Andrea con il torso girato verso l’uomo e il piede destro sotto la coscia sinistra, un braccio disteso sullo schienale.

Che ne dici se uno di questi giorni andassimo in montagna? C’è un rifugio dove sono stato un paio di anni fa con alcuni vecchi amici.

Tu che hai vecchi amici, lo sapevo che non eri un eremita urbano.

Eremita urbano, bella questa e dove l’hai letta? Poi si ricompose girandosi con entrambe le gambe e poggiando i piedi a terra. Fissò il vuoto nero del televisore spento. Premette il pulsante d’accensione sul telecomando e cambiò canale. Thomas abbassò gli occhi sui libri, poi disse: Si può fare, giovedì è primo maggio e non si lavora, ci aggiungiamo un altro giorno e il ponte è presto costruito.

Bene, rispose Andrea.

Allora io vado. In prossimità della porta finestra Thomas si fermò, continuando a mantenere le spalle al ragazzo.

El misti, disse senza voltarsi.

Mentre saliva per il viale si sentì osservato, si girò verso il piano superiore della casa e dalla finestra scorse la forma della donna, capelli sciolti su una vestaglia di raso dalla foggia orientale. Aveva la testa poggiata al vetro, leggermente inclinata sulla spalla e si stringeva nelle braccia. Lui la salutò alzando la mano e lei gli rispose agitando la sua.

Percorse il tratto di viale che s’infilava tra le siepi, scese due scalette in cemento e proseguì per lo spiazzo fino alla porta d’ingresso.

Per tutto il tragitto aveva tenuto stretto nella morsa della mano i due libri, come una bussola per orientarsi.

Si addormentò sul divano, vinto da una stanchezza accumulata durante il giorno, eppure il suo viso solitamente imperturbabile, tradiva qualcosa come una specie di allentamento a cui non era abituato.

Sabato mattina il sole è oscurato da una piastra di piombo tra il mio risveglio e il giorno per via della notte trascorsa, oppure, dopo una settimana di bel tempo, dalla sopraggiunta tempesta. Mi stropiccio gli occhi, la testa è un catino riempito a metà d’acqua, a ogni movimento il cervello naufraga verso le pareti, sballottato di qua e di là senza riuscire a farlo fermare. Sono io che devo restare immobile, questa è l’unica soluzione possibile al momento apparentemente portatore di tregua. Resto ancora una mezz’ora afflosciato sui cuscini del divano, gli occhi chiusi, il respiro lento, in netto contrasto con il cuore che pulsa potente e in alcuni momenti ho come l’impressione che tentenni, si sottragga al successivo battito per un istante, pur continuando la sua corsa verso il traguardo del minuto.

Quando riapro gli occhi, l’orologio sul muro segna le dieci, con uno sforzo sovrumano mi costringo ad alzarmi, vado in bagno barcollando, le mani a tentoni sulle pareti, mi infilo nella doccia e apro il rubinetto dell’acqua fredda. Il getto mi schiaccia di nuovo sulle piastrelle del tempo presente. Nemmeno me ne accorgo che è arrivato, ho la testa sotto l’asciugamano, mentre tento di darmi una strizzata generale, partendo dai capelli.

È lì di fronte a me e nonostante sia sorretto da quei due tronchi d’albero, sembra che oscilli come agitato dal vento, lo sguardo corto, poggiato sui piedi, sulla terra, su qualcosa che sta in basso, le mani ingombranti appese ai fianchi. Veste sempre con quei soliti jeans e camicia a maniche corte, al di sopra della quale spunta il collo con le vene gonfie.

Finisco di asciugarmi, aspettando che pronunci qualche suono, qualunque suono mi sarebbe stato bene, basta che parli, che dica qualcosa, mentre invece continua a starsene impietrito nella parte bassa e instabile nel busto, come se ondulasse sospinto da un vento fantasma.

Nel frattempo, mi vesto e devo ammettere di sentirmi meglio, ristabilito con il mondo circostante in una specie di congiura, come a dire, guarda che farò in modo di metterti in ginocchio prima di sera. Anche se accade sempre il contrario, che sia il tempo a complottare contro di me?

Bene, gli dico, che facciamo?

E lui, in una parvenza di ravvedimento interiore, mi dice che vuole uscire, vuole andare a fare un giro in macchina, andare a Pescara magari, oppure a Francavilla al mare, a piazza Sant’Alfonso, dove c’è una che di nome fa Melissa, sta scritto sulla porta del palazzo, bisogna parcheggiare in piazza, di fronte alla chiesa, ci facciamo due bicchieri al bar di fianco al ristorante di pesce, e poi altri due, chiamiamo e poi imbocchiamo la traversa che costeggia la chiesa, al terzo ingresso, quello con il cancello in ferro battuto, ci s’infila nel vialetto, si salgono le scale, si suona e si aspetta.

È chiaro che tutto questo non mi è stato riferito in una profusione di parole ininterrotte. Thomas ravvedendosi mi dice soltanto: Andiamo a fare un giro.

E dove?

Andiamo.

Va bene, andiamo.

Prendo la giacca, le chiavi, il pacchetto di sigarette, il portafoglio, apro quest’ultimo, lo esploro in ogni scomparto, lo richiudo, adocchio Thomas colto nell’intento di accennare un sorriso, ma dura un istante, perché proprio non gli si addice il volto atteggiato a qualcosa di diverso che non sia cruccio, anche se ultimamente per via del sogno, forse, per via di qualcosa ancora lontano da ogni forma di coscienza i momenti di afflizione sembrano diminuiti rispetto al solito.

Lo vedo armeggiare con la cintura di sicurezza, strattonandolo con il braccio sinistro, il torso girato e irrigidito nei movimenti, come se all’improvviso il vento si fosse calmato e avesse lasciato il posto a una pioggia battente, feroce e pesante.

Al diavolo le cinture, dai parti.

Oggi non è giornata.

Da cosa te ne sei accorto?

Eppure, alla fine riesce a distendersi.

Solo una nottata un po’ così.

Come la mia.

La piccola Y10 fatica un poco a salire il viale, ma alla fine ce la fa, ce la fa sempre.

Accendo l’impianto Bose e ci infiliamo lungo la statale seguendo la direzione che conduce al mare. Da dietro le spalle la montagna così bella e imbiancata dalla maestria della natura rimpicciolisce man mano che avanziamo verso est. L’impianto suona un pezzo di Coccoluto, Thomas è abbrancato alla maniglia sopra lo sportello, guarda avanti un punto fermo all’orizzonte, almeno questa è la mia impressione. Comunichiamo a periodi intervallati da un silenzio e un ulteriore pezzo musicale, dai quali, l’insieme delle sillabe che riesce ad accostare per formare alcune parole, visto che oggi proprio non gli viene di essere un poco più loquace, trasmettono il significato delle sue intenzioni di cui ho detto in precedenza. L’ultima parte la comprendo con chiarezza dopo aver parcheggiato a piazza Sant’Alfonso.

È quasi mezzogiorno e la piazza, nonostante la temperatura di fiamma, è frequentata da diverse persone, molte delle quali sono famiglie, con ragazzini che scorrazzano con le bici o si destreggiano davanti ad altri coetanei seduti sui muri con lo skateboard.

Ci accomodiamo a un tavolo, Thomas si strofina le mani sulle gambe e si sporge in avanti, poi torna indietro, poi alza il braccio per richiamare l’attenzione del cameriere, ehi, dice. Il ragazzo che sta servendo un tavolo di fianco si volta di scatto, con il vassoio posato su una mano che tentenna. Arrivo subito, dice.

Che intenzioni hai?

Dai Andrea, stai tranquillo.

Io sto tranquillo, ho l’impressione che sia tu quello che non sta tanto tranquillo.

E che te lo fa pensare?

Secondo te?

Il cameriere ci raggiunge e si mette in piedi davanti a noi, come un fuscello in pieno inverno. Ordiniamo due bicchieri di vino. Il cameriere ci fa un cenno con la testa, si gira e va dentro, dopo circa cinque minuti torna con un vassoio contenenti due calici di vino e un paio di ciotole di noccioline e di patatine. Posa un calice davanti a Thomas e mentre fa lo stesso con il mio, Thomas lo beve tutto d’un sorso e gli dice di portargliene un altro. Il cameriere riprende il calice, lo pone sul vassoio e torna dentro, un minuto ed è di nuovo da noi. Posa il calice davanti a Thomas, aspetta un momento, quindi si allontana tra i tavoli.

Stai come una molla, questa mattina, ma che ti è successo?

Vai prima tu?

Cosa?

Dico, vai prima tu?

Vai prima tu.

Allora andiamo, ma sei sicuro che ci sia? È giorno, e di solito non è che abbiano così tanta voglia di compagnia a quest’ora.

Ti aspetto qui.

Ma poi mi racconti, però.

Ti racconto cosa?

Un’ora dopo riprendiamo l’auto e ci riavviamo verso casa. Thomas ha il volto diverso dalla mattina. Durante il tragitto di ritorno restiamo in silenzio, la musica che suona l’impianto infonde pace, eppure io mi sento vibrare nel profondo qualcosa che non capisco. Non capisco perché mi senta così e vorrei gridare, urlare come un forsennato, vorrei dirgli di dirmi cosa cazzo sta succedendo. Si è presentato qualche tempo fa, dicendomi del sogno, di questa donna, Isabella, e poi più nulla e questo mi scombussola, mi tortura l’anima, perché in fondo sono curioso, perché sono un tipo che vuole saperle le cose, le vuole sapere, poi non è importante se si riesca a sopravvivere alle conseguenze che la realtà ci provoca.

Purtroppo, anche questo sabato si concluderà come al solito, una bottiglia di vino, la notte accennata tra le commessure della porta e la barbarie del risveglio.

Passerà un’altra settimana, e la passerò di nuovo sui libri, in attesa di apprendere il senso di quelle pagine, il senso del mio vivere in questa quiete accesa, fino al sabato successivo e la domenica.

Thomas questa volta non è venuto. Abbiamo saltato per la prima volta dopo tanto l’appuntamento dei giorni di ristoro dal lavoro, dallo studio, forse dalla vita. Trascorro il venerdì sera rinchiuso nella mia tana, con la pioggia che sferza i rami scheletrici di acacia, gocce pesanti che flagellano il muro di parapetto fin giù sul cemento, come un inchino alla sera che non ne vuole sapere di svanire nella notte. E così il sabato e così la domenica.

Il lunedì mattina del ventotto di un aprile ancora fradicio del fine settimana trascorso prendo l’auto e vado a farmi un giro. Imbocco alla mia sinistra, verso la montagna. Dopo due curve eccola comparire magnifica su uno sfondo di cielo azzurro, pulito, vero, come una lacrima di contentezza. Affronto le due curve a un’andatura piuttosto azzardata, a me piace azzardare, amo la velocità, il fatto che a ogni curva non sai mai se avrai la possibilità di spuntarne un’altra.

Raggiunto lo spiazzo della Piana delle mele, nel bel mezzo del bosco, senza fermarmi giro e mi riavvio verso casa.

Quando scendo dalla macchina mi assale l’odore delle foglie di olivo e quelle delle frasche di alloro che circonda la proprietà di mio fratello, nella quale è ritagliato il mio piccolo spazio. Mi avvio giù per la rampa di accesso al garage, alzo lo sguardo alla finestra. Mi accendo una sigaretta e rincaso. Mi tolgo il giubbino e mi siedo sul divano, prendo il telecomando, accendo la tv e inizio il cammino della successione meravigliosa dei canali. Dal momento in cui mi domando chissà che fine abbia fatto Thomas allo squillo del telefono passano circa otto ore.

Pronto?

È Thomas che mi sta telefonando.

Dimmi…

Non prendermi per pazzo, mi dice.

Se non l’ho fatto fino ad ora…

E una domenica mi dice del vulcano, che aveva pensato fosse una montagna come la nostra e invece era un vulcano e che glielo aveva detto Isabella.

La vita, la conseguenza di un’esplosione da non si sa cosa e poi uno che sogna una donna e che vuole imparare lo spagnolo: e qual è il problema. E questa cosa mi entusiasma, riattizza il fuoco del cuore che sento si stia spegnendo, attraverso lui scorgo di nuovo alcune direzioni, almeno questo è quello che sento adesso. Gli propongo di andare in montagna, il giovedì è primo maggio e ci avventureremo su per quei sentieri.

Il giovedì era festa e Thomas si svegliò molto prima che sorgesse il sole. Si affacciò dalla finestra della camera e allargò lo sguardo sulle colline che scendevano fino a valle per poi risalire in sinuosità rigogliose di alberi di olivo, inframezzati da campi arati, filari di viti allineati verso il lato più esposto al sole. Alla sua sinistra, da quell’altezza vedeva le increspature dei calanchi, come rughe della terra, come il ricordo di una bellezza atavica, e al di là il mare all’orizzonte.

Stette assorto in quella posizione per una mezz’ora, cercando di ricordare se l’avesse sognata. Ma le ultime due notti furono vuote, buie, silenziose, inesistenti, furono due notti segnate da una stanchezza tale da catapultarlo direttamente nella direzione del giorno come una nascita, senza memoria del corpo, della coscienza. Furono come due notti in cui si sperimenta la possibilità del nulla.

Thomas osservava l’orizzonte ed era assorto in questi pensieri senza una forma, senza che si producessero in sequenze razionali di comprensione. Guardava il sole che sorgeva dalle acque e si sentiva così.

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