LA STANZA SENZA LUCE di Daniele Costi

Credo sia la terza volta che mi ripete la stessa domanda.

Diligentemente rispondo altrettante volte.  Ho provato anche a far finta di pensarci bene, ma la mia capacità di recitazione evidentemente non risulta abbastanza convincente!

«Non ricordo proprio! Come le dicevo prima, vedo mio padre che mi tira a sé, come a farmi scudo dall’arrivo di quell’auto maledetta; e poi il nulla, fino al mese scorso quando mi sono svegliato in questo incubo!»

Sono oramai diverse sedute che faccio con lo psicologo dott. Matri. Lui è convinto che io debba scavare nella memoria di quella sera per risolvere il mio problema di insonnia.  Situazione che, oramai, mi accompagna spesso la notte dopo i soliti sogni di morte.

«Ok Matteo!  Non ti preoccupare avremo tempo e modo. Intanto ci tengo a farti sapere che sono qui per te e per qualsiasi cosa tu abbia bisogno, ok?»

Mi poggia la mano su una gamba e mi saluta. Io rispondo con un cenno della mano.  Vedo lì, sul pavimento del suo studio, riversate, tutte le mie budella. Viscere che lui mi ha involontariamente strappato via, con quel gesto che ho potuto vedere ma non sentire!

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 Era una sera di fine giugno, quella sera.

Mio padre ed io, dopo cena, eravamo scesi a buttare l’immondizia. Come d’abitudine, ero sceso col pallone perché ci piaceva giocare un po’ nel parcheggio prima di risalire. Da quella sera non siamo più tornati a casa.

L’unica cosa che ricordo sono quei fari accecanti; l’aurea di luce attorno a mio padre; la paura dei suoi occhi; e la stretta del suo corpo attorno al mio.

Poi un rumore sordo, il nulla per 45 giorni.

Mi sono svegliato su un letto di ospedale pensando di aver fatto un brutto sogno, senza la minima idea del perché tutte quelle persone col camice si affannassero tanto intorno a me e cosa stessero dicendo.

Poi … di nuovo il buio.

Una mattina, appena riaperti gli occhi, vidi mia madre e mia sorella Vittoria, accanto al mio letto, che piangevano e ridevano nello stesso tempo. Mi toccavano e mi baciavano stringendomi con lo sguardo acceso come fossi una specie di visione.

Io avrei voluto dire tante cose. Soprattutto avrei voluto che qualcuno mi spiegasse cosa fosse successo. Dalla mia bocca, però, uscivano solo rantoli incomprensibili.

Quella giornata passò tra sonni improvvisi e infermiere sorridenti e disponibili.

Poi, affrontai la prima sfida del mangiare o, meglio, del bere qualcosa.

Fu una sensazione quasi dolorosa. Ero immobilizzato nel letto. Non riuscivo a fare niente. Vedevo, però, che tutti erano contenti intorno a me, felici come se avessero vinto qualche premio. Questo mi rincuorava, nonostante non capissi molto e tutto sembrasse come ovattato, a volte paradossale. Ero confuso e felice allo stesso momento.

Le prime risposte non tardarono ad arrivare.

Venne il tempo di sapere.

L’ingrato compito se lo prese mia madre. Lei ha di natura un viso ridente. Uno di quei volti che di default hanno un sorrisetto anche quando sono assolutamente seri.

Quello sguardo non lo dimenticherò mai. Era rivolto leggermente verso il basso. Gli occhi lucidi, iniettati di sangue per lo sforzo nel trattenere il dolore e le lacrime.

«Amore di mamma! Nell’incidente, purtroppo, papà non ce l’ha fatta!»

Come fosse sdoppiato, il mio corpo si abbandonò in una specie di contorsione e, contemporaneamente, subì una compressione. Nello stesso tempo la testa, le orbite sembrarono scoppiare. Ebbi la sensazione che la mia mente e il mio corpo non potessero contenere un dolore così grande e forte.

Fu allora che realizzai come tutto fosse cambiato per sempre.   

Le mie gambe sembravano stare da un’altra parte. Erano assenti. Guardai mia madre intensamente negli occhi con la paura pulsante nella gola della sua risposta.

Non disse nulla; ma in realtà tutto!

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Oggi festeggio il primo complemese sulla sedia a rotelle. Il primo di tutto il resto della mia vita!

Questa notte, puntuale, il solito sogno in cui attraverso la strada con papà, la macchina che sfreccia, lo stridio degli pneumatici, lui che mi copre col suo corpo, i fari accecanti e boom. Sveglio fino a mattino!

Continuo le terapie e faccio palestra con Samanta, la mia preferita. Ha delle tette enormi e ogni volta che si piega in basso verso di me, lancio gli occhi dentro al camice. E poi ha un buon profumo di bucato. Sa di pulito e di casa.

Non ci torno da quasi tre mesi ma, come finalmente mi ha detto anche il Dott. Matri alla seduta di oggi, sono al capolinea, e posso tornare a casa già da domani.

Tra l’altro dovrò tornare a scuola! È il mio primo anno di liceo e, anche se è l’ultima cosa che vorrei, sono costretto! Non è sempre stato così, prima dell’incidente non vedevo l’ora di tornare a scuola. Ora, però, tutto è cambiato. Io sono cambiato, anzi, sono uno diverso!

Com’è che si dice? “Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo!”

Beh, mi sento dentro queste parole. Voglio proprio dimenticare il concetto del mio futuro. Il domani mi terrorizza. Mi appare come un macigno da sotto il quale so già di non avere la forza rialzarmi, come questi metri che percorro sulla rampa degli storpi mentre tutti gli altri si rallegrano e salutano amici e compagni sugli scalini dell’ingresso dell’istituto Ernesto Nathan di Roma.

Così ricordo il primo giorno di liceo.

Sono oramai giunto al secondo mese di scuola. Tutto sommato, è andato piuttosto bene. Sono riuscito a non fare amicizia praticamente con nessuno; a restare al banco da solo; a non partecipare alle due feste di compleanno, di cui non avrei dovuto sapere nulla ma, sbadatamente, dal bagno degli storpi dove stavo pisciando ho potuto ascoltare il bello Michael che invitava al suo compleanno il leccapiedi Paolo e gli spiegava come er rotella non dovesse sapere nulla.  Ovviamente, ho capito subito che non si riferivano a uno fuori di testa, ma al sottoscritto che si è meritato il titolo di diversamente escluso.

Perché dovrei partecipare ad una festa dove si balla, ride, scherza, fuma, beve e si limona?

La cosa mi ha ferito. In verità, però, non ho avuto il coraggio di uscire da quel bagno. Ho aspettato almeno dieci minuti prima di farlo.

È un paradosso pensare di non farsi vedere per evitargli l’imbarazzo di essere stati scoperti ed ascoltati. La vergogna è la loro. Io, tuttavia, l’ho fatta mia.

In compenso mia madre ha un nuovo amico.

Li ho beccati dalla finestra di casa mentre si baciavano nel parcheggio.

Ci sono rimasto male. In fin dei conti, è giusto che si dia un’altra possibilità.

Solo che tutto è così presto! È un suo collega di lavoro! Me lo ricordo bene perché nel salone avevamo una foto del Natale di due anni fa che facemmo con degli amici e colleghi di mamma e papà. Lui venne con suo figlio che, tutta la sera, non fece che parlare della Lazio e del provino che aveva fatto e che lui era nelle giovanili, ecc. L’anno successivo papà non volle nessuno a casa.  Eravamo solo noi, la famiglia, ed è stato il più bel Natale che io ricordi e rimarrà anche l’ultimo!

Come può esistere un altro Natale senza papà!

Mi manca e non riesco a sopportala questa assenza che mi corrode ancor di più per via del fatto che tutti sembrano aver trovato una loro nuova dimensione mentre io ancora non riesco ad andare oltre, nemmeno a portargli un fiore sulla tomba.

Mi sento in colpa perché al funerale non ci stavo. Sì, ero in coma! Ok! Ma perché non ci sono rimasto? Perché non sono con lui adesso? Alla fine, non credo proprio che sia stato così conveniente alzarmi da quel letto di ospedale per cadere per sempre su questa cazzo di sedia!

Sono sempre alle prese con la terapia e le sedute le quali non mi aiutano nei ricordi e nemmeno curano le mie notti bianche.

Doc. vuole fare l’ipnosi (con il dottor Matri siamo più confidenti ora e lo chiamo semplicemente Doc). Mi ha spiegato che posso rivivere quella sera come fossi di nuovo lì. Anche se mi fa paura, lo farei subito pur di sentire ancora adesso un minuto di vita con papà. Mia madre dice che ha letto da qualche parte che è pericoloso e non ha accettato nonostante la mia volontà. A quattordici anni non si ha libero arbitrio.

«Matteo non ti devi scoraggiare, vedrai che troveremo un’altra strada per scavare più a fondo. Non vuoi parlarmi di altro? Come sta andando a scuola? Hai fatto amicizie? Gli studi ti creano problemi? Se vuoi, raccontami qualsiasi cosa, fai pure, il tema è libero, per me va bene tutto.»

«Doc, io mi sento l’unico che veramente ha capito che papà non c’è più! Cioè, voglio dire che sembra che a nessuno freghi niente di niente!»

«E questa cosa ti fa sentire solo?»

«Sì, credo di sì! Sa che non sono andato neanche sulla sua tomba a portare un fiore?»

«Tutto a suo tempo! Lo farai sicuramente quando sarai pronto, non ti devi sentire delle scadenze addosso o, peggio, delle colpe! Adesso hai bisogno di essere Matteo e prenderti cura di te stesso!»

Esco dallo studio. Forse, per la prima volta, mi rendo conto di aver detto ciò che sento veramente. Almeno un po’.

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Buio pesto. Fa freddo. Sono in pantaloncini e ciabatte.

Non vedo niente. Eppure, so che lì davanti deve esserci qualcosa.

Sbatto le palpebre per potenziare la mia vista notturna.

È inutile! Continuo a camminare senza vedere dove metto i piedi. A piccoli passi avanzo nell’oscurità.

Gli altri sensi si acuiscono. Sento un lontanissimo rumore provenire davanti a me, come il ronzio di un aspirapolvere. Poi una vibrazione mi sale dai piedi alle gambe. Ora il suono è più vicino. Istintivamente, mi sposto alla mia destra e inciampo in qualcosa. È buio e non capisco. Provo a rialzarmi, ma non ci riesco più. Il suono adesso è forte. Vicino, il buio da nero diventa grigio.

I miei occhi delineano i contorni della figura che mi sta accanto, distesa a terra, come me.

Pare una persona.

Papà?

Papà sei tu?

Non una risposta!

Non riesco a muovermi. Qualcosa mi cola dalla fronte e mi entra nelle orecchie.

Ho paura!

Mi sento morire!

La cosa calda è entrata tutta. I suoni, ora, sono ovattati. Non sento più bene. Solo un rantolo. Proviene dalla figura accanto a me.

C’è un lampo. La luce di un attimo illumina il volto insanguinato.

Il suo braccio e la sua mano sono tesi verso di me. Vogliono afferrarmi!

Urlo, mi sveglio…!

«Matteo sei sveglio?”

«Dobbiamo andare! Facciamo tardi anche oggi! Vedrai che, prima o poi, la preside mi chiamerà!»

«Mamma! … »

Un fiotto di vomito mi interrompe ….

«Matteo! Dio mio, stai male? Guarda, sei tutto sudato! Ma, cosa hai figlio mio! Dimmi!»

«No, scusa mamma! Devo aver fatto indigestione! Adesso sto meglio! Ma, per oggi, posso restare a casa?»

«Certo amore! Adesso ripuliamoci un po’! Così ti sistemo, e posso andare a lavoro!»

Sono oramai abituato ad essere aiutato nelle funzioni di igiene da mia madre.

Certo, non è piacevole ma che scelta ho?

Mentre lei mi ripulisce e aiuta a cambiarmi, io rimango appeso all’incubo.

Quel sangue, la luce! … Mi hanno colpito nel profondo. Sento che quel volto insanguinato era papà. Nonostante non fosse la sua faccia. Aveva le sembianze di Carlo, il nuovo compagno di mamma.

Che matassa ingarbugliata è la mia testa!

«Tesoro! Allora come ti senti? Stai meglio adesso?»

«Sì, mamma! Vai tranquilla! Semmai, ti scrivo su WhatsApp, più tardi

Si avvicina. Ha il suo solito profumo intenso e fresco di spruzzata.

Un bacio di saluto.

«Allora, il pranzo è pronto. Lo scaldi nel microonde. Il letto l’ho rifatto, così se vuoi riposarti è pulito. Io vado. Ci sentiamo più tardi. Ciao, amore!»

«Ciao, ma’!»

Questa storia mi sta tormentando troppo.

La devo scrivere.

Accendo il computer e butto giù tutto il sogno.

Già che ci sono, invio tutto a Doc tramite mail.

Così, alla prossima seduta abbiamo un nuovo argomento di cui discutere. Sto entrando in sintonia con lui. Alla fine, che sia un poliziotto non mi disturba più come all’inizio, quando le sue sedute sembravano degli interrogatori.

Poi, dopo l’archiviazione per mancanza di prove del caso di omicidio stradale, siamo diventati più intimi e sono riuscito ad aprirmi di più, soprattutto dopo la promessa che mi ha fatto di trovare il colpevole di tutta questa merda!

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«Matteo, devo dire che dobbiamo assolutamente lavorarci su. Capisco la mamma e le sue preoccupazioni, ma io inizio a preoccuparmi per te. Sai che ruolo occupo nei carabinieri. Puoi fidarti se ti dico che non rischi nulla. Farò in modo che tutto fili liscio e sarà il nostro segreto. Ci stai?»

«Doc, io mi fido di lei. Non vorrei fare un torto alla mamma che davvero ne ha passate tante. Non è stato facile neanche per lei. Anche io inizio a non poterne più. Ogni volta che viene sera, steso sul letto, penso e ripenso, inizio ad avere l’ansia e, guardando continuamente la sveglia sul comodino, ora dopo ora, spesso si fa mattina! Quindi, proviamo! Al massimo, se non va, ci fermiamo!»

Iniziamo subito.

È predisposta una telecamera per riprendere il tutto.

Doc mi ha spiegato di come sia importante che tutto sia filmato e che, assieme, rivedremo la seduta ipnotica per darmi una maggiore consapevolezza sul metodo e l’efficacia.

Ricordo appena le parole pronunciate. Ricordo bene, invece, il monotono, pacato e profondo della sua voce. Poi, in effetti, mi sono svegliato come se avessi fatto il sonno migliore dell’ultimi sei mesi!

«Come ti senti Matteo?»

«Come se avessi dormito per due giorni interi!»

«Sono passati appena 15 minuti. Hai risposto molto bene. La prossima volta aggiungiamo tempo.

«Cosa è successo? Mi racconti!»

«Questa volta abbiamo fatto un test in cui semplicemente ti ho chiesto chi sei, dove vivi, il tuo colore preferito, … rosso, …  solo un piccolo test, appunto.»

«Rosso! Da piccolo tifavo solo per quelli che avevano una maglia, auto o moto rossa! Ancora oggi è così! Deriva tutto dalla Ferrari! … Sono convinto che il rosso rappresenti, in qualche modo, l’Italia!»

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Mi congedai e felice tornai a casa.

Mi sentivo meglio, rilassato, e andai a letto dopo cena pensando alla prossima seduta e cosa sarebbe successo.

La settimana trascorse monotona e noiosa.

I miei sogni insanguinati si presero buona parte delle mie notti.

Il restante tempo era desinato al contro soffitto doghettato della mia camera. Quel tipo di isolamento lo aveva fatto mio padre, con le sue mani. Molte cose in quella casa mi parlano di lui.

Passata la seconda e terza seduta di ipnosi, stessa sensazione di benessere. Iniziavo ad averne dipendenza.

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Questa volta siamo arrivati a quasi un’ora consecutiva.

Doc, però, appare più riservato. Infatti, non parliamo più di quello che ho detto in seduta. «Molto presto ci metteremo davanti allo schermo a vedere i fatti salienti, popcorn compresi,» ha detto testualmente «proprio come al cinema!»

Beh, non vedo l’ora! Sono curioso e divertito, quasi eccitato dall’assistere alle stronzate che sono stato capace di dire. A dire il vero, ho un po’ di timore, per via del fatto che, spesso, le notti insonni le passo guardando i porno sul telefonino. Chissà che non sia passata anche questa confessione. Ho provato a fare qualche domanda a Doc in proposito. Ma, lui è stato decisamente ermetico. Mi ha rimandato sempre al discorso del cinema che, prima o po,i ci saremmo goduti.

In realtà, l’inverno è passato veloce. Questo Natale è stato il più inutile e merdoso della mia vita, con a tavola Carlo e suo figlio che, stavolta, è il nuovo Bruce Lee perché fa KungFu. Come se a me fregasse qualcosa di come dare calci e pugni! … Svegliaaa, …  cazzo! … Sono su una sedia a rotelle! …

Gli avrei voluto urlare in faccia! Ma, come sempre, sono io il primo a vergognarmi per loro; e fingo interesse, subendo l’interminabile sciorinamento di tutte le sue migliori super doti fisiche e prestazionali!

C’è, però, una nota positiva. A scuola ho stretto amicizia con una ragazza, Sara. Non è quello che si dice una bonazza. Ma, già il fatto che sia stata lei ad attaccare bottone con me, la fa diventare la migliore di tutte!

Bionda; occhi chiari; bocca carnosa; fisicamente ben formata, nonostante la sua acerba età; un seno abbondante; curve morbide sui fianchi; un sorriso meraviglioso e contagioso. Grazie a Sara, esco spesso da casa e non solo per le sedute. Mi ha presentato a tutti i suoi amici mettendomi in guardia da quelli imbecilli. E poi, abbiamo un sacco di cose in comune, giochiamo molto alla consolle, vediamo le migliori serie TV e mangiamo chili di popcorn e gelato, fino a che non vediamo il fondo.

Il giorno del mio compleanno, il 23 aprile, è venuta a casa mia e ci siamo visti una stagione intera di The Walking Dead on demand. Poi, ha tirato fuori un pacchetto. Era una maglietta della Ferrari. Soprattutto, quel giorno, ci siamo baciati. Sapevo già tutto su come fare certe cose, ma la sensazione non si vede, si vive! È stato il più bel bacio del mondo. Dal sapore unico della prima volta, almeno per me, perché Sara era già molto più avanti e, sapientemente, mi teneva e accarezzava la faccia con delicatezza infinita. Non ci è voluto molto affinché lei si accorgesse che non tutto era morto nelle mie parti basse!

«Matteo, sapevo che eri uno pieno di sorprese; e qui ce ne sta una molto interessante!»

Rideva. Ma, in un modo diverso. Mentre io mi sentivo imbarazzato, lei sembrava felice e, in pochi secondi, i suoi interessi sono andati più giù e, in altrettanti pochi istanti, mi sono sentito come il primo uomo sulla Luna!

 

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Eravamo assieme, io e Sara, quando abbiamo sentito suonare alla porta.

Era Doc:

«Matteo, è arrivato il momento del nostro cinema, come promesso!»

Abbiamo accompagnato Sara a casa sua poi ci siamo diretti alla caserma dei carabinieri.

«Ho predisposto tutto. Per la mamma stai tranquillo! L’ho già sentita io e avvertita. È stata lei che mi ha detto che ti avrei trovato a casa!»

Sistemati in una stanza, con dei monitor e delle telecamere, ci sono dei carabinieri. Uno, in particolare, davanti ad una specie di mixer che dà il via al video.

Eccomi lì, al centro dell’immagine.

Con gli occhi chiusi, racconto di quella sera maledetta.

Dopo pochi minuti, quello che sento mi raggela!

«Papà!» urlo forte.

Lo vedo insanguinato, a terra accanto a me. Non riesce a parlare, ed io a muovermi … Mi tende la mano.

Per un attimo sento la sua mano sfiorarmi la testa.

Poi sento dei passi.

Giro gli occhi. Vedo gli stivali neri, con la punta ricamata.

Quell’uomo si china verso mio padre. Poi si gira a vedere me.

«Quest’uomo parla? Dice qualcosa?»

«Si, dice che non doveva essere così!»

«Lo vedi in faccia? Lo conosci?»

«Sì, è Carlo!»

«Carlo! Il collega di tua madre?»

«Lui, sì!»

LA STANZA SENZA LUCE È UN RACCONTO di Daniele Costi

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